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CODICE DELL’ORDINAMENTO MILITARE



                  L’art. 33 c.p.m.p. stabilisce la condanna pronunciata contro militari in servizio alle armi o in
                  congedo, per alcuno dei delitti preveduti dalla legge penale comune, oltre le pene accessorie
                  comuni, importa la degradazione, se trattasi di condanna alla pena dell’ergastolo, ovvero di
                  condanna alla reclusione che, a norma della legge penale comune, importa la interdizione
                  perpetua dai pubblici uffici. Inoltre, importa la degradazione la dichiarazione di abitualità o
                  di professionalità nel delitto, ovvero di tendenza a delinquere, pronunciata in qualunque
                  tempo contro militari in servizio alle armi o in congedo, per reati preveduti dalla legge pena-
                  le comune.
                  A tal proposito, risulta particolarmente illuminante la circolare 22 maggio 2006, prot. n.
                  m_dg.DAG  22/05/2006.0055387.U,  del  Dipartimento  per  gli  affari  della  giustizia  del
                  Ministero della giustizia con il quale si richiama l’attenzione dell’autorità giudiziaria ordinaria
                  sulla disciplina della pena militare accessoria della degradazione conseguente alla condanna
                  per delitti preveduti dalla legge penale comune, come prevista dall’art. 33 c.p.m.p. In parti-
                  colare,  la  circolare  afferma  che  dall’esame  della  disciplina  della  degradazione  nel  codice
                  penale  militare  di  pace  si  può  dedurre,  in  forza  del  combinato  disposto  degli  artt.  411
                  c.p.m.p. e 662, co 1, c.p.p., che:
                  - l’esecuzione della degradazione, intesa come insieme degli adempimenti esecutivi necessari
                  per ottenere gli effetti previsti dall’art. 28 c.p.m.p., spetti sempre all’autorità militare compe-
                  tente, sia nel caso in cui si tratti di degradazione che accede a un reato militare, sia nel caso
                  in cui si tratti di degradazione che accede a un reato comune ;
                                                                 (10)
                  - diversa è la questione per quanto riguarda l’individuazione dell’autorità giudiziaria competen-
                  te a ordinare la degradazione; per quanto riguarda la degradazione conseguente a reati militari,
                  ai sensi dell’art. 28 c.p.m.p., la competenza è da ritenersi riservata all’autorità giudiziaria mili-
                  tare; per quanto riguarda la degradazione conseguente a reati comuni, ai sensi dell’art. 33
                  c.p.m.p., la competenza deve invece ritenersi dell’autorità giudiziaria ordinaria.
                  D’altra parte, nel caso in cui vi sia connessione, ai sensi dell’art. 12 c.p.p., tra reati comuni e reati
                  militari, si deve ritenere che trovi applicazione il disposto dell’art. 13, co. 2, c.p.p., per il quale:
                  - l’autorità giudiziaria ordinaria è tenuta ad applicare al militare, sottoposto a procedimento per
                  un reato comune, la pena accessoria della degradazione, così come prevista dall’art. 33 c.p.m.p.;
                  pertanto, qualora il giudice di primo grado non abbia disposto la degradazione, ai sensi dell’art.
                  33 c.p.m.p., essa può essere applicata ex officio dal giudice di secondo grado;
                  - nell’ipotesi in cui nella sentenza di condanna, di primo o di secondo grado, non sia stata
                  disposta la pena accessoria della degradazione, la stessa può essere applicata dal giudice
                  dell’esecuzione a norma dell’art. 183 disp. att. c.p.p.; per quanto riguarda la procedura da
                  adottare per l’applicazione della degradazione in sede di esecuzione, l’art. 183 disp. att. c.p.p.,
                  prevede che il Pubblico Ministero a quo debba richiederne l’applicazione al giudice dell’ese-
                  cuzione, la cui competenza in materia di pene accessorie è stabilita anche dall’art. 676 c.p.p.
                  III. Attualmente, l’art. 622, co. 1, lett. b), c.m. consente espressamente all’autorità militare
                  di disporre la perdita dello stato di militare anche in presenza della sola pena accessoria del-
                  l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, senza attendere anche l’applicazione della degra-
                  dazione, ai sensi dell’art. 33 c.p.m.p.

               (10)  È manifestamente infondata, in riferimento agli articoli 3 e 27, comma 3, Cost., la questione di legitti-
                    mità costituzionale dell’art. 33 c.p.m.p., - nella parte in cui, prevedendo la sanzione della degradazione
                    automatica per il militare che abbia subito una condanna cui sia conseguita l’applicazione della pena
                    accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici, introdurrebbe una irrazionale disparità di trat-
                    tamento, con la disciplina prevista per i dipendenti civili dello Stato per i quali, nella stessa situazione
                    processuale è prevista la destituzione che non riveste carattere automatico - in quanto si tratta di situa-
                    zioni differenti e, pertanto, non comparabili posto che la degradazione è pena accessoria, applicata in
                    esito automatico a certi tipi di condanna, e tipizzata in funzione della qualità di militare del condannato,
                    laddove analoga sanzione non sarebbe ipotizzabile per un impiegato civile dello Stato o di altra pub-
                    blica amministrazione. Neppure sussiste lesione dell’art. 27 Cost., sotto il profilo che l’automaticità
                    della degradazione priverebbe il giudice della possibilità di adeguare il trattamento sanzionatorio alla
                    gravita del fatto, facendo venir meno la finalità rieducativa della pena in quanto l’istituto della riabilita-
                    zione, idoneo ad estinguere anche la sanzione in questione, esclude detta lesione: Cass. pen. Sez. I, 24
                    aprile 2001, n. 25908, in RIV. POLIZIA, 2003, 131.
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