Page 36 - Rassegna 2022-3
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DOTTRINA




                  Alla luce di ciò, nel caso di specie, i due imputati, poi condannati con sen-
             tenza passata in giudicato, furono i due legali rappresentanti susseguitesi nell’ar-
             co temporale in cui la vittima aveva effettivamente prestato attività lavorativa
             senza l’approntamento di misure idonee ad evitare danni per la sua salute.
                  Il ragionamento dei giudici nel caso de quo mosse essenzialmente dal pre-
             cetto di cui all’art. 40, comma 2, del codice penale per il quale: “Non impedire
             un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo”, con
             conseguente nascita di una posizione di garanzia da parte del datore di lavoro.
             Inoltre, la decisione fondava su un solido piano a due basi.
                  Da  una  parte,  l’assenza  di  qualsivoglia  elemento  causale  alternativo  di
             innesco della patologia verificata in relazione al caso di specie affrontato in
             modo da escludere concause di tipo non professionale; dall’altra, una seconda
             base di appoggio consistente nella già citata sovrapposizione temporale. Va tut-
             tavia precisato che, per addivenire a tali ricostruzioni è però sterile il mero uti-
             lizzo del criterio della cosiddetta dose dipendente, essendo necessario, al con-
             trario, servirsi della prova testimoniale. Pertanto, con riferimento alla fattispecie
             decisa nel 2020 dalla Suprema Corte, le censure mosse dalla difesa non trova-
             vano  alcun  riscontro  non  solo  perché,  come  già  evidenziato  nel  giudizio  di
             merito, erano state escluse dai periti cause diverse, di origine non professionale,
             ma altresì, perché era stata accertata l’unicità del rapporto lavorativo, nello stes-
             so stabilimento della società, della quale, per l’intero periodo, furono legali rap-
             presentati i due imputati.
                  In campo strettamente sostanziale, le censure riguardavano il fatto, a parere
             dei difensori, che avessero ritenuto le attenuanti generiche equivalenti all’aggra-
             vante di cui all’art. 589, comma 2, senza tenere conto che quest’ultima, nella ver-
             sione vigente all’epoca delle condotte, prevedeva un massimo edittale (cinque
             anni di reclusione) sensibilmente inferiore a quello successivamente introdotto
             dal d.l. 92/2008 (sette anni) e vigente al momento del decesso della vittima.
                  I giudici di legittimità, pur ritenendo il motivo «suggestivo», lo rigettarono
             considerandolo avulso dalle motivazioni rese dai giudici di merito, non essendo
             in esse rinvenibile - a parer loro - alcun riferimento alla più severa disciplina
             introdotta  nel  2008  per  l’omicidio  colposo  con  violazione  della  normativa
             antinfortunistica.  Altro  argomento  di  ricorso  riguardava  l’asserito  difetto  di
             prova in ordine al nesso causale tra l’esposizione al fattore di rischio e lo svilup-
             po della patologia letale da parte della persona offesa. Secondo i ricorrenti, in
             particolare, i giudici di merito avrebbero basato le conclusioni in ordine all’ezio-
             logia professionale della malattia su una sorta di equazione tra la presenza di
             asbesto nell’azienda e l’insorgenza del tumore.

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