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USO CONSAPEVOLE DEI SOCIAL MEDIA



               della corrispondenza né l’assenza di volontà divulgativa, e valutando invece la
               portata diffamatoria delle espressioni utilizzate dal lavoratore e l’eventuale eser-
               cizio del diritto di critica . Persino l’uso denigratorio nei confronti del datore
                                       (61)
               di lavoro di messaggi Whatsapp è assurto a rilevanza disciplinare e poi giudizia-
               ria , al pari di critiche via skype .
                                              (63)
                  (62)
                     Giova però ribadire, come già rimarcato nel par. 1, che la diffusione del
               messaggio ad un numero determinato o limitato di persone rileva per valutare
               la gravità della condotta in punto di proporzionalità punitiva o la potenziale

                     dipendente non usa termini offensivi (Cass., Sez. lav., 14 maggio 2018, n. 11645). Il caso
                     vagliato dal giudice di legittimità ha riguardato un lavoratore che aveva scritto al proprio
                     superiore gerarchico elencandogli diversi problemi e soprusi subiti sul lavoro. La sentenza ha
                     precisato che il clima di tensione in azienda può giustificare un tono seccato e amaro che non
                     per questo deve essere considerato illecito.
               (61)  Cfr., ex pluribus: Cass., Sez. lav., n. 8254/2004, cit.; 7 settembre 2012, n. 14995, in NOTIZIARIO
                     GIURISPRUDENZA LAV., 2013, 156; 20 settembre 2016, n. 18404; 9 febbraio 2017, n. 3484,
                     in RIV. GIUR. LAV., 2017, II, 388 (m), con nota di R. BARLETTA, Comunicazioni sindacali e diritto
                     di critica; n. 26682/2017, cit.; 28 settembre 2018, n. 23601.
               (62)  Premesso che la giurisprudenza tende, come per le mail e i messaggi in Facebook, anche per i
                     messaggi di Whatsapp a non considerare la natura “riservata” della corrispondenza e l’assenza
                     di volontà divulgativa, valutando invece la portata diffamatoria delle espressioni utilizzate dal
                     lavoratore e l’eventuale esercizio del diritto di critica (così Cass., 6 settembre 2018, n. 21719;
                     Trib. Milano, 30 maggio 2017), va rimarcato che i messaggi Whatsapp sono stati considerati
                     prove documentali che possono essere prodotte anche quando il datore di lavoro non è tra i
                     destinatari  della  chat.  È  stato  ad  esempio  ritenuta  rilevante  la  produzione  di
                     una chat su Whatsapp inviata da un dirigente alla moglie dell’amministratore unico, denotante un
                     atteggiamento ostile verso l’azienda e tale da giustificare il licenziamento (v. Trib. Fermo, 30 set-
                     tembre 2017, n. 1973). In senso contrario Trib. Roma 4 maggio 2018, n. 3478, che ha invece
                     ritenuto illegittimo il licenziamento irrogato alla lavoratrice che aveva usato un tono di sfida nel
                     file vocale inviato nella chat di gruppo su Whatsapp, della quale faceva parte anche il proprio
                     superiore; il giudice ha fatto prevalere le parole usate sulle eventuali intenzioni, ed è proprio la
                     trascrizione del file vocale a salvare la lavoratrice, acquisita in giudizio come prova documentale.
                     È stata invece ritenuta legittima la produzione di messaggi di una chat su Whatsapp inviati da
                     un medico del pronto soccorso ai colleghi, recapitata da uno di essi al datore di lavoro, nella
                     quale si organizzava una discutibile gara di grandezza degli aghi da usare sui pazienti (Trib.
                     Vicenza, 14 dicembre 2017, n. 778).
                     Inoltre, è stata ritenuta legittima l’esclusione da parte di una cooperativa e, di conseguenza,
                     il licenziamento disciplinare di un socio lavoratore che, in una chat su Whatsapp, aveva tentato
                     di boicottare l’attività produttiva, fomentando forme di protesta anche da parte degli altri
                     soci (Trib. Bergamo, 7 giugno 2018, n. 424).
               (63)  Secondo Trib. lav., Genova 6 febbraio 2017, n. 72, ove il lavoratore utilizzi, anche solo dinanzi
                     ai compagni di lavoro, espressioni diffamatorie nei confronti del datore di lavoro, mediante la
                     piattaforma Skype dal personal computer aziendale, non viola la privacy il datore di lavoro che ne
                     sia venuto a conoscenza non per avere forzato o aperto posta riservata (la password è stata data
                     dal ricorrente al datore su sua richiesta), ma per l’apertura automatica del programma che ha
                     mostrato i messaggi offensivi: è dunque legittimo il licenziamento per giusta causa intimato
                     dalla società e non ritorsivo. Va sottolineato quanto affermato dal giudice secondo il quale: “Se
                     è vero che l’account era personale, è però emerso dall’istruttoria che il computer non era privato
                     ma dell’azienda, che dovevano essere fatto su di essi delle manutenzioni e che Skype si apriva
                     all’avviamento del computer stesso e soprattutto che Skype veniva utilizzato per le comunicazioni
                     tra i lavoratori, l’azienda e gli altri dipendenti come piattaforma comune di scambio messaggi”.

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