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La ripresa della natura: le riflessioni del cinema su un concetto ambiguo


            ricerca scientifica sono state riposte in lavori video apparentemente lonta-
            ni dal tema, invece aderenti. Nelle arcinote opere di Steven Spielberg, Lo
            squalo (1975) e Jurassic Park (1993), il tema della natura offesa e del mondo
            animale mutilato è presentato come la conseguenza del nostro tentativo di
            disciplinare il rapporto con la natura in modo da diminuirne il potenziale
            di minaccia, senza però rispettarla. Con un atto di superbia si accoglie la
            scienza come legittima procedura razionale d’ammansimento della natura
            che è invece predisposta ad aggredire, e «cova come un fuoco sotto la
            brace, pronta a riemergere» [Bernardi, 27]. Il cinema spielberghiano sem-
            bra dar credito a quest’ipotesi e segue lo schema classico della tragedia
            greca: alla hybris, l’umana tracotanza, segue sempre la nemesi, la vendetta.
            Nel cinema del regista americano assistiamo ad un ribaltamento del con-
            cetto romantico di natura che ridiventa problema, e non più «un principio
            rassicurante o un’istanza più o meno legata ai nostri desideri o alle ipote-
            si scientifiche: qui la natura, che sembrava definirsi in maniera così intima
            e tranquillizzante, finisce paradossalmente per trasformarsi in una forza
            ostile ed estranea» [Cabrera, 88]. Il quadro può essere perfezionato con
            l’aggiunta del “genere catastrofico”, le “tetralogie degli elementi” in cui
            aria (Twister, de Bont, 1996), acqua (Waterworld, Reynolds, 1995), terra
            (Vulcano, Jackson, 1995) e fuoco (Fuoco assassino, Howard, 1991), tornano
            ciclicamente come piaghe antagoniste lo sviluppo storico dell’uomo.
            Questo genere di pellicole ottiene troppo spesso un effetto contrario, de-
            realizzante; ossia c’informano di un pericolo non ipotetico ma autentica-
            mente presente con una resa stilistica inverosimile, sovraffollata di piro-
            tecnici effetti che distolgono lo spettatore dal problema.
               Il risultato è differente se, un po’ come lo storico, il cineasta non tra-
            scura il fatto, l’evento realmente accaduto, un disastro ambientale o pro-
            blema ecologico motivato e sorretto da dati accertabili. Allora egli lavora
            con quella stessa commistione di “realtà” e “possibilità” cui già Manzoni
            con i Promessi Sposi, o narratori come Balzac e Tolstoj, ci hanno abituato.
            Nascono così i documentari, o docu-fiction, che, se non siano già pensati per
            un’ampia commercializzazione o per un trattato d’etologia scritto in foto-
            grammi, vanno oltre l’immediata oggettivazione descrittiva dell’ambiente
            permettendo allo spettatore di riflettere ed interpretare. I migliori docu-
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            mentari sono saldamente ancorati alla roccia dei fatti, come il film del sici-
            liano Vittorio de Seta, In Calabria (1993), sconsolata ricognizione ecologi-
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