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DOTTRINA




             molti uomini», gli risponde affermando che, da comunista, egli si guarderebbe
             bene dal proporre l’espulsione di un professore di diritto costituzionale che
             sostenesse i principi di Dante nel De monarchia. I professori universitari «non
             possono essere considerati funzionari dello Stato. Essi sono uomini di cultura,
             di scienza, di indagine che possono giungere a conclusioni diversissime» e arri-
             vano alla cattedra «per sola virtù di studio e di intelligenza». A questa conside-
             razione La Pira ne aggiunge una di ordine tecnico: «Il Capo dello Stato, i mini-
             stri,  i  magistrati,  la  polizia  costituiscono  l’aspetto  esecutivo  e  giurisdizionale
             dello Stato. Essi o applicano giurisdizionalmente la legge o l’applicano in via
             esecutiva, e, quindi, vi è un rapporto tra la legge e questi organi giurisdizionali.
             Essi ne sono attuatori in tutti i rami, mentre il professore universitario non attua
             nulla, non ha alcun potere esecutivo o giurisdizionale: egli ha soltanto il potere
             di dire la verità secondo la sua coscienza».
                  L’esempio dei professori universitari illumina una difficoltà di carattere
             più generale, che ci riporta alla questione non solo della fattibilità, ma anche
             della legittimità dell’imposizione alla coscienza di un obbligo di questo tipo. In
             effetti, essi erano stati i primi, con un decreto luogotenenziale del 1945, a esse-
             re esonerati dal giuramento (dopo che solo dodici avevano rifiutato di impe-
             gnarsi solennemente a «esercitare l’ufficio di insegnante e adempiere a tutti i
             doveri accademici con proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti
             alla Patria ed al regime fascista»). Tuttavia, ciò non poteva certo significare un
             esonero  dal  dovere  di  essere  fedeli  alla  Repubblica  e  di  osservarne  la
             Costituzione e le leggi, fissato per loro come per tutti i cittadini, che restavano
             a loro volta liberi – perché questa è la differenza fra un sistema totalitario e una
             democrazia – di maturare i propri convincimenti senza dover produrre certifi-
             cati di un atteggiamento interiore peraltro inverificabile e in un contesto che si
             voleva incoraggiasse, a partire proprio dalle università, il pluralismo anziché
             l’omologazione. La libertà della coscienza non può evidentemente valere solo
             per coloro che hanno il “potere” (e la conseguente responsabilità) di diffonde-
             re da una cattedra le loro convinzioni. La distinzione, fissata nell’art. 54, fra la
             fedeltà alla Repubblica e l’osservanza della sua Costituzione e delle sue leggi,
             potrebbe anche essere interpretata come un semplice monito a tenere alta la
             guardia rispetto al rischio di un ritorno al passato, cioè alla monarchia. E in
             questo  caso  avrebbe  progressivamente  perso,  di  fatto,  la  sua  importanza.
             Caricare la fedeltà di un significato più ampio, che sarebbe quello di una con-
             vinta adesione ai valori fondamentali che cementano le istituzioni democrati-
             che e ne garantiscono la continuità, trasformarla cioè in fedeltà (interiore) alla
             Repubblica e alla Costituzione, può apparire una mossa insieme inevitabile e

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