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STUDI GIURIDICO-PROFESSIONALI



                    Alla stregua degli enunciati principi, dunque, il danno patito dal lavoratore
               per effetto del demansionamento non discende in via automatica dall’inadem-
               pimento datoriale, come, invece, avverrebbe ove si affermasse che esso sta in re
               ipsa nella potenzialità lesiva della condotta del datore di lavoro; al contrario, esso
               deve essere provato dal lavoratore, il quale è tenuto, altresì, a dimostrare, ai sensi
               dell’art. 1223 c.c., l’esistenza di un nesso di causalità fra l’inadempimento e il
               danno e a precisare quali, fra le molteplici forme di danno da dequalificazione,
               ritenga di aver subito, fornendo, a tal proposito, ogni elemento utile per la rico-
               struzione della loro entità.
                    La giurisprudenza (20)  ha poi evidenziato come entrambi i danni, pur essen-
               do profondamente differenti, debbano essere provati debitamente dalla presun-
               ta vittima.


               (20)- TAR Reggio Calabria, I, 1 febbraio 2017, n. 84, sez. I, in Diritto & Giustizia, 23, 2017; Il
                    ricorrente, assumendo di essere entrato a far parte dell’Arma dei carabinieri sin dal 1992 e di
                    aver subito nel tempo una serie di vicende nelle quali, a suo avviso, potevano ravvisarsi gli
                    estremi  di  una  condotta  mobbizzante,  del  demansionamento  e  della  dequalificazione
                    professionale,  ha  adito  il  G.A.  per  chiedere  il  risarcimento  dei  danni  patiti,  ritenendone
                    sussistenti tutti i presupposti.
                    Il giudice adito, chiarito come il mobbing, diversamente dalla figura del demansionamento,
                    sia  caratterizzato  dall’esistenza  di  un  intento  persecutorio  da  parte  del  datore  di  lavoro,
                    intento che deve formare oggetto di dimostrazione da parte di chi rivendica il danno subìto,
                    ribadisce che il demansionamento, qualora provochi danni morali e professionali, dà diritto
                    al risarcimento indipendentemente dalla ulteriore sussistenza del mobbing.
                    In ogni caso, i fatti portati a fondamento sia del danno da demansionamento, quanto del
                    danno da mobbing, devono ricevere idonea dimostrazione in giudizio secondo il principio
                    dell’onere della prova, sancito dall’art. 2697 c.c. e valido anche per le controversie portate
                    dinnanzi alla giurisdizione amministrativa, secondo il quale chi vuole far valere un diritto in
                    giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.
                    Il giudice ha poi ricordato come la recente giurisprudenza della Cassazione, in proposito, ha
                    precisato  che,  ai  fini  di  ritenere  provato  un  danno  da  dequalificazione  professionale
                    attraverso il meccanismo delle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c., non è sufficiente a
                    fondare una corretta inferenza presuntiva il semplice richiamo di categorie generali, come la
                    qualità  e  quantità  dell’attività  lavorativa  svolta,  il  tipo  e  la  natura  della  professionalità
                    coinvolta, la gravità del demansionamento, la sua durata e altri simili indici, dovendo invece
                    procedere il giudice di merito, pur nell’ambito di tali categorie, ad una precisa individuazione
                    dei fatti che assume idonei e rilevanti ai fini della dimostrazione del fatto ignoto, alla stregua
                    di canoni di probabilità e regole di comune esperienza.
                    Essendo venuto meno il ricorrente ai descritti oneri probatori, il Tar adito ha respinto il
                    ricorso.

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