Rivista tecnico-scientifica ambientale dell'Arma dei Carabinieri                                                            ISSN 2532-7828

FORMAZIONE
LA NAVIGAZIONE FLUVIALE, DA NECESSITÀ AD OPPORTUNITÀ
01/07/2014
Valerio Ricciardi 
Fotografo e giornalista scientifico specializzato in beni culturali archeologici e ambientali

La navigazione fluviale si configurò alle origini come unica via pratica per la movimentazione dei prodotti oggetto dei primi commerci.

Riassunto

La navigazione fluviale si configurò alle origini come unica via pratica per la movimentazione dei prodotti oggetto dei primi commerci. Grandi agglomerati urbani come l’antica Roma o la Londra della Rivoluzione industriale non avrebbero potuto prosperare senza gli approvvigionamenti veicolati attraverso i grandi fiumi che ne favorirono l’insediamento. Nell’Italia settentrionale, già prima del Rinascimento si sfruttarono intensamente per i trasporti di persone e merci vie d’acqua realizzate integrando con canali appositamente scavati la complessa rete fluviale preesistente, e sviluppando tipologie di imbarcazioni particolarmente adatte allo scopo. Nel secondo dopoguerra politiche orientate a favorire il trasporto su gomma e la ricostruita rete ferroviaria determinarono una crisi del trasporto fluviale che finalmente vede in atto una significativa controtendenza. Nel centro e nord Europa invece la tradizione del trasporto fluviale è stata sempre valorizzata senza ripensamenti, con importanti vantaggi socioeconomici oltre che ambientali che avrebbero ampi margini di sviluppo anche nel nostro Paese.

Abstract

The IWT from necessity to opportunity

The inland waterways transport was shaped at the origin as the only practical way of handling the products involved in the first trade. Large urban areas such as ancient Rome or London (e. g. during the Industrial Revolution) would not have been able to thrive without supplies conveyed through the great rivers that allowed the settlement. In northern Italy, even before the Renaissance has been  intensively exploited the making of waterways for the transport of persons and goods, integrating with channels specially dug the complex river network existing, and developing types of boats particularly suitable for this purpose. After World War II policies aimed at favoring road transport and the reborn railway network led to a crisis of inland waterway transport in the act that finally sees a significant contrast. In central and northern Europe, however, the tradition of river transport has always been enhanced with no reversal of the trend, with important socio-economic as well as environmental benefits, that would have plenty of room for development in our country.

 
 

Le acque interne come vie di comunicazione e trasporto: i primordi

Foto 1) Una piroga monossile sul Niger a Gao, Mali di una tipologia rimasta praticamente immutata dalle sue origini (foto Jon Ward, Creative Commons)

