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Metropoli immaginate


               tà del “luogo” che si è appena attraversato, il quartiere che si è momen-

         FOCUS  taneamente vissuto, la città che si è visitata.
                  Le “utopie” che prendono forma aggrediscono la storia e la realtà,
               vanificano il senso del “viaggio” così come lo avevamo ereditato dalla
               tradizione romantica: ricerca, appunto, dell’identità. Non c’è più spazio
               per questo movimento che tende alla riscoperta di se stessi. In questo
               mondo uniformato, l’“anima” della realtà “oggettivata” che ci circonda
               (utensili, strumenti, apparecchiature elettroniche) è sempre la stessa: la
               “Tecnica”, anche se vestita di draghi a Pechino o di dettagli “decò” a
               San Francisco.
                  Questa assoluta omogeneità tende a rendere le differenze (al massi-
               mo, e nella migliore delle ipotesi) un po’ kitsch con un gusto “retrò”. E
               poi videocitofoni, videotelefoni, videocellulari, il proliferare delle tele-
               camere per il “controllo dell’eccedenza”, fanno sì che fine ultimo di
               questa tecnologia siano la cattura e la moltiplicazione all’infinito del-
               l’immagine. La parola smarrisce il suo significato, il proprio valore, e
               proprio l’immagine si configura come l’ultima - un po’ evanescente -
               identità dell’uomo. Proprio nel capolavoro di Wenders, la cecità pro-
               dotta nei protagonisti dalla volontà di trasferire sui monitor i “sogni”
               appare come una metafora dell’ultimo uomo, che appartiene ad una
               contemporaneità scandita da questo eterno presente, vittima di questa
               proliferazione di immagini che rende impossibile “vedere” la sua civil-
               tà. Come aveva ammonito Marshall McLuhan: «L’immagine non può
               essere uno sfondo. Ci impegna. Ci assorbe».
                  La volontà di mercificare i sogni, ultimo spazio di intimità biologica
               dell’uomo, nel tentativo di farne materiale d’intrattenimento, evidenzia
               da una parte una sfiducia nei confronti dei processi comunicativi visivi,
               ma dall’altra configura una nuova forma di politica universale.
                  Sempre Wenders giunge ad affermare: «…il divertimento diventerà
               palesemente una continuazione della politica con altri mezzi».
                  Dunque, non è un caso se si scopre che i “grandi progetti” simbolo
               delle metropoli di questo passaggio di millennio non siano grandi sta-
               zioni, infrastrutture o luoghi di culto, bensì grandi spazi per l’intratteni-
               mento: l’Auditorium di Renzo Piano, The Millennium Dome o The Hire
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               sulle sponde del Tamigi, cittadelle della musica o della scienza, ma an-
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