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DOTTRINA




                  Il mantenimento dell’ordine pubblico su cui si fonda normativamente la
             convivenza sociale si desume dai principi della Carta Costituzionale che deve
             operare costantemente la sua funzione di affidamento della collettività su tutto
             il territorio. La percezione di tale realtà nei territori di mafia è accompagnata
             dalla consapevolezza dei cittadini della scarsità d’interventi adeguati e dall’as-
             senza di una corrispondente informazione - sul fenomeno - da parte dei media,
             così come le risorse necessarie ad un suo efficiente contrasto sia in ambito giu-
             diziario che di sicurezza.
                  Invero, “la questione foggiana ha finalmente assunto, a tutti i livelli, l’attenzione che
             meritava, con un importante investimento di risorse per rendere più efficiente l’attività di con-
             trasto”. Queste le parole del Procuratore Generale della Corte di Cassazione
             Giovanni Salvi che ha anche evidenziato come la mafia foggiana si caratterizzi
             “...per forme specifiche e per il ricorso ancora attuale alla violenza, sia per il controllo del ter-
             ritorio che nel rapporto con le attività produttive”.
                  Ebbene, prima del riconoscimento formulato dal Procuratore Generale, la
             “Società”,  come  verrà  nominata  per  la  prima  volta  dal  c.g.  Salvatore
             Annacondia, emergerà con tutta la sua “mafiosità” agli occhi dello Stato italiano
             solo a seguito della sentenza n. 7/97 della 2^ Corte d’Assise di Appello di Bari
             del 29 luglio 1997 seguita al maxiprocesso “Panunzio”.
                  La sentenza ha un vissuto controverso circa la qualificazione giuridica del
             reato di associazione a delinquere di tipo mafioso a riprova della complessità
             della fattispecie in contestazione, soprattutto in luogo della fase gestazionale di
             una “nuova mafia”. Tant’è che il giudice della sentenza di primo grado del pro-
             cesso “Panunzio”, qualificando il reato associativo come da previsione dell’art.
             416-bis c.p., lo vedeva riqualificato in “associazione a delinquere” ex art. 416 c.p.
             dalla Corte di Appello di Bari con la sentenza del 4 agosto 1995. Quest’ultima
             veniva redatta sulla base delle dichiarazioni fornite, in motivazione, dai nuovi
             collaboratori di giustizia che negavano l’esistenza di un’associazione avente le
             caratteristiche dell’unicità di struttura e di organizzazione, con predisposizione
             comune  di  mezzi  di  finanziamento  e  conseguente  ripartizione  degli  utili.
             Mancava altresì, a parere di quella Corte, la fondamentale capacità intimidatrice
             che fosse idonea ad ingenerare una condizione di assoggettamento e di omertà
             in quel territorio. Questi ed altri elementi servirono a delegittimare un ricono-
             scimento che fu arduo ma, poi, definitivamente ammesso nel 1997 dalla 2^
             Corte d’Assise di Appello di Bari a seguito di pronuncia della Cassazione del 16
             maggio 1996, che in merito alla qualificazione dell’associazione di tipo mafioso
             come associazione a delinquere pose definitivamente un punto alla questione,
             accogliendo il ricorso del Procura Generale.

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