Nei vecchi sussidiari delle elementari di un tempo, era immancabile l’immagine di un uomo preistorico, rigorosamente barbuto e coperto sommariamente di pellicce, mentre pagaiava in un fiume o un lago a cavalcioni di un tronco utilizzando come remo un pezzo di spessa corteccia.
Questa immagine oleografica non è peraltro probabilmente troppo distante dal vero, se si considera che assistere al galleggiamento di un corpo inanimato, come un tronco di un albero rivierasco seccatosi e poi caduto in acqua per gravità una volta decomposte le radici, non era un evento improbabile. La costruzione non occasionale di natanti ricavati da tronchi d’albero fu certo precoce: si data attorno al 6.000 a.C la piroga monossile (costituita cioè di un sol pezzo) in quercia, lunga ben 10,5 m rinvenuta negli anni ‘90 sui fondali del lago di Bracciano ed ora esposta al Museo Pigorini all’EUR. Un mezzo di simili dimensioni doveva necessariamente essere condotto da più di una persona, e richiedeva la costruzione di remi studiati in modo sufficientemente ergonomico.
Quando l’uomo abbia scientemente e sistematicamente guardato ai corsi d’acqua come via di comunicazione e trasporto terrestre organizzato, non è dato sapere; ciò potrebbe aver coinciso con l’agglomerarsi delle prime città, molto spesso formatesi sulle rive di fiumi più o meno grandi.
La presenza di comunità stanziali con una popolazione che superava di molto quella un normale villaggio rappresentava un’opportunità di difesa comune verso pericoli esterni, sia provenienti da altre comunità che naturali (grandi predatori, un tempo assai diffusi), ma era possibile solo con una diversificazione delle attività dei suoi membri. A seconda del sesso, prestanza fisica (legata all’età) e formazione ricevuta, i membri delle popolazioni cittadine potevano via via divenire artigiani, o coltivatori dei terreni circostanti l’abitato, o cacciatori. Il commercio dei manufatti, inizialmente barattando merci ben prima dell’introduzione della moneta, si può presumere sia stata un’evoluzione relativamente rapida. Gli scambi, per avere un’efficacia adeguata a garantire la sopravvivenza di coloro che vi si dedicavano, dovevano presto essere estesi a comunità diverse da quelle di appartenenza, con le relative esigenze di trasporto.
La fluitazione di ciò che oggi chiamiamo “merci” su zattere o natanti più complessi rappresentava non tanto una soluzione razionale ed economica, come possiamo considerarla oggi, ma nella maggior parte dei casi l’unica scelta pratica. La terraferma non presentava, come introdotto diffusamente solo dalla civiltà romana, una rete infrastrutturale di strade; le piste evolutesi spontaneamente dai sentieri erano inadatte al trasporto di carichi superiori a quelli affidabili a una carovana di camelidi o equidi addomesticati. Il carro trainato da buoi sarebbe stato solo una conquista successiva, e comunque l’utilizzo della ruota presupponeva un fondo abbastanza liscio e compatto da non rendere troppo faticoso il traino.
Nessuna teoria era stata ancora elaborata per spiegare il galleggiamento, ma la semplice zattera si sviluppo’ secondo due linee evolutive: una mirava a realizzare una struttura cava all’interno ed impermeabile  per estensione di quanto avvenuto già con le piroghe scavate in tronchi non troppo duri  abbassando di fatto la densità media del natante ed aumentando in parallelo il carico utile, l’altra dava forma per quanto possibile idrodinamica a un insieme di fascine di canne palustri, internamente cave ma dalla spinta di galleggiamento individuale trascurabile. Questa soluzione era adatta solo per piccoli carichi ed imbarcazioni di modeste dimensioni e facilmente ammalorabili, che avevano quantomeno mutuato dalle zattere il vantaggio di non rischiare l’affondamento imbarcando acqua. L’evidente affinità morfologica fra le imbarcazioni attuali del lago Titicaca e le barche di steli di papiro del Nilo (sin da epoche predinastiche, dell’ordine del 5.000 - 3.000 a.C) pone tuttora domande in parte irrisolte agli studiosi.

 
 
Foto 2) Un celebre disegno di Mariano di Jacopo, detto Il Taccola (1382- ca. 1453) inventore dell’argano a pale che utilizza una leva di primo genere per far risalire il fiume a una barca sfruttando la forza stessa della corrente

