Rivista tecnico-scientifica ambientale dell'Arma dei Carabinieri                                                            ISSN 2532-7828

MONITORAGGIO DEL TERRITORIO
GLI EVENTI CHE DETERMINARONO LA NASCITA DELLA LEGGE 183/1989 SULLA DIFESA DEL SUOLO
21/10/2022
di Vittorio MAUGLIANI [1]

PROBLEMATICHE DI GESTIONE TERRITORIALE E SISTEMAZIONE IDRAULICA CONNESSE AI FENOMENI DI DISSESTO IDROGEOLOGICO, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO ALL'ASTA DEL FIUME TANARO. AZIONE PREVENTIVA DI MONITORAGGIO E CONTROLLO. 

Foto 1 articolo MauglianiL’intervento ha la finalità di illustrare i tragici eventi della tragedia della Val di Stava del 1985 e dell’emergenza Valtellina del 1987, con il conseguente impatto sull’opinione pubblica, e le conseguenze normative, ovvero i contenuti essenziali della Legge 183/1989 sulla difesa del suolo.

Parole chiave: capacità di invaso, onda di piena, metodo di innalzamento “da monte”, dissesto idrogeologico

The intervention aims to illustrate the tragic events of the Val di Stava tragedy in 1985 and the Valtellina emergency in 1987, with the consequent impact on public opinion, and the regulatory consequences, or the essential contents of Law 183/1989. on soil defense.

Il disastro della diga del Gleno

La diga del Gleno era una diga ad archi multipli costruita tra il 1917 e il 1923 nella valle di Scalve in provincia di Bergamo. Il coronamento della diga era lungo 216,50 m e la sua altezza sul punto più depresso delle fondazioni era circa 51,50 m e la capacità di invaso (invaso utile) era di circa 6 milioni di metri cubi. Crollò alle ore 7:15 della mattina del 1° dicembre 1923, causando 356 vittime (stima non certa) e rappresentando il primo grande disastro causato da una grande diga in Italia.

In data 22 ottobre 1923, a causa di forti piogge, l’invaso della diga del Gleno si riempie completamente, con uno sfioro stimato pari a 12 mc/s, che per l’assenza di un canale evacuatore a valle dello scarico di superficie, scorre lungo il piede di valle della diga urtando contro lo spigolo degli speroni.

Durante il mese di novembre è segnalato l’aumento continuo delle perdite della diga, con valori stimati dell’ordine di circa 100-150 l/s, raccolte e utilizzate nella derivazione sottostante. Il crollo in data 1° dicembre 1923, alle ore 6:30 circa il guardiano Morzenti nell’attraversare la passerella al paramento di valle della diga avverte un violento moto sussultorio. Il guardiano rileva la caduta di massi dall’alto e la comparsa di fessure in rapida evoluzione su alcune delle pile centrali.

Alle ore 7:15 circa avviene il cedimento della diga, ovvero il crollo totale dei contrafforti o pilastri dal numero 4 al numero 11 (impostati sul tampone), il crollo parziale del numero 12, il dissesto del numero 13 ed il crollo totale delle volte appoggiate tra i pilastri dal numero 3 al numero 12 ed il dissesto della volta appoggiata sui pilastri 12 e 13. In circa 15 minuti l’invaso si svuota a valle. Sei milioni di metri cubi d'acqua, fango e detriti precipitarono dal bacino artificiale a circa 1.500 metri di quota, dirigendosi verso il lago d'Iseo, lasciando alle proprie spalle 356 morti, anche se i numeri sono ancora oggi incerti.

L’onda di piena causata dal crollo sconvolse la Valle di Scalve (in provincia di Bergamo) ove distrusse Bueggio, Dezzo di Azzone ed insediamenti minori (fra cui alcune centrali idroelettriche) e la Val Camonica, in cui colpì Gorzone, Corna e Darfo. Le cause della tragedia furono individuate in problemi sia nella fase di progetto che nella fase di costruzione, riguardanti le fondazioni della diga (in particolare alla chiusura dell’incisione dovuta all’erosione fluviale della soglia glaciale su cui era fondata la diga), il cambiamento della tipologia strutturale durante la costruzione e l’utilizzo di materiali molto “poveri”.

