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STEREOTIPI E PREGIUDIZI




                    Nel nostro ordinamento, fino al 1976, la violenza sessuale perpetrata dai
               mariti nei confronti delle mogli non costituiva reato e fino al 1981, anno in cui
               è stato abolito il “delitto d’onore”, il reato di stupro definito dal legislatore
               come un “delitto contro la morale pubblica e il buon costume” poteva essere
               estinto ricorrendo al “matrimonio riparatore” tra il reo e la persona offesa. Fino
               al 1996, il Codice Rocco distingueva tra due fattispecie di reato, la “violenza car-
               nale” e gli “atti di libidine violenti”.
                    Reati  che  consistevano  nella  “congiunzione  carnale”,  quindi  nell’atto
               penetrativo. Alla parte offesa poi, venivano poste domande relative all’esatta
               natura dell’atto sessuale e se non si riusciva a provare di aver subito un “rappor-
               to completo forzato”, il reato veniva derubricato. Per essere “forzato” l’atto
               implicava il criterio della resistenza “fino in fondo” da parte della vittima, alla
               forza fisica che caratterizzava il vero stupro. Residuo di una cultura che troppo
               a lungo ha normalizzato la subordinazione e la soggezione della donna al con-
               trollo e al dominio maschile.
                    Ancora oggi uno sguardo ai fatti di cronaca, ci permette di mettere in luce
               la matrice sessista dei concetti e del linguaggio adottato nelle aule di giustizia
               nel condurre l’esame delle persone offese vittime di violenza.
                    Molti sono i casi che mostrano che certamente chi giudica ha ben chiaro
               il concetto giuridico di “violenza sessuale” definita dall’art. 609-bis c.p., ma nella
               valutazione del fatto contestato spesso sono ancora condizionati dal prodotto
               dei miti di stupro secondo cui la violenza implica sempre l’atto penetrativo,
               esercitato con una forza fisica che la vittima cerca sempre di contrastare con la
               massima resistenza.
                    In un noto caso di cronaca per stupro di gruppo durante l’interrogatorio,
               l’avvocato del pool dei quattro imputati chiede alla persona offesa di descrivere
               meglio le modalità con cui veniva stuprata.
                    Le domande poste dal legale alla giovane, ritenute “troppo intime”, riguar-
               dano l’abbigliamento e il comportamento tenuto dalla stessa durante il presunto
               stupro. Ma se aveva le gambe piegate, come ha fatto a toglierle i pantaloni? Oppure: Ci
               può spiegare come le sono stati tolti gli slip? E ancora: Perché non ha reagito con i denti
               durante il rapporto orale? Il caso sembra richiamare il già citato processo per stupro
               del 1978, eppure siamo nel 2024. Viene analizzata la condotta della vittima e
               quasi le si addossano delle responsabilità, comportando una mancanza di cura
               nei confronti della persona offesa e una limitazione della responsabilità dell’im-
               putato.
                    Vi è inoltre il rischio di mettere in secondo piano l’elemento del consenso,
               senza tener conto che l’invasione della sfera sessuale della persona offesa in


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