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                                             STUDI MILITARI



                    Prevedendo che alcune colonne nemiche si sarebbero dirette anche verso
               la costa di Campobello Licata, la Tenenza dei Carabinieri di Gela dispose che
               un  plotoncino  di  circa  quindici  uomini  al  comando  dell’agrigentino  Vice
               Brigadiere Carmelo Pancucci fosse posizionato in una vecchia casa colonica di
               Passo di Piazza (una località distante circa otto chilometri da Gela) per interdire
               in qualche modo l’avanzata nemica, difendere le poche famiglie di contadini che
               lavoravano in quei campi e per far guadagnare tempo alla Divisione ‘Livorno’
               al fine di raggiungere dal centro della Sicilia la costa interessata al contrattacco.
                    Quel pugnace presidio, come si è saputo mezzo secolo dopo dal racconto
               di uno dei militari dell’Arma superstiti, il Carabiniere pugliese Antonio Cianci,
               aveva avvistato un commando americano avanzante contro la casa dove esso
               stava asserragliato ed aveva aperto il fuoco colpendo mortalmente un soldato sta-
               tunitense. La risposta di fuoco americana fu potente e immediata riversando una
               pioggia di raffiche di mitragliatrici e di bordate di colpi lanciate dalle artiglierie
               navali nemiche su quei nostri Carabinieri che provavano a difendersi sparando dal
               tetto e dalle finestre delle stanze interne del casolare con i moschetti 91/38.
                    Lo scontro non fu di breve durata, alternando brevi momenti di sospen-
               sione degli spari a momenti di ripresa del fuoco dall’una e dall’altra parte, fino
               a  quando,  dopo  una  tenace  resistenza  ed  essendo  ormai  circondati,  i  nostri
               Carabinieri si arresero esponendo dei drappi bianchi per consegnarsi disarmati.
               La tensione, invero, fra tutti i protagonisti di quel combattimento era elevata
               sicché, forse per un equivoco ad essa imputabile, i soldati americani scambiaro-
               no le grida impaurite dei contadini nascosti in quel complesso rurale per una
               reazione di altri combattenti italiani contro di loro.
                    Pertanto,  convinti  di  essere  caduti  nella  trappola  di  una  finta  resa  dei
               Carabinieri,  alcuni  elementi  della  82ª  Divisione  Aviotrasportata  statunitense
               spararono nel mucchio dei prigionieri raffiche di mitra freddando a sangue fred-
               do i Carabinieri Antonio Di Vetta, Donato Vece e Michele Ambrosiano, feren-
               done inoltre gravemente numerosi altri di cui a tutt’oggi non si conoscono i
               nomi (tranne quello di Nicola Villani di Avellino), mentre uno dei colleghi dei
               militari dell’Arma (forse Francesco Caniglia di Oria) si nascondeva in un pozzo,
               ed Antonio Cianci riusciva nel contempo a salvarsi perché si gettava a terra
               come corpo morto terrorizzato perché credeva di essere stato ferito nel torace.
                    Costui, come dirà quasi dieci anni fa allo storico Fabrizio Carloni , riper-
                                                                                   (14)
               correndo quei drammatici momenti in cui fu sinceramente convinto di trovarsi
               fra la vita e la morte, di essere stato confortato e rassicurato da un soldato ame-
               ricano che gli si rivolgeva in uno stretto dialetto siciliano. Alla fine sia i nostri


               (14)  Cfr. Fabrizio CARLONI, Gela 1943: le verità nascoste sullo sbarco americano in Sicilia, Mursia, Milano
                    2011.
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