 

Il disastro di Stava (1985)

 

Il disastro di Stava avvenne il 19 luglio 1985 alle ore 12:22, nella valle del fiume Avisio nel gruppo montuoso della Marmolada in Veneto. Il collasso in serie di due invasi minori, utilizzati per attività minerarie, non classificati come “grandi dighe”, diede origine ad un “mud flow” di circa 180.000 metri cubi che con altissima velocità scese lungo la valle del fiume Stava fino alla sottostante valle del fiume Avisio. Il flusso di fango, ad una velocità stimata di 90 km/h, scese per circa 4.5 km e distrusse 16 edifici, causando 268 vittime.

Le cause tecniche del disastro furono le eccessive altezze e pendenze dei rilevati in terra degli invasi, le loro inadeguate fondazioni e gli inadeguati materiali utilizzati. In ultima istanza le cause reali furono i motivi economici nell’attività mineraria estrattiva e l’assenza di controllo esterno per un periodo di tempo estremamente lungo, oltre 20 anni.

 

Cenni storici

 

Le prime notizie scritte sulle attività minerarie sul monte Prestavel risalgono al 1528, e si riferiscono all’estrazione di galena argentifera. Dal 1934 lo sfruttamento minerario si concentrò sulla produzione di fluorite, attività che proseguì fino al 1985. Non fu il cambiamento di minerale estratto che condusse al disastro, quanto piuttosto la decisione di cambiare il metodo di raffinazione della fluorite estratta. Dal 1934 il concessionario minerario fu la società Atesina per l’Esplorazione Mineraria, cui nel 1944 subentra Montecatini. Nel 1961 fu deciso (concessionario Montecatini) di utilizzare il metodo “a flottazione” per produrre fluorite pura al 97-98% per l’industria chimica.

In precedenza, era stato utilizzato un metodo a separazione gravimetrica per produrre fluorite alla purezza del 75-85% idonea all’industria dell’acciaio. L’impianto di separazione a flottazione richiedeva abbondanza di acqua, e nelle vicinanze un’area idonea alla decantazione ed al deposito del fango residuo dal processo. Pertanto, fu deciso di realizzare un primo bacino artificiale con diga in terra, costruita utilizzando il materiale di rifiuto dell’attività estrattiva. L’impianto, comprendente l’invaso, fu realizzato sul versante montuoso, all’altitudine di circa 1420 m, insieme ad un acquedotto, una funivia per il trasporto del materiale estratto ed una seggiovia per il personale. Il cambiamento comportò anche l’aumento di produzione, che nel giro di pochi anni passò da 30 t/g a oltre 200 t/g.

La prima diga in terra fu realizzata a partire dal 1961 in località Pozzole, a circa 400 m dagli edifici della miniera. Nel 1967 l’attività estrattiva rallenta a causa dell’esaurimento delle vene minerarie utilizzate, per cessare del tutto nel 1969. Nel 1967 la società Montedison subentra nella concessione alla società Montecatini. Nel 1970 l’attività estrattiva di fluorite riprende, grazie alla scoperta di nuove vene minerarie, mantenendo l’utilizzo del sistema a flottazione per la purificazione del minerale estratto.

Pertanto, nel 1970 inizia la costruzione del secondo bacino, quello superiore. Nel 1976-79 la società Montedison trasferisce la concessione alla società Fluromine, che la passerà successivamente nel maggio 1980 alla società Prealpi Mineraria, che sospende l’utilizzo del metodo a flottazione per la purificazione del minerale di fluorite. Nel 1982 riprende l’utilizzo del metodo a flottazione per la purificazione del minerale estratto, con l’utilizzo di ambedue i bacini sia il superiore che l’inferiore. Il bacino superiore, da aerofotogrammetria risulta aver raggiunto l’altezza di circa 12 m al di sopra del coronamento del bacino inferiore nel 1973, per poi innalzarsi di ulteriori 13 m nel 1983, per un’altezza complessiva di circa 25 m sopra il coronamento del bacino inferiore nel 1983.

