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Giustizia militare

Sentenze tratte dalla “Rassegna della Giustizia Militare”, n.3-4, maggio-agosto 1999, pagg. 213 ss.

Usurpazione di comando - Reato contro il servizio militare.

(C.p.m.p., art. 114)

Tribunale militare di Napoli, 13 gennaio 1993. Pres. Lucarelli, Est. Sabino, Imp. F.; interposto appello.

Il reato comune di usurpazione di comando militare (art. 287 c.p.) è caratterizzato dalla qualità del comando assunto e dal movente politico; il reato militare di cui all’art. 114 c.p.m.p., pur non escludendo tale ultima possibilità (da ciò la previsione del medesimo massimo edittale di pena), si pone precipuamente come fatto lesivo solo del servizio militare.

(Omissis)

5. Muovendo da tali risultanze processuali il Tribunale, ai fini della decisione, ritiene utile in primo luogo esaminare brevemente la fattispecie astratta entro la quale l’accusa ritiene si inquadri la vicenda per cui è causa.
Invero trattasi di un reato, decisamente di raro accadimento, sul quale non risulta essersi formata una giurisprudenza e su cui neanche la dottrina si è particolarmente soffermata. Inoltre esso non è ignorato dalla legge penale comune (art. 287 c.p.) sia pur con sostanziose differenze.
Ne consegue la necessità di una operazione interpretativa che, prendendo le mosse dall’esame letterale della norma, proceda ad una analisi comparata del reato militare e di quello comune, alla luce dei lavori preparatori che in questa materia risultano particolarmente illuminati.

L’art. 114 c.p.m.p. punisce con la reclusione militare da due a quindici anni il militare che indebitamente assume o ritiene un comando. Se il comando indebitamente assunto è ritenuto contro l’ordine dei capi scatta un’aggravante in base alla quale la pena è aumentata da un terzo alla metà.
La sua natura di reato contro il servizio militare, oltre che dalla sua collocazione sistematica, si ricava anche dal raffronto con il corrispondente reato comune il quale è caratterizzato da connotati squisitamente politici. Le differenti finalità di tutela perseguite dalle due norme si traducono, come successivamente si vedrà, in differenze di struttura e di regime sanzionatorio.

Elemento materiale del reato militare è l’assunzione o la ritenzione indebita di un comando. Nell’avverbio «indebitamente» è contenuta, con tutta evidenza, la sostanza della fattispecie, la quale si realizza ogniqualvolta alla posizione di comando non corrisponde un provvedimento di attribuzione da parte delle superiori competenti autorità. In altri termini, incorre nel reato il militare che assume un comando non assegnatogli o ritiene un comando dal quale è stato rimosso dal superiore competente.
È importante notare che la norma non fa alcun riferimento all’esercizio concreto del comando, assegnando di fatto agli atti mediante i quali esso eventualmente si esplichi una funzione meramente confermativa della assunzione o ritenzione del comando stesso, la cui sussistenza può anche ridursi ad una posizione formale, la quale, però, deve sempre essere giuridicamente ed amministrativamente rilevante.
Cosa debba intendersi per comando è problema di grande importanza ma facilmente risolvibile grazie proprio al confronto con il reato comune ed all’esame dei lavori preparatori.

