Michele Maffei

Giunto al fin della licenza, io tocco.

MedagliereUna volta una ragazza gli scrisse: «Sei uno Zorro più affascinante di Alain Delon». Di lettere di questo genere ne riceveva parecchie, perché - oltre a essere un campione di scherma - era un ragazzo aitante, biondo, con gli occhi glauchi, di quelli che fanno sognare le adolescenti. Fosse nato una ventina di anni più tardi, il cinema - o la televisione - l'avrebbero certamente catturato. I suoi erano tempi diversi, e la distanza fra il mondo dello sport e quello dello spettacolo era praticamente incolmabile (a parte il caso, unico, di Carlo Pedersoli, campione di nuoto, trasformato in divo dello schermo con lo pseudonimo di Bud Spencer, ma quasi nessuno sapeva che fosse stato il primo italiano a scendere sotto il minuto nei cento metri stile libero).

Maffei, uomo di sport, è sempre rimasto tale, anche se il suo volto da attore contribuì in misura determinante a rendere popolare la scherma, disciplina tecnica di cui i media s'accorgono soltanto in occasione delle Olimpiadi o dei Campionati del mondo.
È ancora un uomo di sport. Il suo ufficio è al quarto piano del nuovo palazzo delle Federazioni Sportive del Coni, in via Flaminia, a Roma. È rimasto nell'ambiente, dopo aver chiuso parecchi anni fa la carriera agonistica. E adesso è il segretario generale della Federazione Italiana Scherma.
Prima ha ricoperto altri importanti incarichi nello sport italiano: è stato il responsabile dei Giochi della Gioventù, s'è occupato dello sport per disabili, è stato segretario della Federazione del Pentathlon Moderno, ha guidato (in un momento complesso e difficile, ma con risultati eccellenti) le sorti della medicina sportiva.
Un'altra ragazza, sempre ai tempi delle sue medaglie d'oro, gli scrisse: «Sei il mio Scaramouche».

L'esultanza di Maffei dopo la vittoria della medaglia d'oro a squadre alle Olimpiadi di Mondiali 1972.La scherma ha un forte potere evocativo. Richiama alla memoria i duelli, Alessandro Dumas e i tre moschettieri, la cavalleria, i tornei medievali e Walter Scott, i tempi andati nei quali l'onore si difendeva sul filo di una lama, magari all'alba, dietro un convento. Il cinema di Barry Lindon, eredità nobile del genere cappa e spada che furoreggiava all'epoca di Errol Flynn o - prima ancora - di John Barrymore. O i versi indimenticabili di Edmund Rostand, scritti per l'eroe sfortunato Cyrano de Bergerac: «e giunto al fin della licenza / io tocco!». Il controllo totale del proprio corpo, delle proprie emozioni, la capacità di colpire al momento giusto, quello utile per una rima, e una stoccata.

Gli schermidori, nonostante la scarsa notorietà di cui godono rispetto ai calciatori, ai ciclisti o ai piloti di formula Uno, hanno il potere di affascinare le adolescenti. Poi sono in pochi a distinguere la spada dal fioretto o dalla sciabola, a capire le finezze tecniche e le sequenze di parate e risposte che costituiscono il succo di una disciplina difficile e faticosa, che richiede una preparazione dura e lunghissima. Le ore in palestra e in sala d'armi, la concentrazione assoluta, presupposto indispensabile per "toccare" al momento giusto, cercando il punto debole dell'avversario e coprendo il proprio.

