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LA LEZIONE DEL GENERALE



                     Si scandagliavano così le parentele e i comparati che nel contesto criminale
               mafioso assumevano (e tutt’oggi assumono) un valore addirittura superiore ai
               rapporti di sangue familiari tipici; ciò consentiva di avere un quadro molto pre-
               ciso della famiglia mafiosa osservata, e dello sviluppo criminale che potenzial-
               mente aveva proprio grazie all’analisi puntuale delle relazioni e dei rapporti che
               intratteneva non solo al suo interno, ma anche nel territorio di interesse della
               stessa.
                     Dall’analisi,  con  riferimento  all’evoluzione  anagrafica  di  una  famiglia
               mafiosa (matrimoni, battesimi, cresime, funerali), secondo questo metodo inve-
               stigativo, si riusciva a comprendere quali relazioni o rapporti vi potevano essere,
               o non essere, tra testimoni in un matrimonio. Attraverso i figli, nipoti e le loro
               provenienze si riuscì a comprendere anche le zone di influenza di questa o quel-
               la consorteria mafiosa.
                     Questa  metodologia  apparentemente  semplice,  richiedeva  uno  sforzo
               informativo notevole e una capacità di analisi non comune per quegli anni. Non
               vi  erano  computer  o  algoritmi  che  consentivano  di  elaborare  informazioni
               anche semplici in poco tempo; il lavoro era affidato alla professionalità dei mili-
               tari impiegati nell’analisi dei rapporti informativi e alla capacità di scremare la
               mole di dati che ogni giorno giungevano dalle Stazioni e Compagnie Carabinieri
               e aggiornarle costantemente.
                     Si aggiunga che in quel periodo storico, la normativa penale di riferimento
               non era adeguata. Quel metodo di lavoro suonò come assolutamente rivoluzio-
               nario e innovativo al punto che solo diversi anni dopo fu ripreso e adattato alla
               nuova realtà criminale, nel frattempo mutata, dal giudice Caponnetto e dal suo
               pool antimafia, che riuscì a istruire il primo maxi processo anche con i rapporti
               giudiziari e l’attività investigativa del generale dalla Chiesa negli anni del suo
               comando della Legione di Palermo.
                     Ma quel metodo d’indagine non rimase lettera morta, almeno per il gene-
               rale dalla Chiesa in quegli anni. Nel 1973 allorquando il generale fu inviato a
               Torino al comando della 1  Brigata, profuse energie nel contrasto al nascente
                                          a
               fenomeno del terrorismo di matrice politica, intuendone correttamente la sua
               pericolosità.
                     Ricordiamo che nel periodo 1970-1973, le neonate Brigate Rosse erano in
               una fase di propaganda armata, cioè non registravano episodi che potessero
               destare l’allarme sociale, che creò solo qualche anno dopo.
                     Allora l’attività della propaganda armata si inseriva in un periodo di forte
               scontro sociale tra imprenditoria e sindacato. Le Brigate Rosse si esprimevano
               in gesti quasi dimostrativi fondamentalmente incentrati in danneggiamenti di


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