A tal fine va subito detto che l’art. 287 c.p. punisce con la pena della reclusione da sei a quindici anni chiunque indebitamente assume un alto comando militare.
Le differenze che balzano agli occhi rispetto al reato militare sono costituite dal minimo edittale della pena, fissato in sei anni, e dalla precisazione che quello usurpato deve essere un «alto» comando militare.
La spiegazione di tali differenze si rinviene, richiamandosi ai lavori preparatori, considerando soprattutto che il reato comune è caratterizzato dal movente politico, laddove il reato militare, pur non escludendo tale possibilità (da ciò la previsione del medesimo massimo edittale di pena), si pone precipuamente come lesivo solo del servizio militare (e, di riflesso, della disciplina). Ciò giustifica la limitazione contenuta nell’art. 287 c.p. che configura il reato comune come usurpazione di un «alto» comando militare, nozione che «va desunta dall’ordinamento dell’esercito» e «si presta meglio, nella sua sintesi, ad includere nella sfera di applicazione dell’articolo in esame tutti quei casi, che assumano tale gravità da mettere in forse la sicurezza dello Stato» (Relazione del Guardasigilli sul progetto del codice penale - art. 287 - vol. II, p. 71-72). Inoltre il pericolo per la sicurezza dello Stato connaturato alla violazione della norma comune, rende ragionevole anche un minimo edittale di pena considerevolmente più elevato rispetto a quello del reato militare.

Tutto ciò per chiarire come e perché la nozione di comando recepita dall’art. 114 c.p.m.p. «ha un significato generico, amplissimo, riferibile sia alle persone come alle cose e quindi comprende non soltanto il corpo, la nave, la fortezza, ma qualsiasi posto di servizio o servizio in genere, non esclusi i servizi amministrativi» (Relazione della Commissione Reale al progetto preliminare del Codice penale militare di pace, I a parte, vol. III, n. 76). A tale ampiezza nel concetto di comando corrisponde, in relazione al reato militare, una maggiore discrezionalità per il giudice di valutare in concreto la gravità del reato, potendo spaziare entro una pena edittale che va da un minimo di due anni ad un massimo di quindici anni di reclusione militare. Tale aspetto è stato frutto di particolare attenzione da parte del legislatore.
Infatti, rispetto al progetto preliminare, la Commissione Ministeriale decise di elevare il massimo della pena uniformandolo a quello previsto per il reato comune, nella consapevolezza che il reato, anche se commesso da un militare e quindi riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 114 c.p.m.p., ben poteva essere caratterizzato da un movente politico ed essere, dunque, pericoloso per la sicurezza dello Stato, oltre che lesivo del servizio militare. Inoltre provvide a diminuire il minimo edittale da tre a due anni, in considerazione della genericità ed ampiezza della espressione «comando» rispetto a quella ben più restrittiva «alto comando militare» utilizzata nel reato comune per i motivi prima indicati (cfr. Relazione della Commissione Ministeriale al progetto definitivo del Codice Penale militare di pace, 2a parte, vol. II, n. 120).

6. Riguardo all’elemento psicologico del reato di cui trattasi, nessun dubbio che consista nel dolo generico, essendo sufficiente l’intenzione di assumere o ritenere un comando indebitamente.
Qualche breve considerazione deve essere ancora fatta in merito ai riflessi sul dolo determinati dalla espressione «indebitamente» che connota di una forma di antigiuridicità speciale la condotta criminosa.
Come in casi analoghi, il legislatore ha posto l’antigiuridicità (espressa dal termine «indebitamente») come parte integrante del fatto, inteso come elemento materiale del reato.
Così che il dolo deve abbracciare anche tale aspetto, nel senso che, pur non essendo richiesta la coscienza e volontà dell’illiceità del fatto, nel caso di specie è necessaria la coscienza dell’antigiuridicità della condotta, la quale antigiuridicità (assumendo le forme di elemento normativo) deriva, per il reato che qui interessa, dalla illegittimità della assunzione o ritenzione del comando.
Consegue a ciò che l’elemento normativo inserito nella disposizione incriminatrice assume il ruolo di elemento del fatto, come tale soggiacente alla disciplina degli artt. 42 e 47 c.p..

(Omissis).


Usurpazione di comando -Reato di pericolo - Fattispecie.

(C.p.m.p., art. 114)

G.u.p. del Tribunale Militare di Padova, 27 gennaio 1993. Giud. Bocchini, p.m. conf., imp. F.; interposto appello.