La squadra medaglia d'oro di sciabola a Monaco: Mario Tullio Montano, Rolando Rigoli, Mario Aldo Montano, Michele Maffei.Michele entrò la prima volta in una sala d'armi che aveva appena nove anni. «Un amico di mio padre, il maestro De Sanctis, mi volle portare in palestra. Lui si dimostrò subito convinto delle mie possibilità. Cominciai con il fioretto, ma non riuscivo ad emergere: mi mancava la zampata. A sedici anni passai alla sciabola. Mi accorsi subito che era quella la mia specialità. Rispetto al fioretto, la sciabola è un'arma meno pignola, più guascona. In qualche modo, a bersaglio ci si va». La guasconeria può essere letta come una caratteristica romana, e Maffei è un romano purosangue. «Un po' pigro, un po' fatalista, con un pizzico di superstizione», disse una volta.
Gli atleti vinsero l'argento a squadre nella sciabola a Mosca: Giovanni Scalzo, Marco Romano, Mario Aldo Montano, Ferdinando Meglio e Michele Maffei.Per altri versi, Maffei era invece considerato, quando tirava, molto poco italiano. Freddo e compassato, quasi nordico. «Prima di una competizione importante», confessava, «sono nervoso anch'io: dormo meno bene del solito e fumo qualche sigaretta in più. Ma cerco di non lasciar trapelare nulla per togliere sicurezza all'avversario. Evito anche di fare scene inutili, e questo finisce alla lunga per accattivarmi le simpatie delle giurie».

Conquistò il titolo di Campione del Mondo nell'individuale di sciabola nel 1971 a Vienna, quando aveva venticinque anni, e le giurie internazionali non avevano ancora avuto modo (forse) di apprezzare in pieno la sua compostezza. Tre anni prima, alle Olimpiadi di Città del Messico, s'era classificato secondo nella sciabola a squadre, e settimo nel fioretto a squadre (segno di una versatilità notevole). In quello stesso anno (il 1986) era salito sul gradino più alto del podio nel fioretto individuale ai Campionati Mondiali Militari e aveva conquistato la medaglia d'argento nella sciabola a squadre.

Quando vinse il mondiale di Vienna da due mesi era entrato a far parte del Centro Sportivo Carabinieri. Vi sarebbe rimasto fino al 1974. Un periodo, tutto sommato, breve nell'arco una carriera agonistica protrattasi - ad altissimi livelli - per oltre quindici anni, dalle Olimpiadi del 1968 fino ai Mondiali del 1983 (ancora Vienna) quando fu medaglia di bronzo nella sciabola a squadre.
Eppure, quei tre anni nell'Arma lasciarono una traccia profonda.
«Furono anni molto intensi», ricorda Maffei, «anche perché coincisero con un periodo di rinascita dello sport italiano. L'Arma mi aiutò moltissimo, come aiutò molti altri miei colleghi. I Carabinieri e, più in generale, le Forze Armate svolsero allora (e svolgono ancora oggi) un ruolo decisivo perché il movimento sportivo italiano crescesse e maturasse profondamente. Questa è la ragione per la quale i miei legami con l'Arma sono rimasti sempre strettissimi».
I ricordi si intrecciano: la caserma in cui prestava servizio a Roma, il corso Allievi, la sala di scherma in viale Romania (dove c'era anche il maneggio), il colonnello Giancarlo Giudici, che aveva creato il Centro Sportivo dell'Arma, e il Maestro Pietrolati, insegnante di scherma.

Disegno di Walter Molino.Alla fine degli anni Sessanta - ai tempi dei primi successi internazionali di Maffei - la scherma stava cambiando pelle. Non erano più sufficienti, come in passato, l'eleganza e la fantasia: occorrevano doti atletiche, e questo comportava allenamenti pesanti e gravosi. Tramontava l'epoca delle due grandi scuole: l'italiana (morbida e fluida) e la francese (possente e vigorosa), tutte e due basate su un'agilità felina, e sullo studio psicologico dell'avversario. Solo i maestri erano ammessi ai grandi tornei: i dilettanti erano classificati in una categoria a parte.

