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STUDI GIURIDICO-PROFESSIONALI




                  E quali erano i suoi rapporti con il più ampio contesto - quello della capi-
             tale - che la circondava e idealmente la regolava? Un fatto spiccava più di altri.
             Stavamo comunque studiando uno dei luoghi più famosi della capitale d’Italia.
             E tutta la letteratura sulla mafia ci aveva consegnato una tesi: che il fenomeno
             mafioso fosse il frutto di una lontananza o assenza dello Stato. Fosse figlio,
             cioè,  di  un  “vuoto  di  Stato”,  manifestatosi  storicamente  in  forme  diverse.
             Quella dello Stato-simulacro, come nella Sicilia descritta così efficacemente da
             Leopoldo Franchetti nell’inchiesta condotta con Sidney Sonnino nel secondo
             decennio di vita del Regno Unitario . Quello Stato che nell’isola “appare come
                                               (4)
             accampato tra i suoi nemici”, proiezione solo apparente di una entità esterna,
             lo Stato “piemontese”. Oppure nella forma di una entità fisicamente lontana,
             non simulacro ma proprio incomunicabile geograficamente, per via della disse-
             minazione dei cittadini su territori lunghi e spesso impervi anche alla pubblica
             autorità,  come  nel  caso  della  ‘ndrangheta  calabrese .  Oppure  ancora  nella
                                                                 (5)
             forma di assenza sociale, per via di un patto tacito ma esplicito con i gruppi
             facinorosi, incaricati di garantire un minimo di ordine in una realtà popolosa e
             anarchica, come nel caso della camorra napoletana . Insomma, lo Stato lonta-
                                                              (6)
             no, o in trasferta, o che non ha i mezzi per imporre la sua autorità. Ma poteva
             reggere questo modello esplicativo, pur ricco di varianti, nel caso di Ostia, nel
             caso di Roma? Quale “vuoto di Stato” può lamentare una Capitale di immenso
             valore storico-simbolico, peraltro alla guida di uno Stato ancora per tanti aspetti
             centralista? In essa di sicuro le istituzioni centrali non giocano in trasferta. Le
             vie di comunicazione vi sono, nonostante i loro difetti, ricche, ben irradiate e
             percorribili. Mentre sul territorio lo Stato allinea tutta la propria potenza repres-
             siva e preventiva. Esprimendo in massimo grado, anche esteticamente, l’idea
             weberiana del potere. Nella capitale si concentrano tutti i comandi centrali delle
             Forze dell’ordine con le dovute risorse operative; tutti i comandi delle Forze
             armate; tutti i ministeri, largamente distribuiti sul territorio urbano; strutture
             burocratiche di controllo e sorveglianza; tutte le ambasciate e le relative unità di
             protezione. E il governo, e il parlamento. E le sedi giudiziarie più elevate e pre-
             stigiose. E la presidenza della Repubblica. Senza parlare, per Roma, del Comune
             e dei suoi molti e potenti Municipi. E della Regione.

             (4)  Leopoldo FRANCHETTI, Condizioni politiche e amministrative della Sicilia, Donzelli, Roma, 1993
                  (ed. origin. 1877).
             (5)  Su  questo  si  trovano  notazioni  interessanti  anche  in  Giuseppe  PIGNATONE,  Michele
                  PRESTIPINO, Il contagio. Come la ‘ndrangheta ha infettato l’Italia, Laterza, Roma-Bari, 2012 (a cura
                  di Gaetano SAVATTERI).
             (6)  Isaia SALES, La Camorra, le camorre, Editori Riuniti, Roma, 1986; Francesco BARBAGALLO,
                  Storia della Camorra, Laterza, Roma-Bari, 2010.
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