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Maltrattamenti animali e violenza


            camente regolamentati, permette che sia sdoganata quale necessità, dove-
            re, cultura, ed esonera conseguentemente dall’imperativo morale di
            interrogarsi al proposito.
               L’altra direzione è relativa ai maltrattamenti e alle violenze praticate
            con il gusto di provocare dolore, in assenza di qualunque motivazione che
            non sia il piacere che se ne trae; in altri, invece, di comportamenti non
            accettati, perseguibili nei casi più gravi a norma di legge, considerati
            variamente esecrabili, quindi di maltrattamenti veri e propri o di com-
            portamenti che prescindono da qualsiasi attenzione per le esigenze di spe-
            cie dell’animale e risultano di conseguenza fonte di grande sofferenza.
               Per quanto riguarda il primo gruppo, i meccanismi che permettono di
            esercitare una violenza estrema, ma non riconosciuta, quella che in tanti
            diversi modi supportiamo con i nostri stili di vita, sono frutto dell’intera-
            zione di complesse dinamiche, anche di tipo psicologico, che si rafforza-
            no vicendevolmente.
               In uno sforzo di sintesi, si può fare riferimento prima di tutto alla cor-
            nice cognitiva all’interazione di molti all’interno della quale questi com-
            portamenti vengono posti: dal momento che la nostra cultura considera
            l’uomo al centro dell’universo, la diversità degli animali rispetto a noi
            viene connotata quale inferiorità.
               L’idea degli animali quali essere inferiori contro i quali tutto è leci-
            to, suffragata per millenni da religioni e filosofie, ci impregna talmente
            che traspare dal linguaggio comune, che abbonda di espressioni che li
            connotano in modo dispregiativo, denigratorio, offensivo, in riferimen-
            to a loro vere o presunte caratteristiche, a prescindere dalla reale cono-
            scenza che di essi abbiamo. I termini stessi “animale”, “bestia” sosten-
            gono e rafforzano  l’idea di bassezza, di istinti e pulsioni fuori dal con-
            trollo: “non sono degni di essere chiamati uomini”, “si comportano
            come bestie”, “sono veri animali”, “solo una bestia lo farebbe”. Tutte
            queste sono espressioni comuni nel nostro modo di esprimerci, che tro-
            vano la loro apoteosi ogni qualvolta i fatti di cronaca ci mettono di fron-
            te ad azioni particolarmente odiose, delitti efferati e a ignominie ine-
            narrabili. Implicitamente e costantemente il linguaggio veicola la
            sovrapposizione del concetto stesso di animale a quello di essere infame,
            dotato di istinti crudeli, irrazionali e inaccettabili, per natura portato a
            comportamenti efferati, lontani da quelli tipicamente umani. Per altro
            l’uso di dispregiativi attinti dal mondo animale (cani rognosi, topi di
            fogna, pidocchi) è sempre stato funzionale a sollevare istinti aggressivi
            contro il nemico di turno: sono gli epiteti dati agli ebrei nel periodo delle
            persecuzioni naziste, ma anche ad altri nemici in moltissime guerre pre-
            cedenti e rinnovati in occasione di ogni moderno genocidio. Basti pen-

                                                              SILVÆ - Anno V n. 11 - 63
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