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STUDI MILITARI




                  Questo  atteggiamento  radicale  non  è  più  oggi  generalmente  condiviso
             dalla maggior parte dei filosofi analitici, che tendono qualificare come errore
             logico, vera e propria fallacia descrittivistica, la pretesa di negare la possibilità di
             sottoporre a controlli logicamente rilevanti i discorsi precettivi. Difatti, all’apice
             del ragionamento morale sta sempre un principio descrittivo che non può esse-
             re ricavato dalla scelta della descrizione dei fatti e che dipende unicamente dalla
             scelta individuale: pertanto agli occhi del non cognitivista etico tutte le morali
             si equivalgono sotto il profilo della loro giustificazione ultima e nessuna scelta
             morale può aspirare a maggiore dignità di qualunque altra.
                  Argomentando la Legge di Hume, postulato filosofico e criterio distintivo
             tra le filosofie analitiche e sintetiche, sul piano della sua plausibilità con il ricor-
             so  a  teorie  di  carattere  non  strettamente  logico,  distinguiamo  più  piani.  Sul
             piano minimale, “debole”, la grande divisione può anche essere ritenuta molto
             ragionevole. L’istanza minima del non cognitivismo è (e deve essere) universal-
             mente accolta. Essa consiste nella confutazione della possibilità di derivare il
             valore di un fatto dal suo semplice prodursi, il derivare cioè il giudizio di valore
             concernente un accadimento dal nudo giudizio di esistenza relativo a quello
             stesso accadimento. È del tutto contro intuitivo, per esempio, sostenere che
             tutto ciò che si verifica nel mondo è, per il fatto di verificarsi, buono, giusto,
             bello, o invece cattivo, ingiusto, brutto, ecc.
                  Il  non  cognitivismo  può  portare  con  sé  anche  un’istanza  massimalista,
             quella per cui tutte le proposizioni assiologiche e/o normative sarebbero in defi-
             nitiva o del tutto prive di senso o comunque arbitrarie, perché non fondate obiet-
             tivamente su nulla e quindi valide e relative al solo soggetto che le proferisce.  In
             sintesi, al fine di delineare un quadro più chiaro e lineare, indispensabile per defi-
             nire i confini di questa grande divisione e sulle sue implicazioni, Sergio Cotta
                                                                                       (8)
             sostiene che i cognitivisti etici ritengono che i giudizi di valore abbiano un fon-
             damento oggettivo e siano in stretto rapporto con la realtà e con la conoscenza
             dei suoi elementi strutturali ed esistenziali. La filosofia non può limitarsi a pro-
             porre i valori, ma deve, prima ancora, conoscerli e mostrare quel fondamento, o
             quella  relazione  con  la  realtà  che  può  renderli  comunicabili.  Mentre  gli  altri
             sostengono la tesi della grande divisione tra conoscere e valutare, verità e valori,
             essere e dover essere. E, pertanto, affermano che non esistono valori universali.
             Infatti, la stessa verità storica dei principi morali dimostrerebbe che essi sono
             frutto di processi culturali, sociali e personali, non riconducibili ad un’astratta e
             metastorica zona della verità immediatamente intuibile da ogni intelletto umano.
                  Tuttavia, se provassimo a definire con personali e/o oggettive qualifica-
             zioni alcune delle accezioni che l’individuo può ricoprire, di certo, addebiteremmo

             (8)  In “Prospettive di filosofia del diritto”.

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