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DOTTRINA
ottobre 1984, n. 5259) , soprattutto in riferimento alla libertà di cronaca. Tale
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basilare sentenza, ripresa dalla successiva giurisprudenza, afferma che il diritto di
stampa (cioè la libertà di diffondere attraverso la stampa notizie e commenti) san-
cito in linea di principio nell’art. 21 Cost. e regolato fondamentalmente nella Legge
8 febbraio 1948, n. 47, è legittimo quando concorrano le seguenti tre condizioni:
1. utilità sociale dell’informazione;
2. verità (oggettiva o anche soltanto putativa purché, in quest’ultimo caso,
frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca) dei fatti esposti;
3. forma “civile” della esposizione dei fatti e della loro valutazione: cioè
non eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire, improntata a sere-
na obiettività almeno nel senso di escludere il preconcetto intento denigratorio
e, comunque, in ogni caso rispettosa di quel minimo di dignità cui ha sempre
diritto anche la più riprovevole delle persone, sì da non essere mai consentita
l’offesa triviale o irridente i più umani sentimenti.
In particolare, la verità dei fatti, cui il giornalista ha il preciso dovere di atte-
nersi, non è rispettata quando, pur essendo veri i singoli fatti riferiti, siano, dolo-
samente o anche soltanto colposamente, taciuti altri fatti, tanto strettamente
ricollegabili ai primi da mutarne completamente il significato. La verità non è più
tale se è “mezza verità” (o comunque, verità incompleta): quest’ultima, anzi, è
più pericolosa della esposizione di singoli fatti falsi per la più chiara assunzione
di responsabilità (e, correlativamente, per la più facile possibilità di difesa) che
comporta, rispettivamente, riferire o sentire riferito a sé un fatto preciso falso,
piuttosto che un fatto vero sì, ma incompleto. La verità incompleta (nel senso
qui specificato) deve essere, pertanto, in tutto equiparata alla notizia falsa.
La forma della critica non è civile, non soltanto quando è eccedente rispet-
to allo scopo informativo da conseguire o difetta di serenità e di obiettività o,
comunque, calpesta quel minimo di dignità cui ogni persona ha sempre diritto,
ma anche quando non è improntata a leale chiarezza. E ciò perché soltanto un
fatto o un apprezzamento chiaramente esposto favorisce, nella coscienza del
giornalista, l’insorgere del senso di responsabilità che deve sempre accompagna-
re la sua attività e, nel danneggiato, la possibilità di difendersi mediante adeguate
smentite, nonché la previsione di ricorrere con successo all’autorità giudiziaria.
Proprio per questo, il difetto intenzionale di leale chiarezza è più perico-
loso, talvolta, di una notizia falsa o di un commento triviale e non può rimanere
privo di sanzione.
(20) La pluriannotata sentenza Cass., Sez. Prima, 18 ottobre 1984, n. 5259, è, tra le tante, edita in
FORO IT., 1984, I, 2711, con nota di R. PARDOLESI. Per la conforme giurisprudenza successiva, si rin-
via a V. TENORE (a cura di), Il giornalista e le sue quattro responsabilità, cit.
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