 

 

La costruzione dei due invasi – L’invaso inferiore

 

L’invaso inferiore fu costruito a partire dal 1961 nella località Pozzole. L’intera area della località Pozzole è coperta da una morena risalente all’ultima glaciazione. La pendenza media dell’area era di circa 9°. L’area era coperta di boschi e prati, questi ultimi ricchi di zone umide con numerose risorgive. Il primo sbarramento risultava fondato su depositi di detriti morenici e colluviali, dalle pendici del monte Cucal (strati arenaria e calcare) e dalle pendici di Pala di Santa (vulcaniti riolitiche).

Dopo la costruzione del primo rilevato in materiali sciolti con quanto rinvenuto in posto, si pose il problema della diminuzione della capacità di invaso conseguente all’utilizzo, in quanto nell’invaso venivano depositati i residui dell’operazione di flottazione. Da testimonianze e foto aeree, risulta che già nel 1967 la diga dell’invaso inferiore aveva un’altezza di oltre 11 m, e che nel 1983 aveva un’altezza di circa 23 m.

 

La costruzione dei due invasi – L’invaso superiore

 

L’invaso superiore fu costruito a partire dal 1970, con un primo corpo arginale in parte fondato sui limi argillosi dei depositi interni del bacino inferiore. Fu erroneamente assunto che questi depositi di limi fossero sufficientemente consolidati e idonei dal punto di vista geotecnico a sostenere il rilevato. Durante l’uso del bacino (dal 1970 al 1980, e dal 1982 al 1985) fu utilizzata la stessa metodologia già usata per il recupero di volume d’invaso disponibile per il bacino inferiore, ovvero l’innalzamento del rilevato mediante l’uso dei detriti risultanti dal processo di flottazione, sempre mediante un ciclone che separava la frazione sabbiosa (utilizzata per l’allargamento del corpo diga da monte) e la frazione limosa immessa nel bacino per ottenerne la decantazione. Da foto aeree risulta che l’altezza della diga del bacino superiore era già nel 1973 oltre 12 m sul piano del coronamento della diga inferiore, nel 1978 raggiungeva oltre 22 m e quindi nel 1983 superava i 25 m sul piano del coronamento della diga inferiore.

 

Il crollo e l’onda di fango lungo la Val di Stava

 

Rilievi eseguiti il giorno successivo al disastro, testimonianze oculari ed analisi documentali hanno consentito la ricostruzione della dinamica del mudflow lungo la Val di Stava. Le dighe in terra degli invasi di Pozzole cedettero alle ore 12:22 del 19 luglio 1985, con un forte rombo. Una grande massa di fango si riversò dal bacino superiore a quello inferiore, causandone il crollo, con aumento della massa in movimento, e quindi si riversò lungo il sottostante pendio, allargandosi in un’onda della larghezza di circa 250 m a monte dell’abitato di Stava. L‘onda di fango e detriti, preceduta da una forte onda d’urto, strappò centinaia di alti larici ed abeti, tagliandoli alle radici. Dopo aver distrutto alcune case sul pendio sottostante gli invasi, l’onda di fango colpì l’abitato di Stava, composto di circa 20 abitazioni, distruggendolo completamente.

Alla confluenza con la valle del torrente Stava, l’onda fu costretta a girare a destra, e si determinò un considerevole incremento di altezza (circa 19 m) dalla parte opposta nella stretta valle. Nella piana sottostante l’abitato di Stava l’onda rallentò, allargandosi e depositando fango in spessori fino a 3 m. Lungo il tratto successivo, di circa 1,6 km fino alle prime case dell’abitato di Tesero, la massa fluida si mosse con continuità, incanalandosi in sezioni più strette. La larghezza dell’onda si ridusse da 90 m a circa 50 m immediatamente a monte dell’abitato, per la presenza di capannoni industriali che collassarono.

