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Il ruolo della globalizzazione sui cambiamenti climatici


               ne e tradizione democratica, c’è infatti una crescente “frustata di ritor-
         FOCUS no” contro la globalizzazione. Si tratta in primo luogo di una triste
               “guerra tra poveri”, tra operai americani che non trovano più le condi-
               zioni salariali cui erano abituati e ex-contadini cinesi cui la delocalizza-
               zione produttiva ha per la prima volta offerto un posto in fabbrica, an-
               che se a una frazione (un ottavo) del salario che offriva un tempo
               Detroit. Ma si tratta anche di una reazione della società nel suo insieme,
               una reazione che è in gran parte giustificata dall’eccessivo potere assun-
               to da pochi centri “globali” di potere industriale e, soprattutto, finan-
               ziario, e dalla conseguente iniqua appropriazione di una quota crescen-
               te della ricchezza mondiale da parte di una ristrettissima oligarchia in-
               ternazionale (circa lo 0,005 per mille della popolazione del pianeta).
               Contemporaneamente sempre più inefficienti e inefficaci diventano gli
               strumenti di ridistribuzione e di protezione, perché – organizzati su ba-
               se statuale, così come previsti per il quadro degli Stati nazionali sono i
               meccanismi della democrazia – non risultano più adatti a “mordere”
               nel nuovo contesto globale.
                  Qualche anno fa, questo “antiglobalismo sociale” si manifestò a
               Seattle, in una sorta di sommossa contro la Banca Mondiale ed il FMI,
               sommossa la cui responsabilità venne imputata ad ambienti giovanili si-
               mili a quelli dei nostri “centri sociali”, ma che in realtà non sarebbe stata
               così dirompente se il vertice finanziario mondiale non avesse avuto luo-
               go in una città industriale dove da varie settimane era in corso un’agita-
               zione dei lavoratori metalmeccanici. I governi furono colti di sorpresa
               dal dissenso espresso direttamente dalla società, ed in seguito hanno
               scelto le sedi per questo tipo di vertici in località praticamente spopolate.
                  Esiste tuttavia anche un antiglobalismo di tipo diverso, di tipo prote-
               zionista, che non viene dalle società civili, ma dai governi, e che trova
               terreno fertile nelle tecnocrazie vicine al potere politico degli Stati na-
               zionali, che hanno perso potere rispetto alle oligarchie e alle “reti” tran-
               snazionali, e che tentano di recuperare qualcuno degli strumenti classici
               delle tradizionali rivalità tra Stati: rivalità che Washington già incomin-
               cia a sentire nei confronti di Pechino, vista come una potenziale minac-
               cia all’equilibrio puramente unipolare venuto a determinarsi dopo il
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               crollo dell’Urss. È questo antiglobalismo quello che l’Amministrazione
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