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Il ruolo della globalizzazione sui cambiamenti climatici


            alcuni pretesi “esperti”, assai sensibili agli interessi delle attività inqui-
            nanti, per scaricare su una generica “comunità internazionale” il dovere  FOCUS
            che invece tocca a ciascun governo di combattere con apposite leggi le
            attività inquinanti in primo luogo all’interno delle proprie frontiere. A
            che serve, ci dicono alcuni di questi personaggi, applicare il principio di
            prudenza nell’autorizzazione a centrali atomiche o a sementi genetica-
            mente modificate, se in altri Paesi si può liberamente avvelenare il suolo
            e l’aria, cioè avvelenare indirettamente il mondo intero? E se ne trae in-
            centivo non più alla responsabilità collettiva del genere umano, ma alla
            gara a quale Paese sia più irresponsabile.
               In questo quadro assai desolante, alla fine di settembre si sono visti i
            segni di una sterzata del tutto inattesa, venuti per di più da uno dei mas-
            simi esponenti di questo atteggiamento irresponsabile, da quello che è
            stato sinora il più ostinato avversario di ogni politica di contenimento
            delle emissioni di gas serra, il presidente americano George Bush. Su
            suo invito, infatti, si sono riuniti a Washington i rappresentanti di quin-
            dici Paesi che avevano in comune la poco onorevole caratteristica di es-
            sere i più grandi inquinatori del mondo. E davanti a questo improbabile
            pubblico il presidente degli Stati Uniti ha preso, a nome del suo Paese,
            un mezzo impegno a diminuire le emissioni di gas carbonico.
               Spontaneo ed unanime è stato chiedersi quali fossero le ragioni di un
            così repentino mutamento, di questo cambiamento di passo rispetto al-
            la sua ostinazione a tenere l’America fuori dal trattato di Kyoto, e si è
            suggerito che si tratterebbe di un tentativo di porre in qualche modo ri-
            medio alla drammatica caduta di popolarità dovuta al fallimento della
            spedizione irachena. Si tratterebbe in tal caso di una risposta ad una
            preoccupazione piuttosto diffusa nell’opinione pubblica americana, e
            quindi di un segnale da considerare indubbiamente positivo. Ma c’è an-
            che un’altra possibile spiegazione: che si tratti di un tentativo di ridurre
            la pressione concorrenziale dei prodotti industriali provenienti da alcu-
            ni Paesi del Terzo mondo, il cui recente sviluppo rappresenta uno dei
            pochi aspetti veramente positivi della cosiddetta “globalizzazione”. E      8
            che si tratti quindi di un tentativo demagogico di sfruttare il sentimento  n.
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            antiglobale degli americani.                                                III
               Negli Stati Uniti, come in molti Paesi di più antica industrializzazio-
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