L’onda, quindi, distrusse l’intera fila degli edifici presenti sulla sponda destra dell’alveo del torrente Stava in Tesero, raggiungendo i due ponti presenti appena a monte del centro dell’abitato, alti rispettivamente 16 m e 19 m. Costretto dai ponti, il flusso di fango rallentò significativamente, aumentando la propria altezza anche per la ridotta larghezza dell’alveo del torrente. Una parte dell’onda fluì sopra il ponte più antico di minore altezza, distruggendo la strada. In questo tratto, per la curvatura dell’alveo a sinistra l’onda raggiunse un’altezza di 18 m, mentre a destra di circa 10 m. Incanalata nella profonda incisione fluviale a valle dei due ponti, l’onda infine raggiunse la confluenza tra il torrente Stava ed il fiume Avisio, dove progressivamente si arrestò.

La larghezza della valle consentì il deposito di una massa di fango stimata in circa 100.000 metri cubi. La massa depositata nell’alveo dell’Avisio determinò un lago artificiale della lunghezza di circa 500 m.

La perdita di vite umane ed i danni lungo il percorso dell’onda di fango furono enormi: 268 morti, 56 abitazioni e 6 edifici industriali distrutti, 8 ponti demoliti, e 9 edifici severamente danneggiati.

 

Le cause del disastro

 

Le cause tecniche del disastro di Stava sono così elencabili:

- sottovalutazione delle condizioni idrauliche ed idrologiche del sito, in cui erano presenti numerose risorgive con condizioni di impaludamento, sia nella zona di fondazione dei due bacini che sul pendio sovrastante;

 - l’errata assunzione che i depositi limosi nel bacino inferiore si sarebbero consolidati rapidamente, dopo la decantazione, e che quindi fossero adeguati per la fondazione della diga superiore;

- l’adozione del metodo di innalzamento “da monte” (upstream method) che ha portato la diga superiore ad essere in parte fondata, oltre che su depositi decantati nell’invaso inferiore, su limi decantati all’interno del proprio bacino;

 - l’assenza di adeguati controlli durante l’innalzamento, per quanto riguarda cedimenti, drenaggi, portate di filtrazione, torbidità delle perdite;

- La composizione non omogenea del corpo diga, che risultò costituita da sabbie di dimensione omogenea derivanti dalle operazioni di frantumazione connesse con l’attività estrattiva alternate a limi e materiali sabbiosi-ghiaiosi provenienti dal pendio; il corpo diga aveva inoltre pendenza a valle relativamente elevata per la propria costituzione prevalentemente sabbiosa, pari a 38°-39°;

- l’inefficienza dei drenaggi, che furono trovati intasati dai limi decantati e quindi non più funzionanti;

- la sottovalutazione di evidenze manifestatesi nei mesi precedenti al disastro, quali perdite di acqua e sabbia al piede della diga superiore (in corrispondenza del punto in cui successivamente si sarebbe manifestata la rottura), con un flusso di materiale ed il cedimento di una piccola porzione del paramento di valle, e l’apertura di una cavità in corrispondenza di un tubo di drenaggio;

- L’assenza di strumentazione per il monitoraggio continuo delle condizioni di sicurezza dell’opera. Sebbene non sia stato possibile identificare un evento scatenante, le precedenti cause tecniche concorrono ad individuare i fattori responsabili dell’evento.

 

L’alluvione in Valtellina del 18-19 luglio 1987

 

Intorno alla metà del mese di luglio 1987 la Lombardia venne colpita da intense precipitazioni che interessarono in particolare le province di Sondrio e Bergamo, ovvero la Valtellina e la Val Brembana. In particolare, nei giorni dal 17 al 19 luglio del 1987 la Valtellina fu investita da un violentissimo nubifragio, legato a particolari condizioni termiche e di circolazione atmosferica, che in un paio di giorni riversò nei punti più colpiti della valle oltre 600 mm d’acqua, ovvero quasi un terzo della precipitazione media annuale. In particolare, in data 18 luglio furono raggiunti i 305 millimetri nelle 24 ore alla stazione idrologica del Lago di Scais (Piateda, SO). L’evento determinò una grave alluvione nella media e bassa Valtellina, in particolare interessando con estese inondazioni la piana di Ardenno, a monte dell’omonima traversa fluviale, a causa anche di una rotta arginale.