Furono i Paesi dell'Est, e in particolare l'Unione Sovietica, a rivoluzionare il modo di combattere, operando una sintesi fra le due differenti impostazioni, e puntando molto di più sull'errore avversario. E - appunto - sulla preparazione fisica.
Anni di lavoro. La prima volta in pedana a nove anni, la prima Olimpiade a ventidue. Un numero incalcolabile di medaglie. Quattro campionati italiani, due Giochi del Mediterraneo. Un palmares importante, e un bilancio ancor più positivo. «Spero», riassume oggi Maffei, «di aver offerto un esempio ai giovani. Credo di aver interpretato nel modo giusto il rapporto con lo sport: correttezza e onestà».
Corretto e onesto al punto da riconoscere che altri schermidori italiani del dopoguerra sono stati più grandi di lui: Edoardo Mangiarotti (un mito), Valentina Vezzali, ancora in attività, e Mauro Numa, carabiniere anche lui.
Numa, in carriera, ha vinto di più. Ma il nome di Maffei è rimasto più del suo nella memoria dell'Arma. Per una serie di ragioni, alcune impalpabili. Il momento storico dei suoi successi, il volto da divo del cinema, la carriera proseguita ben oltre la fine dell'attività agonistica. Una vita dedicata interamente allo sport. E poi quelle lettere delle ragazze che lo paragonavano ad Alain Delon, a Zorro, ai moschettieri.

La scherma è uno sport complicato. Serve eleganza e fantasia, come s'è detto. E doti atletiche. Occorre una grande serietà e costanza negli allenamenti. Ma serve anche la testa: il massimo della concentrazione. Altrimenti una gara vinta, ti scivola via.
È quanto accadde a Maffei nel 1972, alle Olimpiadi di Monaco, nella gara individuale. «Ero tra i favoriti», raccontò in un'intervista di qualche tempo dopo, «e avevo la vittoria a portata di mano. Mi sarebbe bastato un successo sul mancino sovietico Sidiak, la mia bestia nera. Credo di aver sentito troppo quell'incontro. Mi emozionai, e persi. Avrei potuto ancora farcela a entrare in zona medaglie ma, fra errori e sfortuna, infilai altre due sconfitte e rotolai al quarto posto. Che cosa provai? Di tutto. Rabbia, delusione, avvilimento, voglia di smettere. Mi ero preparato meticolosamente per un anno e non mi era riuscito neppure di salire sul podio olimpico: per la gente era come se non avessi fatto nulla».
Michele Maffei, con Rolando Rigoli e Mario Montano, mostra al rientro in Italia, la medaglia d'oro vinta nella sciabola a squadre nelle Olimpiadi di Monaco del 1972.Si riabilitò, per fortuna, nella prova a squadre, contribuendo in misura determinante alla conquista della medaglia d'oro, prendendosi anche la rivincita su Sidiak, che sconfisse per 5 a 2.

Un anno più tardi, ai mondiali di Göteborg, un'altra cocente delusione. «Durante le qualificazioni mi infortunai a una caviglia. Un'infrazione ossea. Volevano ingessarmi, ma io chiesi, e ottenni, di tornare in pedana, perché ero ormai vicino alla finale. Fu un errore: non c'ero con la testa: paravo e rispondevo, ma pensavo alla caviglia malandata. Il titolo andò al mio amico Montano, e improvvisamente ebbi la sgradevole sensazione di essere stato dimenticato da tutti. Ci misi due anni per riprendermi e tornare a galla. Fu un'esperienza che mi maturò moltissimo». Dopo di allora provò molto più gusto a vincere.

Nel 1976, a Montreal, fu secondo nella sciabola a squadre e sesto nell'individuale. Nel 1980, a Mosca, ottenne gli stessi piazzamenti. Ai Mondiali salì sul podio a Göteborg (squadre), Grenoble (1974, squadre), Amburgo (1978, individuale e squadre), Melbourne (1979, squadre), Clermont Ferrand (1981, individuale), Roma (1982, squadre), Vienna (1983, squadre).
Una volta, quando era ancora nel pieno dell'attività agonistica, disse: «Quando smetterò, mi piacerebbe dedicarmi all'insegnamento per curare il settore giovanile. Credo che potrei fare ancora qualcosa per la scherma italiana».
Ha fatto molto, sia per la scherma che per lo sport italiano. E continua a fare, nel suo ufficio al quarto piano del nuovo palazzo delle Federazioni Sportive. Dirigente sportivo, con l'animo del Carabiniere.