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NANDO DALLA CHIESA
Di conosce-
re personalmente
problemi di scuola
dei figli o di salute
dei familiari, la
disponibilità di
televisori o di
medicinali o di
munizioni in
caserma, o ragioni
urgenti di trasferi-
mento di sede. Ho
trovato bloc notes
pieni di suoi
appunti di viaggio.
Perfino di un viag-
gio a Lampedusa.
E mi sono chiesto Palermo, 1982. Il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa nelle vesti di
quanti comandan- Prefetto durante un incontro con gli studenti del capoluogo.
ti, anche validi, si (Fonte: Archivio privato Generale Michele Di Martino, Palermo. Raccolta fotografica)
sobbarcassero queste fatiche, addirittura viaggi di due giorni per visitare una sta-
zione, per conquistare una conoscenza profonda del territorio e degli uomini,
anzi della “grande famiglia dell’Arma”.
Perché anche questo concetto restava sullo sfondo, ossia il dovere di un
comandante di costruire un clima partecipativo, di rafforzare il senso di identità
collettiva e di appartenenza dei suoi uomini e delle loro famiglie. La sua azione di
comando era dunque poliedrica, perseguendo contemporaneamente più fini, tra
loro intimamente interrelati. Controllare, incoraggiare, proteggere, accogliere,
motivare, formare, indirizzare, insegnare (“Lei”, chiese durante l’intervista televi-
siva a Enzo Biagi del 1981, “se l’immagina un maresciallo dei carabinieri che non
sa che cos’è la mafia?”), aiutare.
Anche punire, per impedire accidie e degenerazioni, se del caso. Un’azione
di comando nutrita del rispetto quasi sacro per la figura del maresciallo o dell’an-
ziano appuntato, su cui sapeva bene che si fondavano la forza inimitabile e anche
il prestigio popolare dell’Arma. Ma anche nutrita dell’affetto quasi paterno verso
i più giovani, che hanno “lo sguardo pulito”. Che lo portò a dire, sempre a Biagi,
che la sua storia, che non era stata “una favola”, “ambisco solo a raccontarla ai
più giovani della mia Arma”.
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