A seguito di tale evento meteorologico si verificarono numerosi e diffusi fenomeni di dissesto geo idrologico, con frane e inondazioni che causarono vittime tra la popolazione e danneggiarono gravemente, quando non distrussero, strade, ferrovie, ponti e abitazioni. Il giorno 18 a Tartano (SO), piccola località situata in una delle valli laterali della Valtellina, una colata di fango investì il condominio “La Quiete”, spaccandolo letteralmente a metà, e l’albergo “Gran Baita” dove alloggiavano numerosi turisti.

Qui persero la vita 19 persone, complessivamente le vittime furono 28, compresi due dispersi. Inoltre, vi furono almeno 20 feriti e ben oltre 1500 tra sfollati e senzatetto.

 

La frana di Val Pola del 28 luglio 1987

 

Nei giorni successivi, sul monte Zandila, situato nella Val Pola, altra valle laterale della Valtellina, venne individuata una enorme frattura in progressiva estensione a causa della quale fu decisa l’evacuazione dei centri abitati della zona. La mattina del 28 luglio 1987 dal versante si staccarono 40 milioni di metri cubi di roccia (diorile e granodiorite) che crollando nella valle sottostante interruppero per 2,5 Km i collegamenti viari ed il corso del fiume Adda.

Sotto la frana morirono una squadra di operai impegnati in lavori di ripristino della SS 38 e alcuni abitanti della frazione Aquilone (Valdisotto, SO), non evacuata perché ritenuta fuori pericolo: nessuno aveva infatti previsto lo spostamento d’aria e la forza della frana, risalita per alcune centinaia di metri sulla sponda opposta della montagna. Le persone che persero la vita in questa seconda tragedia furono 29. I detriti della frana crearono uno sbarramento che interruppe il corso dell’Adda e le acque iniziarono ad accumularsi in un lago, destando grave allarme. La situazione era estremamente grave, così si decise di intervenire per limitare la crescita delle acque mediante pompaggi e deviazione negli impianti idroelettrici e di intervenire sul corpo della frana per creare un nuovo alveo per il fiume e di procedere alla tracimazione controllata delle acque.

Ai tecnici della «Commissione Valtellina», istituita con ordinanza del Ministero della Protezione Civile, spettava immediatamente il compito, oltre a quello di evitare ulteriori danni a persone e cose, dì affrontare e risolvere tre temi:

a) la condizione di stabilità della nicchia di frana la cui conoscenza era indispensabile per l'accessibilità sull'accumulo di frana e sullo specchio di acqua che andava creandosi a monte, ai fini di una rapida esecuzione degli interventi necessari per affrontare l'emergenza;

b) le condizioni dì stabilità dell'accumulo di frana che per le sue dimensioni (2300 m di lunghezza e mediamente 70 m di altezza e 200 di larghezza) potevano apparentemente non destare troppe preoccupazioni, anche a fronte delle spinte idrostatiche che si andavano incrementando. La stabilità dell'accumulo era ovviamente legata alla natura granulometrica ed alla permeabilità del materiale detritico e in definitiva alla sua tenuta in condizioni di saturazione ed alla erodibilità in caso di tracimazione;

c) l'eliminazione dell'acqua che stava formando un lago a monte dell'accumulo di frana e che in poco tempo avrebbe potuto creare un invaso da 18 milioni di metri cubi.

