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chirurgico”, in cui sono spiegate le tecniche dell’autore egizio per le ferite e
che risale verosimilmente al XV sec. a.C. (PEĆANAC et al., 2013), nonostante
altri affermino che tale testo potrebbe essere addirittura del XXII-XXVI
secolo a. C. (ZUBAIR e AZIZ., 2015), essendo noto che l’apicultura in queste
terre fosse praticata già dal 2400 a. C. (BONETTI, 2014). Inoltre, anche nella
tavoletta sumera del 2200 a.C. si descrivono i “tre atti di guarigione” di una
ferita, ovvero lavarla con acqua calda e birra, applicare la “malta” e
bendarla; è ormai praticamente certo che uno dei componenti di questa
“malta” sia il miele, miscelato con grassi animali ed erbe.
Anticamente, quindi, il miele veniva applicato sulle ferite o in un “intruglio”
grasso o spalmato su bende di lino, creando così le prime medicazioni umide
della storia: ancora oggi, infatti, si usano sostanze medicali con sopra una
garza non aderente (detta storicamente “garza grassa”) ed un bendaggio.
Ippocrate nel IV secolo a. C. preferiva invece medicazioni asciutte (GAMGEE,
2013), ma utilizzava anche lui il miele in molti casi (RAYMOND E SUDJATMIKO,
2012) ed anche i Romani e gli Indiani conoscevano questo tipo di
medicamento.
I principi attivi del miele utili per la guarigione di una lesione cutanea
Le proprietà terapeutiche di questo prodotto nei confronti delle ferite sono
dovute in primis alla presenza al suo interno di acqua ossigenata (grazie
all’enzima glucosio ossidasi che la produce), ma anche alle altre sostanze
battericide (nei cosiddetti non-peroxide in honey), alla sua iperosmolarità (DEB
MANDAL et al., 2011), nonché alla ricchezza in antiossidanti, flavonoidi e
fenoli (AL-WAILI et al., 2014), questi ultimi attivi anche contro molti
microrganismi (Figura 1). Un altro componente antibatterico noto da anni in
alcuni tipi di miele soltanto (MAVRIC et al., 2008), quali il miele di Manuka o
quello bianco algerino (TAIBI et al., 2022) è il metilgliossale (MGO), ma è
sempre più studiata anche una seconda molecola con attività simili, la Bee
Defensin-1 (PAULUS et al., 2010). Entrambe sono attive non solo sui
microrganismi, ma anche sui loro biofilms, ovvero quell’involucro glucidico
che li protegge e li fa riprodurre.
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