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PANORAMA DI GIUSTIZIA MILITARE


                    La Suprema Corte, raccogliendo l’assist offerto dal caso alquanto originale
               (che nell’economia del presente discorso non è necessario ricostruire con ulte-
               riori dettagli), nella parte argomentativa della decisione svolge alcune osserva-
               zioni che potrebbero apparire (ma non lo sono) disallineate rispetto agli arresti
               sopra riportati. Il passaggio motivazionale è il seguente: «… la “mancata auto-
               rizzazione”,  nella  logica  che  caratterizza  il  rapporto  gerarchico  e  militare  -
               improntato a rigore formale, in funzione della tutela del grado e della respon-
               sabilità ad esso connessa, per le decisioni relative, anche al fine di assicurare il
               regolare svolgimento delle servizio e delle attività militari - equivale al divieto
               del comportamento non autorizzato».
                    I giudici di legittimità dicono, in altri termini, che il dovere di obbedienza
               penalmente tutelato può venire in luce anche in forma mediata, ossia come
               divieto di tenere una certa condotta se non previa autorizzazione.
                    Alla luce di una siffatta affermazione di principio, potrebbe ritenersi che
               qualsiasi condotta posta in essere senza la prescritta autorizzazione configuri il
               reato di disobbedienza. In realtà non è così o, almeno, non sempre.
                    Nel caso di specie i giudici di legittimità non si sono posti il problema né
               della fonte né dell’esistenza stessa dell’obbligo della previa autorizzazione, ossia
               se vi fosse in tal senso una disposizione e di quale tipo.
                    L’accertamento di tali profili è stato, di fatto, integralmente demandato al
               giudice del rinvio. Intendimento dei giudici di legittimità era, invece, solo quello
               di affermare il principio secondo cui “non autorizzare” equivale a “vietare”.
                    Entrambe  queste  speculari  forme  di  manifestazione  di  volontà,  però,
               possono essere considerate alla stregua di un ordine sempre e soltanto quando
               sono espresse nell’ambito di un rapporto gerarchico tra superiore e subordina-
               to e con riferimento ad una condotta ben individuata nella sua peculiare spe-
               cificità.
                    In altri termini (e l’assunto, pur non affermato, non è di certo smentito
               dal pronunciamento della Cassazione) la “mancata autorizzazione”, per essere
               assimilabile a un divieto e, quindi, a un ordine nell’accezione fatta propria dal-
               l’art. 173 c.p.m.p., deve concretizzarsi in un esplicito “diniego di autorizzazio-
               ne”  opposto  dal  superiore  al  subordinato  con  riferimento  ad  una  condotta
               determinata.


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