 

Ai tecnici della «Commissione Valtellina», istituita con ordinanza del Ministero della Protezione Civile, spettava immediatamente il compito, oltre a quello di evitare ulteriori danni a persone e cose, dì affrontare e risolvere tre temi:

a) la condizione di stabilità della nicchia di frana la cui conoscenza era indispensabile per l'accessibilità sull'accumulo di frana e sullo specchio di acqua che andava creandosi a monte, ai fini di una rapida esecuzione degli interventi necessari per affrontare l'emergenza;

b) le condizioni dì stabilità dell'accumulo di frana che per le sue dimensioni (2300 m di lunghezza e mediamente 70 m di altezza e 200 di larghezza) potevano apparentemente non destare troppe preoccupazioni, anche a fronte delle spinte idrostatiche che si andavano incrementando. La stabilità dell'accumulo era ovviamente legata alla natura granulometrica ed alla permeabilità del materiale detritico e in definitiva alla sua tenuta in condizioni di saturazione ed alla erodibilità in caso di tracimazione;

c) l'eliminazione dell'acqua che stava formando un lago a monte dell'accumulo di frana e che in poco tempo avrebbe potuto creare un invaso da 18 milioni di metri cubi.

Il primo tema fu affrontato creando una rete di monitoraggio, basata su misure topografiche, deformometriche, microsismiche ed ottiche, concepita e realizzata entro il 20 agosto 1987 (ISMES), unitamente ad un piano di allarme ed evacuazione, consentì di risolvere il problema dell’accesso al fondovalle.

Il secondo tema venne affrontato simulando su un modello a fondo mobile in scala 1:250, realizzato dal Cris, Centro di ricerca idraulica sperimentale, di Enel nel tempo record di 10 giorni, la tracimazione del lago sull'accumulo frana in condizioni di granulometria e di portate variabili.

Il terzo tema fu risolto affidando, a breve termine, lo svuotamento dell'acqua, in caso di deboli precipitazioni durante il mese di agosto, a tre distinti impianti di pompaggio per una portata complessiva di 13.5 metri cubi/secondo (realizzati ciascuno dalle tre società Condotte d’Acqua, Aem, Snamprogetti), oppure, in caso di forti precipitazioni, ad una operazione di «tracimazione controllata» che doveva anche servire da verifica per la tenuta dell'accumulo di frana. Alla fine di agosto 1987 i tre impianti erano operativi e consentivano il controllo del livello del lago in condizioni di portate ordinarie o di portate di morbida di ridotta entità. Alla fine di agosto, al fine di consentire il rientro delle popolazioni di valle sfollate nelle loro proprie abitazioni, fu realizzata, sotto attento monitoraggio un’operazione di «tracimazione controllata», il cui successo, senza fenomeni erosivi o di instabilità gravi a carico dell’ammasso franato, consentì la riduzione del livello di allarme.

A lungo termine lo svuotamento del lago è stato risolto con la costruzione di due gallerie idrauliche di by-pass in sponda sinistra idraulica, che funzionando da scarichi di fondo del lago, garantiscono lo smaltimento di piene del fiume Adda per portate fino a 400 mc/sec circa.

La realizzazione delle due gallerie di by-pass con annesse opere di presa e restituzione, avvenuta in tempi record tra il novembre 1987 e l'aprile 1988 (a cura del Raggruppamento di Imprese Italstrade, Torri, Magri e Poscio), ha garantito, per gli abitanti a valle della frana, la completa risoluzione del problema acqua, nell'ambito dell'emergenza Val Pola, prima delle piogge e del disgelo di primavera 1988 e per tutti gli anni successivi. Alla fine, i morti complessivi furono 53, ed i danni superarono i 4 mila miliardi di lire.

 

Legge 18 maggio 1989, n.183 «Norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo»

 

La Legge al Titolo I definisce nell’ambito della difesa del suolo quali sono le attività, i soggetti ed i servizi oggetto della legge stessa. All’art.1 commi 1 e 2 del Capo 1 vengono definite le finalità della legge e le relative modalità di persecuzione:

1. La presente legge ha per scopo di assicurare la difesa del suolo, il risanamento delle acque, a fruizione e la gestione del patrimonio idrico per gli usi di razionale sviluppo economico e sociale, la tutela degli aspetti ambientali ad essi connessi.

2. Per il conseguimento delle finalità perseguite dalla presente legge, la pubblica amministrazione svolge ogni opportuna azione di carattere conoscitivo, di programmazione e pianificazione degli interventi, di loro esecuzione, in conformità alle disposizioni che seguono.