Dal momento che l’usurpazione di comando consiste nell’indebita autoattribuzione di un potere di comando con conseguente turbativa nei confronti dell’attività del legittimo titolare del potere medesimo, il reato ben si realizza con l’emanazione di ordini e direttive contrastanti con le disposizioni del comandante e con altre manifestazioni di misconoscimento dell’autorità del medesimo.

(Omissis)

All’odierna udienza il maresciallo F. è innanzitutto chiamato a rispondere del reato di usurpazione di comando (art. 114 c.p.m.p.). Tale reato nella sistematica del codice è inserito nell’ambito dei reati contro il servizio militare e, più precisamente, nella sezione I capo I che si occupa della violazione di doveri generali inerenti al comando, categoria nella quale il bene giuridico tutelato è il servizio militare in quanto esercizio di comando che garantisce che la prerogativa del comando sia assicurata esclusivamente a quei soggetti cui compete secondo l’ordinamento giuridico; rilievo questo di primaria importanza nel consorzio militare, rigorosamente organizzato secondo criteri gerarchici, dove quindi un attentato alle funzioni inerenti al comando minerebbe alle fondamenta il sistema in quanto introdurrebbe, con la creazione del disorientamento e del disordine, il seme dell’eversione.
L’art. 114 c.p.m.p. suggerisce immediatamente un confronto con l’art. 287 c.p.: da esso differisce perché può essere realizzato esclusivamente da un soggetto militare e perché sotto il profilo della condotta incriminata non è circoscritto alla «assunzione di un alto comando militare» ma si estende «alla assunzione o ritenzione di un qualsiasi comando».

Il termine comando ha un significato quindi molto ampio, riferibile sia alle persone che alle cose, e si concreta nella condizione facente capo ad una persona fisica, il comandante appunto, che consente di svolgere azione decisionale direttiva e di controllo non solo nei confronti di una unità militare, ma anche nei confronti di qualsiasi posto di servizio non esclusi i servizi amministrativi.
Il fatto contemplato dalla norma, come tutte le ipotesi di usurpazione prese in considerazione dal diritto penale, deve consistere nell’impadronirsi di un potere che non spetta all’agente, il fatto cioè deve essere posto in essere indebitamente, agendo quindi senza averne facoltà da parte dell’ordinamento giuridico.
L’arbitrarietà della condotta intesa in tal senso costituisce pertanto l’essenza dell’usurpazione.
Essa ha come ripercussione diretta, come conseguenza il turbare o l’impedire al legittimo titolare l’esercizio del potere stesso.
Ed è questo risultato immediato che il legislatore avrebbe preso in considerazione con l’incriminazione del comportamento usurpatorio, per evitare appunto il grosso impaccio, le difficoltà, l’intralcio per il servizio derivante dall’introduzione nell’organizzazione militare di un elemento di disordine e di disorientamento.
Il delitto de quo, nonostante la diversa opinione del Manzini che lo ritiene di danno, è reato di pericolo tale cioè che per la sua perfezione giuridica è sufficiente che il bene tutelato sia semplicemente minacciato; ed è di pericolo astratto nelle prime tre ipotesi dell’art. 114 c.p.m.p., mentre di pericolo concreto nella norma di cui all’ultimo comma dello stesso articolo.

Che sia così lo si comprende innanzitutto dal fatto che la norma è collocata nell’ambito e a fianco di altre disposizioni (si veda ad esempio l’art. 115 c.p.m.p.: movimento arbitrario di forze militari) dirette ad impedire comportamenti che hanno in sé una tale potenzialità offensiva nei confronti del bene protetto che il semplice porli in essere indipendentemente dalle conseguenze prodotte costituisce fatto punibile.
In secondo luogo perché, come è pacificamente riconosciuto in dottrina, a realizzare il reato de quo è sufficiente essersi posto nella condizione idonea ad esercitare il comando, non essendo necessario esercitarlo effettivamente quando si è manifestato pubblicamente o almeno nei confronti degli organi legittimi la presa di possesso.
Del resto lo stesso Manzini afferma che «il delitto si consuma nel momento e nel luogo in cui l’agente è riuscito a porsi, anche precariamente, nella situazione di fatto che rende possibile l’esercizio del comando».

