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LA RESPONSABILITÀ AMMINISTRATIVA NEL CONTESTO DEL DEFINITO SISTEMA DEI DOVERI
                                         DI UN DIPENDENTE PUBBLICO




                    Molto di questo lavoro era stato fatto (Progetto FEPA, 1981-1988), ma
               non ci fu alcun richiamo - da parte della nuova governance (Governo Ciampi) - agli
               esiti che esso aveva prodotto. Invece, da quel momento si pensò di puntare l’at-
               tenzione sul “sistema dei doveri” dei dipendenti, delle diverse specie di dipen-
               denti pubblici, costruendo, in mancanza di quel minimo di fiducia che avrebbe
               dovuto  essere  coltivata  dai  dirigenti  nei  riguardi  dei  propri  collaboratori,  un
               “sistema dei doveri” sempre più parcellizzato, e per questo incapace di cogliere
               nei comportamenti del singolo le anomalie.
                    Il  sopraggiungere,  a  periodi  alterni,  di  notizie  sempre  più  allarmanti  di
               eventi corruttivi ha finito per dare ragione a quella parte di opinione pubblica
               che si era rappresentata una situazione di esistenziale collusione tra politica e
               amministrazione. E che avrebbe voluto che la punizione di pochi potesse servire
               ad educare i molti (anche essi potenzialmente corruttibili). Mentre ci si dimentica
               di puntare all’applicazione di un sistema universale di lotta alla maladministration,
               che veniva offerto dalla legislazione nuova costituita dal d.lgs. n. 29/93, si cerca
               di implementare quel documento che viene indicato con il termine anglofilo di
               “Codice di comportamento”. Si tratta (allora come adesso) di un esercizio che
               risulta confacente alla cultura giuridica imperante (quella degli Uffici Legislativi
               dei Ministeri), e che può essere sbandierato dal decisore politico come un rime-
               dio concreto (?) da ostentare - come unico o possibile rimedio - agli occhi e al
               cuore del popolo. Lo era sicuramente meno il metodo della “misurazione dei
               rendimenti” (individuali e collettivi) che avrebbe dovuto essere posto a base del
               “controllo di gestione”, che andava inteso come controllo della produttività di
               ogni dipendente, e tale da riuscire, finalmente, a premiare il merito. Ma il percor-
               so di ammodernamento della Pubblica Amministrazione non si è presentato così
               facile, tanto che, a fronte di uno stato di confusione sui termini usati e sui signi-
               ficati da attribuire ad essi, sei anni dopo, nel 1999, viene alla luce il d.lgs. n. 286.
                    Ed è nella chiara definizione dell’obiettivo del “controllo di gestione” che
               si coglie la “visione unitaria” che si dovrebbe avere del complesso dei doveri, di
               cui si deve dar carico qualsiasi dipendente pubblico, e delle responsabilità conse-
               guenti al loro puntuale rispetto: «…verificare l’efficacia, efficienza ed economi-
               cità dell’azione amministrativa al fine di ottimizzare, anche mediante tempestivi
               interventi di correzione, il rapporto tra costi e risultati (controllo di gestione)» .
                                                                                         (12)
                    Lo stesso Legislatore, al fine di non consentire interpretazioni fasulle della
               nuova forma di controllo interno, specifica quale debba essere il modello orga-
               nizzativo che ogni Amministrazione avrebbe dovuto impiantare.

               (12)  V. F. Di Carlo, Il controllo di gestione nelle Pubbliche Amministrazioni, in Il controllo indipendente esterno. Diversi
                    oggetti, diversi sistemi di valutazione (a cura di R. Scalia), Ed. Bonanno, Acireale, 2020, pp. 183-200.

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