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In punta
di penna
ABBANDONIAMO
LA LOCATION
All’improvviso, circa dieci anni fa, forse metà della popolazione italiana
aveva scoperto di non possedere una parola importante: la parola per indicare
il luogo dove si teneva una conferenza, una mostra, una festa di compleanno,
un banchetto e forse perfino un funerale. La parola giusta era finalmente
arrivata dall’angloamericano e bisognava impararla subito e usarla in tutte
quelle occasioni: era lokèscion, per iscritto location. Mi è capitato di sentire
di Francesco definire location(lokescionper l’orecchio) la navata di una chiesa trecentesca,
Sabatini
con le pareti coperte di affreschi, dove si svolgeva un concorso di poesia
accompagnato da musiche.
Dovremmo credere che per secoli ci era mancato il termine per indicare i luoghi in cui
avvenivano quelle cerimonie e altre simili? Non è vero: avevamo il vocabolo generico “luogo”
e secondo i casi avevamo da scegliere tra “sede, sala, ambiente, spazio”, e in casi specifici
potevamo dire “sistemazione, posizione e collocazione”. Ma come spiegare, allora, che milioni
di persone che fino a un certo momento si erano servite tranquillamente di un ventaglio di
parole chiare e appropriate, presenti nella nostra lingua, venissero folgorate dall’arrivo di un
termine così vago e polisenso? Senza dire che quel termine in inglese ha un significato alquanto
diverso, di “localizzazione, individuazione di una postazione” e simili, e con tale significato
era stato fatto proprio dal linguaggio del cinema. In questi panni, infatti, era entrato in italiano
a metà degli anni ’90 del secolo scorso (“attività che consiste nella ricerca dei luoghi in cui
girare le scene di un film; i luoghi stessi in cui vengono successivamente ambientate le scene”:
così nel Grande Dizionario di Tullio De Mauro). L’estensione a tutti gli altri casi, dunque, è
una deformazione italiana. E questo è un chiaro segno che molti parlanti del nostro Paese
attribuiscono valore superiore a qualsiasi parola che sia o sembri di origine inglese. Un altro
movente è nella pigrizia: di fronte al dover scegliere il termine più adatto, si prende quello che
li può, vagamente, comprendere tutti. Chiaramente, entrambi questi atteggiamenti non
indicano affatto superiorità culturale.
A conclusione di questa piccola serie di richiami di attenzione a non seguire una pura moda,
ritengo utile fornire, a tutti quelli che vogliono riflettere sul fenomeno, una regoletta in quattro
punti e due deduzioni.
Prima di usare una parola nuova (estera o anche italiana) chiediti:
• se ne conosci bene il significato
• se ne conosci bene la pronuncia
• se ne conosci bene la grafia
• se sei sicuro che quella parola è ben nota alle persone dell’ambiente in cui sei immerso.
Se una sola di queste condizioni manca:
• nel primo o nel secondo o nel terzo caso, fai la figura dell’ignorante
• nel quarto caso dimostri di disprezzare l’ambiente che ti circonda.
La lingua non è fatta per distinguersi dagli altri, ma per migliorare l’intesa con tutta la società
con la quale condividiamo la maggior parte delle condizioni e delle risorse per vivere.
116 IL CARABINIERE - MARZO - 2018