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Dall’antropocentrismo all’affermazione dei diritti animali
La nascita del pensiero umanistico non migliora la posizione degli esse-
ri animali considerati come esseri privi di valore specifico in confronto
all’essere umano e ancor di più il razionalismo giuridico e filosofico cata-
loga gli animali come pure macchine incapaci di sentire alcunché, sono “i
bruti privi di pensiero” di Cartesio.
L’autorevolezza e il lungo sviluppo della concezione antropocentrica
non hanno comunque impedito il manifestarsi di impostazioni volte, in
misura variabile, a riconoscere un diverso ruolo agli animali.
Il cammino alternativo all’antropocentrismo può dirsi avviato con la
così detta “morale della simpatia” (Hume) la quale, basandosi sul dato
empirico sostiene che gli animali nel compiere le azioni quotidiane
appaiono guidati da un certo grado di razionalità che, pur differendo da
quella degli umani, è da riconoscersi come ragione e non mero istinto.
Anche gli animali, infatti, potendo provare sensazioni di gioia e di dolo-
re, indirizzano le proprie azioni per evitare il dolore ed ottenere la gioia,
e per questo gli umani, nei confronti degli animali, devono limitarsi alle
azioni che procurano gioia e che per tale connotazione sono gradite dal
punto di vista morale. Questo modo di ragionare costituisce uno dei fon-
damenti del così detto “animalismo compassionevole”, che pur avendo il
merito di avere sfatato molti dei preconcetti esistenti rispetto alle carat-
teristiche dell’azione animale, risulta comunque eccessivamente legato al
dato umano e al principio della compassione. Accanto alla morale della
simpatia si colloca la “teoria dell’utilità” (Bentham) che tenta di uscire
dall’illuminismo razionalistico e astratto, sostituendo al criterio della
ragione quello più concreto dell’utilità, per cui il fine principale della
morale (ma anche del diritto) deve essere quello di cercare di procurare
la massima felicità possibile al maggior numero di uomini, o meglio cer-
care di evitare al maggior numero di uomini ogni sofferenza ingiustifica-
ta. Considerando che anche gli animali sono in grado di provare soffe-
renza, l’utilitarismo si estende anche ad essi, per cui è un dovere mora-
le preoccuparsi dei piaceri e delle sofferenze degli esseri animali tanto
quanto di quelli degli esseri umani. Il principio cardine dell’utilitarismo
è la “massimizzazione del piacere”, non del singolo individuo ma della
società nel suo complesso: insomma, “la giustizia è la felicità del maggior
numero”. Sono queste riflessioni a costituire il punto di partenza del
“neoutilitarismo” (Singer) che si spinge sino ad affermare la necessità
dell’applicazione del principio di eguaglianza anche al rapporto uomo-
animale, perché solo tale principio è in grado di combattere quella forma
di pericolosa discriminazione che è lo “specismo”. Il neoutilitarismo non
mira ad equiparare totalmente l’uomo e l’animale, ma prospetta l’elimi-
nazione (per quanto possibile) di qualsiasi tipo di sofferenza per ogni
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