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Dietro il fuoco e dietro il gesto piromanico


            dotti, quando in realtà in essa si cela una forte connotazione col-
            lettiva ed ancestrale: “La singolarità di questa malattia sta nel fatto
            che in essa emerge sensibilmente una psicologia arcaica. Di qui i nume-
            rosi punti di contatto con prodotti della mitologia; e quelle che noi pren-
            diamo per creazioni originali e individuali sono molto spesso solo strut-
                                                                1
            ture paragonabili a quelle della più remota antichità” .
            Di conseguenza i racconti, le “storie” narrate dai due individui, si
            rifanno ad una psicologia arcaica, di natura più collettiva che indi-
            viduale, talmente remota che arriva ad essere incentrata sull’ar-
            chetipo “madre”, nel senso di primo, per importanza e per crono-
            logia temporale, fra tutte le immagini archetipiche: la nascita miti-
            ca del mondo esterno e l’origine della coscienza umana. E, non a
            caso, si può affermare che questo archetipo è così strettamente col-
            legato alla conquista del fuoco da parte dell’umanità, tanto che lo
            stesso mito di Prometeo ne è un esempio eclatante, come colui che
            portò il fuoco, metafora della ragione e della consapevolezza, al
            genere umano ed allora forse non è così casuale che i due intervi-
            stati abbiano commesso degli agiti violenti di matrice piromanica
            o, comunque, attinente alla gestione delle fiamme, alla procrea-
            zione onanistica attraverso le fiamme. Entrambi hanno proiettato
            all’esterno attraverso l’atto piromanico, il loro stato psichico che in
            quel momento era patologicamente fissato, perché “incantato” nel
            mito di Prometeo, cioè nella lettura metaforica dell’archetipo della
            Grande Madre, che rappresenta la nascita e lo sviluppo della
            coscienza umana dall’inconscio uroborico.
            Sì, è vero, entrambi sono prigionieri di questa dimensione arche-
            tipica, anzi sono la manifestazione dell’archetipo stesso, però c’è
            un’immensa differenza.
            Lei, possedendo un Io, seppur appena accennato, ha potuto sce-
            gliere ed ha deciso di autoannientarsi in un brodo narcisistica-
            mente ed uroboricamente primordiale, non a caso la sequenza
            dei quadri, da lei stessa dipinti ed appesi secondo un suo preci-
            so ordine nella sua camera, iniziano con un “Dio in fieri molto sof-
            ferente” che, allungando una mano, più che altro chiede aiuto
            all’uomo di salvare il mondo, figura divina disegnata in modo
            tale che guardandola sembri venirti incontro, quasi uscire dalla
            tela per toccarti.


            1 C. G. Jung, Simboli della trasformazione, Ed. Bollati Boringhieri, Torino, 2002, pp.146.
                                                            SILVÆ - Anno VI n. 13 - 197
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