È questo l’evento del reato, è questa la violazione dell’interesse protetto dalla norma che si realizza subito e al di fuori di qualsiasi altro effetto dannoso, perché è in questo modo appunto che viene minacciata la struttura militare con la creazione in quella organizzazione del senso di disorientamento e di disordine.
Sempre sotto il profilo oggettivo va precisato che il comando viene assunto quando il militare compie, indebitamente, uno o più atti di esercizio delle funzioni o attribuzioni inerenti al comando non essendo sufficiente attribuirsi la qualifica corrispondente alla funzione.
Infine è opportuno rilevare che l’elemento soggettivo del delitto in esame è costituito dal dolo generico: non essendo richiesto che il soggetto agisca per scopi particolari è sufficiente la volontà libera e cosciente di assumere un comando senza averne facoltà da parte dell’ordinamento giuridico.
Dopo tale excursus questo giudice ritiene di poter affermare la responsabilità del F. in ordine al reato ascrittogli in quanto di esso appaiono compiutamente realizzati gli elementi oggettivi e soggettivi richiesti.

Il sottufficiale con piena consapevolezza della portata del suo gesto si è intenzionalmente posto in una posizione di comando che non gli competeva.
Perché non sorgessero dubbi o comunque inequivoca la sua volontà l’imputato, dopo aver disconosciuto l’Autorità dei superiori circa il Comando navale con manifestazione espressa di tale intenzione, e comunicato ai Comandanti Unità Navali e Mezzi Navali che avrebbero dovuto attenersi solo alle sue direttive, faceva seguire a ciò l’emanazione di ordini e disposizioni circa l’impiego dei mezzi, contrastanti con quelli precedentemente impartiti dall’Autorità Competente dichiarati dallo stesso «abrogati».
In ordine all’arbitrarietà della condotta a nulla vale il rilievo circa una presunta non conformità della normativa di imbarco con le disposizioni del Codice della Navigazione: a parte il fatto che in dottrina è ampiamente dibattuto e controverso il problema diretto a stabilire se rientrino nella materia oggetto del diritto della navigazione le navi e gli aeromobili militari.
Va precisato a scanso di equivoci di fronte ad osservazioni puramente suggestive che il maresciallo F. ha operato al di fuori di una situazione che imponesse la salvaguardia della vita umana in mare: cioè si potrebbe dubitare del requisito della indebita condotta solo se l’azione fosse stata posta in essere in una situazione contingente particolare riconducibile allo stato di necessità di cui all’art. 54 c.p. o di necessità militare di cui all’art. 44 c.p.m.p.

In verità il F. ha agito solo perché non riteneva soddisfacente il modo in cui i problemi venivano affrontati e risolti dai suoi superiori.
E sotto il profilo soggettivo non rileva la circostanza che il sottufficiale perseguisse lo scopo di smuovere l’ambiente perché si addivenisse ad una soluzione definitiva: il dolo del reato è dolo generico e sotto questo aspetto non si può disconoscere che egli aveva la piena coscienza di arrogarsi poteri che non gli spettavano.
Infine si esclude che nel caso di specie vi sia stato semplicemente tentativo di usurpazione e non solo perché trattandosi di reato di pericolo vi sarebbe incompatibilità logica tra i due concetti, ma perché a ben guardare siano in presenza di una attività compiutamente realizzata e non semplicemente idonea e diretta inequivocabilmente allo scopo; non di attività propedeutica e preparatoria si tratta ma di vero e proprio esercizio di una funzione, con il compimento di atti ad essa inerenti.
Pertanto va affermata la penale responsabilità dell’imputato per quanto concerne la contestazione sub A).

(Omissis).