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USO CONSAPEVOLE DEI SOCIAL MEDIA



               collegamento tale principio con la perdita di fiducia verso il lavoratore, vaglian-
               do casistiche molto varie, che ben si attagliano anche al lavoro pubblico.
                     I tradizionali approdi giurisprudenziali in materia di legittimo esercizio del
               diritto di critica del lavoratore sono riassumibili nel rispetto dei limiti di conti-
               nenza formale e sostanziale e nella lesività della condotta della lavoratrice del
               decoro dell’impresa datoriale, suscettibile di provocare, con la caduta della sua
               immagine, anche un danno economico in termini di perdita di commesse e di
               occasioni di lavoro; pertanto il giudice di merito è di regola chiamato a valutare
               in concreto se la condotta sia inidonea a ledere definitivamente la fiducia alla
               base del rapporto di lavoro, così integrando violazione del dovere di fedeltà
               posto dall’art. 2105 c.c., e giusta causa di licenziamento.
                     Anche in tempi recenti, la Corte di cassazione, nel lavoro privato, ha più
               volte affermato il principio per il quale l’obbligo di fedeltà, la cui violazione può
               rilevare come giusta causa di licenziamento, si sostanzia nell’obbligo di un leale
               comportamento del lavoratore nei confronti del datore di lavoro e va collegato
               con  le  regole  di  correttezza  e  buona  fede  di  cui  agli  artt.  1175  e  1375  c.c.
               Dovendosi di conseguenza il lavoratore astenere non solo dai comportamenti
               espressamente vietati dall’art. 2105 c.c., ma anche da tutti quelli che, per la loro
               natura e le loro conseguenze, appaiono in contrasto con i doveri connessi all’in-
               serimento  del  lavoratore  nella  struttura  e  nell’organizzazione  dell’impresa  o
               creano situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell’impresa stessa o
               sono idonei, comunque, a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del
               rapporto stesso .
                              (51)
                     Seconda, 918, con nota di F. SANTINI, Il diritto di critica del lavoratore alla luce della più recente rico-
                     struzione dell’obbligo di fedeltà). Tutte le sentenze valorizzano la doverosa valutazione in concre-
                     to della violazione o meno del rapporto di fiducia e fedeltà ex art. 2105 c.c. In relazione
                     ai social, per il Tribunale di Busto Arsizio (20 febbraio 2018, n. 62) sono stati sufficienti i
                     pochi caratteri di un tweet per ledere l’immagine del datore di lavoro e “rendere esplicito un
                     atteggiamento di disprezzo verso l’azienda e i suoi amministratori”, ledendo così il vincolo
                     di fedeltà alla base dei rapporti di lavoro con conseguente licenziamento per giustificato
                     motivo soggettivo. La pronuncia è anche interessante per l’aspetto dell’onere della prova,
                     affermandosi che, se il lavoratore contesta la paternità dei post sostenendo di lasciare incu-
                     stoditi smartphone e tablet, deve anche dimostrare l’accesso abusivo da parte di terzi. Secondo
                     invece il Tribunale di Milano (9 novembre 2017, n. 3153) rientra nel diritto di critica pubbli-
                     care un articolo che riguarda la propria azienda e commentarlo “genericamente”, afferman-
                     do che “padroni così meritano solo disprezzo”. Il Tribunale di Milano ha anche ritenuto la
                     parola “bastardo” non è diffamatoria, ma una semplice espressione di disistima. Sulla stessa
                     linea una recente pronuncia della Suprema Corte (Cass., Sez. lav., n. 21965/2018, cit.) secon-
                     do la quale, alla luce degli standard presenti nel contesto sociale odierno, nel cui ambito vanno
                     collocate e contemperate le esigenze di tutela della libertà di espressione della persona rispet-
                     to  al  compimento  di  condotte  offensive  o  diffamatorie,  l’utilizzo  di  frasi  pesanti
                     costituisce mera “coloritura” entrata nel linguaggio comune.
               (51)  Ex plurimis, Cass., Sez. lav., n. 16000/2009, cit.; n. 29008/2008, cit.; 3 novembre 1995, n.
                     11437, in FORO IT., 1995, I, 3425.

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