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Anche la progettazione di alimenti, al pari di altri prodotti del disegno
industriale che coincide con il made in Italy, riproduce, del resto, forme univer-
salmente apprezzate, presentando caratteristiche individualizzanti tali da richie-
dere un intervento di tutela del processo di produzione situato nello spazio
(limitato) del territorio nazionale .
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Nella sfida del commercio il “made in” presenta un proprio fondamento
normativo quale formula riassuntiva dell’avviamento commerciale del Paese e
fonda l’esigenza di tutelare un ampio patrimonio informativo e valoriale allo
stato di bene comune liberamente fruibile e sottratto, in quanto tale, ad un processo
di privativa. Non può essere, perciò, avvicinato alla titolarità di una posizione di
monopolio, ma la sua tutela appare riconducibile alla disciplina della concorren-
za, tanto da suggerire il recupero dell’art. 2598 cod. civ., che può essere, oggi,
riportato a nuova vita rispetto alle ipotesi di abuso, riguardando, in effetti, la
sanzione di condotte dirette a sfruttare rinomanza e pregi, da parte di chi, senza
gli sforzi richiesti da ingenti investimenti, opera in modo sleale.
Non c’è dubbio - nel tentativo di dare continuità al nostro discorso - che
l’affermazione della esperienza di integrazione europea abbia definitivamente
intaccato lo spazio politico della statualità nazionale, negando legittimazione al
paradigma neo-medievale di un marchio corporativo. Ad esso poteva, forse,
riferirsi il marchio nazionale di esportazione istituito con legge 23 giugno 1927,
n. 1272, per la frutta, fresca e secca, gli agrumi e gli ortaggi conformi a requisiti
di selezione, gradazione, uniformità, maturazione, conservazione ed altri stabi-
liti da apposite prescrizioni relative anche al confezionamento e all’imballaggio.
Infatti, per quanto condivida con la formula del “made in”, quale bene immate-
riale atipico, le modalità di utilizzazione plurisoggettiva contemporanea per la
difesa del buon nome del commercio italiano , quest’ultimo non è suscettibile
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di registrazione, non prevede controlli circa la corrispondenza a determinati
standards di qualità ed esclude la titolarità in capo ad un ente pubblico.
Un possibile approdo in termini sistematici di quanto sin qui considerato
suggerisce, diversamente, l’accostamento con un’indicazione geografica semplice
che sembra, tra l’altro, trovare esatto incastro con la richiamata previsione del-
l’art. 2598 cod. civ., ritenendo che la repressione della concorrenza sleale sia
complementare alla tutela di segni distintivi in quanto costituisca il fondamento
di una generale aspettativa di correttezza professionale.
(36) Il riferimento va all’opera ricca di spunti originali di V. RUBINO, I limiti alla tutela del «made in»
fra integrazione europea e ordinamenti nazionali, cit., 1.
(37) In questi termini, v. G. FLORIDIA, voce Marchio nazionale di esportazione, in Dig. Disc. Priv., Sez.
Comm., vol. IX, Torino, 1993, 276.
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