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NANDO DALLA CHIESA
Ben diversamente dai
leader politici che nella
calca sollevano un bimbo
per farsi riprendere dalle
tivù, sentiva come ogni
bimbo che accarezzava
avesse dietro (e davanti) un
pezzo di storia della “sua”
Arma.
Se oggi in tutte le sta-
zioni e le compagnie c’è,
non prescritto da alcun
regolamento, il suo ritratto,
è per tutto questo. Chi non
ha conosciuto questa storia
pensa in effetti che la sua
memoria nella grande
comunità degli alamari sia
dovuta al sacrificio finale,
all’eroismo della solitudine,
alla scelta di restare a testi-
Roma, 16 dicembre 1981
Il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa al termine della cerimonia moniare lo Stato là dove la
di insediamento quale nuovo Vice Comandante Generale mafia aveva conquistato il
(Fonte: Direzione dei Beni Storici e Documentali dell’Arma dei potere a colpi di kalashni-
Carabinieri, fototeca 34.816)
kov e di codardie altrui.
Alla fine terribile che lo attendeva dopo essersi dovuto spogliare degli ala-
mari “cuciti sulla pelle”. E anche all’orgoglio per “il nostro generale” che seppe
guidare l’Italia alla vittoria contro un terrorismo che pareva eterno, spietato,
fonte di un bollettino di guerra quotidiano. Ma l’affetto, e se vogliamo la leg-
genda, nacquero prima. Gli eventi tragici non fecero cioè che esaltare, rendere
più struggente un sentimento già radicato.
Il momento in cui lo colsi, in tutta la sua meravigliosa evidenza, fu nel
primo autunno del 1973. Mio padre e mia madre dovevano lasciare Palermo e
partire per Torino, dove lui era stato destinato appena promosso generale di bri-
gata. Andai a salutarli al porto con la mia futura moglie. A un certo punto vidi
da lontano, arrivando, qualcosa che sembrava un tumulto sotto la nave. Era un
enorme assembramento di persone di tutte le età. Grandi e piccini, uomini e
donne.
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