All’inizio, la tipologia dei primi grandi natanti o navi non era differenziata in funzione dell’uso, e non si distingueva fra battelli per passeggeri, merci o destinati alla guerra; sino a circa la fine dell’VIII secolo a.C le tecniche costruttive variavano solo in funzione dell’areale di provenienza. I natanti destinati alla navigazione marina erano gli stessi che venivano poi trainati a risalire i grandi fiumi come il Nilo o l’Eufrate, con chiari limiti per ragioni di pescaggio. E’ attribuito circa al 2.650 a.C (IV dinastia) un documento che parla di una spedizione di ben quaranta navi inviata in Libano per trattare l’acquisto di partite di legno di cedro, adattissimo per costruzioni nautiche.  Le navi egizie, ad esempio, venivano realizzate con tecniche di cucitura fra loro di tavole piatte flessibili, che avevano delle lunghe mortase (incastri longitudinali) realizzate nel verso della lunghezza sullo spessore dei punti di contatto di due tavole adiacenti (superfici dette oggi comenti); nelle mortase delle due tavole adicenti si inserivano a pressione delle tavolette più piccole, i tenoni, ed il tutto veniva poi “cucito” con sottili corde di fibra vegetale passanti per coppie di fori adiacenti. I fori poi venivano calafatati, ossia resi impermeabili con bitume o pece greca. Questo modo di costruire è assai diverso da quello oggi comune per le imbarcazioni a fasciame: nel caso egizio le fiancate, realizzate a partire dalla chiglia, erano autoportanti già durante la costruzione, e non richiedevano di impostare prima elementi strutturali quali costolature e bagli che oggi sono, con la chiglia, il punto di partenza della realizzazione. Mentre presso gli egizi costituivano eventuali irrigidimenti in corso d’opera e sostegni per il ponte e le strutture interne. In seguito (come dimostra il relitto turco di Ulu Burun, attribuito al tardo XIV sec. a.C.) alla cucitura sarebbe stata sostituita la più durevole applicazione di perni in legno in fori passanti per due punti che attraversavano due tavole adiacenti e il tenone interposto. La chiodatura a perni aveva anche il vantaggio di mantenere più liscia la superficie esterna, con vantaggi idrodinamici.
La natazione di diversi tipi di imbarcazioni col loro carico aveva però, al di fuori dell’ambiente lacustre, un limite: la corrente dei fiumi è ovviamente unidirezionale, salvo che nelle immediate prossimità di grandi estuari nelle quali la marea crescente può azzerare o addirittura invertire la direzione di scorrimento degli strati più superficiali dell’acqua per qualche chilometro; ciò rendeva di fatto impossibile un trasporto regolare da e per un punto in assenza di mezzi di propulsione. Non ci si deve perciò meravigliare se le più antiche evidenze di trasporti fluviali degni di nota sono ascrivibili a contesti antropici limitrofi a fiumi di grande portata e nel contempo modesta pendenza e velocità di corrente, dove una vela associata a forme appena idrodinamiche poteva essere sufficiente a risalire la corrente  sia pure molto lentamente, con minima efficenza e cercando di bordeggiare. Dunque sempre a non grande distanza dal mare, fatte salve situazioni del tutto peculiari come il Rio delle Amazzoni nel quale la portata è talmente immensa (e la velocità della corrrente proporzionalmente bassa) che ancora oggi navi oceaniche possono arrivare sino a Manaus, a 1350 km dalla foce, e dal XIX secolo era navigabile sino in Perù.
Per meglio risalire la corrente, si cercò nel tempo di rendere le rive dei fiumi interessati abbastanza praticabili da permettere non solo lo sbarco e l’imbarco di persone e merci nei punti predisposti, ma anche il passaggio di animali, storicamente di norma buoi, utilizzati per il traino controcorrente tramite lunghe funi (alaggio). Questa tecnica, poco efficiente come velocità, era però vantaggiosa sul piano energetico, stante che l’attrito viscoso da superare per spostare un carico su un natante è inferiore all’attrito volvente dello stesso carico movimentato su carri, specie in tempi ben lontani dall’invenzione del cuscinetto a sfere o dei binari in acciaio. Le esigenze oggettive della navigazione fluviale divennero perciò un elemento fondante di criteri di colonizzazione strutturale e manutenzione del territorio anche al di fuori delle mura delle prime città.

 
 

L’approvvigionamento fluviale delle merci e derrate alimentari nella Roma antica

La ben nota, perfetta organizzazione degli approvvigionamenti di derrate alimentari nella Roma antica (in particolare l’annona, dalla dèa omonima cui venivano consacrati i magazzini destinati a raccogliere il frumento) fu un caso emblematico. La prima colonia romana fu Ostia (da ostium, foce), fondata già secondo la leggenda sotto il regno di Anco Marzio nel VII secolo a.C. per costituire lo sbocco portuale naturale della città. In realtà l’insediamento divenne certamente un castrum fortificato solo a partire, pare, dalla fine del V sec. a.C. per costituire la base della flotta romana; solo in seguito cominciò ad espandersi proprio per il suo ruolo di porto commerciale e di approvvigionamento di Roma.
L’organizzazione che si occupava di rifornire l’Urbe sopratutto di frumento divenne monumentale e capillare. Il mezzo preferenziale era già a quel tempo il Tevere, ben navigabile sino alle banchine e ai magazzini in diversi punti della città. I carichi, giunti dapprima nel porto di Claudio, poi quando quest’ultimo accentuò i suoi cronici problemi di tendenza all’interramento  nel sito di Portus, incentrato sul bacino traianeo di forma esagonale (tuttora ben individuabile, essendo occupato dall’acqua di falda, arrivando in aereo a Fiumicino), dovevano essere trasbordati su mezzi adatti ad essere trainati controcorrente sino alla città.
Perciò, con eccezioni specifiche, dai vari tipi di navi Onerariae (equivalenti alle greche Olkàdes  e in generale accomunate ad esse dalla forma panciuta dello scafo, per aumentare la capienza interna, la spinta di galleggiamento e conseguentemente la portata), i carichi andavano necessariamente trasbordati anche per ragioni di pescaggio. Ad Ostia giungevano naves frumentariae cariche di grano sopratutto di provenienza egizia o le naves lapidariae (che avevano il loro corrispondente nelle lithegòi greche), molto robuste, costruite per il trasporto di marmi pregiati semilavorati e graniti egizi come quelli della zona denominata Umm Dikal (“madre delle colonne”). Dai mosaici di Piazza Armerina riceviamo anche una rara rappresentazione di una delle naves bestiariae o “cercuri” (latinizzazione dal greco Kérkuroi) utilizzate per il trasporto degli animali esotici destinati in definitiva più spesso che ai giochi al supplizio nei combattimenti organizzati nei circhi, come l’anfiteatro Flavio di Roma. Tutte queste imbarcazioni, per garantire un minimo di stabilità in mare, dovevano avere un adeguato pescaggio, ottenuto spesso anche con zavorrature, chiaramente poco compatibili con i basso fondali dei fiumi.