Al comma 2 vengono date le definizioni fondamentali, mentre al comma 4 sono identificati i soggetti concorrenti all’attuazione delle finalità.

Alla realizzazione delle attività previste al comma 1 concorrono, secondo le rispettive competenze: lo Stato, le regioni a statuto speciale ed ordinario, le province autonome di Trento e di Bolzano, le province, i comuni, le comunità montane, i consorzi di bonifica ed irrigazione e quelli di bacino imbrifero montano. Di particolare forza appare il dettato del comma 5, le disposizioni della presente legge costituiscono norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica nonché principi fondamentali ai sensi dell'articolo 117 della Costituzione.

La legge, quindi, passa ad esaminare al Capo II le funzioni ed i compiti dei soggetti centrali, fra cui all’art. 4 il presidente del Consiglio dei ministri ed il Comitato dei ministri per i servizi tecnici nazionali e gli interventi nel settore della difesa del suolo. Particolarmente innovativa e diretta a sanare la carenza in materia di vigilanza operativa sul territorio ed in particolare sulle dighe appare la costituzione dei Servizi tecnici nazionali, vigilato da uno speciale Comitato dei Ministri.

All’art. 6 vengono trattati l’istituzione ed i compiti del nuovo Comitato nazionale per la difesa del suolo, all’art. 7 sono trattati i compiti della Direzione generale della difesa del suolo del Ministero LLPP, che poi passerà al Ministero dell’Ambiente, mentre all’art. 8 sono trattate le modalità della collaborazione interministeriale.

All’art. 9 vengono istituiti i Servizi tecnici nazionali la cui organizzazione sarà poi precisata dal DPR 85/1991 e potenziata dal DPR 106/1993, in particolare per il Servizio nazionale dighe.

Al Capo III la legge esamina le funzioni ed i compiti delle regioni, degli enti locali e delle autorità di bacino di rilievo nazionale. All’art. 3 esaminando le Regioni, si rinvengono al comma 3 e successivi i compiti del Servizio nazionale dighe. All’art. 11 sono attribuiti compiti agli Enti locali e ad altri soggetti.

Fra le innovazioni più importanti all’art. 12 vengono istituite le Autorità di bacino di rilievo nazionale ed i relativi organi.

Il TITOLO II definisce gli ambiti, gli strumenti, gli interventi, le risorse, al Capo I sono definiti gli ambiti, ed in particolare all’art. 13 sono classificati i bacini idrografici e la loro delimitazione. I successivi artt. 14, 15 e 16 elencano e definiscono rispettivamente i bacini di rilievo nazionale, interregionale e regionale. All’Art. 17 valore, finalità e contenuti del piano di bacino del Capo II.

Ai successivi art. 18, 19 e 20 sono definiti rispettivamente i contenuti e gli iter dei progetti di piano di bacino di rilevo nazionale, interregionale e regionale.

Al Capo III sono trattati gli aspetti relativi agli interventi e alle loro modalità di attuazione, il Capo IV tratta infine delle risorse, L’art. 24 tratta in specifico delle risorse di personale, stabilendo la rideterminazione delle dotazioni organiche del Min. LL.PP.

Il Titolo III dall’art. 24 all’art. 35 tratta delle disposizioni transitorie e finali.

 

Conclusioni

 

Nell’intervento sono stati illustrati:

Il disastro della Val di Stava del 19 luglio 1985, in provincia di Trento, le vicende dell’emergenza Valtellina, ovvero sia dell’alluvione Valtellina del 18 e 19 luglio 1987 che della frana di Val Pola del 28 luglio 1987.

Evidenziando la grande risonanza presso l’opinione pubblica di tali tragici eventi, e come ciò abbia determinato impulso all’emanazione della Legge 18 maggio 1989, n.183 «Norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo», di cui sono stati successivamente esposti in sintesi i contenuti, ed in particolare gli elementi innovativi.

Su tale legge, pur modificata nei decenni successivi, è riconducibile l’attuale assetto nazionale della difesa del suolo del nostro paese.

 

 

 



[1] Ing. Provveditore alle Opere Pubbliche Piemonte Liguria