Se specializzate erano le navi che arrivavano ad Ostia via mare, alquanto più standardizzate e di dimensioni mediamente minori erano quindi le naves caudicariae, accomunate dal modesto pescaggio e dal fondo circa piatto, che ne facilitava la risalita sul Tevere anche in presenza di barre sabbiose, secche e fasi di magra. Appartengono a questa tipologia tre delle navi conservate (ma da anni non esposte al pubblico) nel Museo delle Navi Romane di Fiumicino, adiacente all’area aeroportuale. Una loro bella immagine si trova proprio ad Ostia antica: il trasbordo di un’anfora da parte di un probabile schiavo da un’oneraria ad una caudicaria ormeggiata lì presso è rappresentato nella  Statio 25 del Piazzale delle Corporazioni ostiense (Regio II, Insula VII, 4).
Le aree di trasbordo erano adiacenti al bacino di Portus in diramazioni dei canali di raccordo al Tevere, e a Roma sino a tutto il III sec. a.C. fu sufficiente la movimentazione gestibile dal porto fluviale all’altezza del Foro Boario. Poi l’impossibilità di ampliarlo per la  vicinanza dei Colli spinse i censori Paolo e Lepido ad impostare dal 193 a.C. l’Emporium,  grande punto di approdo con banchine, rampe, punti di attracco predeterminati ed una complessa teoria di horrea o magazzini di stoccaggio per le derrate. La collinetta denominata in modo un po’ altisonante Monte Testaccio, costituito da si valuta  forse 25 milioni di anfore rotte dopo aver contenuto olio, vino, garum o granaglie costituisce la prova tangibile dell’introduzione di criteri di “vuoto a perdere” già in tempi tanto remoti.
Nei secoli seguenti, dopo il declino dell’Impero e l’abbandono progressivo di Ostia (divenuta malarica e insicura per le scorrerie dei pirati saraceni una volta decaduto il controllo militare sul Mediterraneo), fu determinante per lo spopolamento dell’Urbe proprio il venire a mancare dei suoi approvvigionamenti fluviali; questo fatto, unitamente al declino degli acquedotti (quando non al loro taglio da parte degli occasionali assedianti), ridusse la popolazione romana a poche decine di migliaia di individui.

Foto 3) La grande piena del Tevere del 12 dicembre 2008 al Ponte dei Quattro Capi, all’Isola Tiberina, evidenzia i problemi connessi alla navigazione fluviale attraverso le concentrazioni urbane (foto dell’autore)
 

È recentissimo l’annuncio dell’attuale Sindaco della città di voler impostare un progetto di ripulitura e dragaggio dei fondali per rendere nuovamente il Tevere ben fruibile, con finalità precipuamente turistiche, entro il 2015: molto della fattibilità dipenderà dai fondi a disposizione, europei o locali. Timidi tentativi di istituire linee regolari sia pure per un tratto ancora a suo tempo navigabile, sul modello in scala ridottta dei bateau-mouche tanto cari ai turisti di Lione e Parigi, son sopravvissuti solo pochi anni per via della mancata manutenzione di fondali e rive.

 
 

Rinascita e crisi post bellica del trasporto fluviale: la pianura Padana e la piana dell’Arno

In areali geografici come la Pianura Padana e sopratutto il Veneto, in cui la navigazione fluviale era resa possibile dalla minima pendenza del suolo e dalla facilità di disporre di abbondante portata con correnti contenute, l’idea di realizzare espressamente canali navigabili utili sia per il drenaggio delle terre agricole che come vie di comunicazione risale a ben prima del Rinascimento. Un primo esempio è quello del Canale Battaglia nei pressi di Padova, scavato in direzione dei Colli Euganei e Monselice, dov’era una fortezza; le cronache datano quest’opera agli anni 1189 -1201. Nel 1314, dopo una serie di contrasti sfociati anche in episodici confronti armati con Vicenza, e costellati di ritorsioni di natura idrica (i nemici per almeno due volte, nel 1145 e nel 1188, deviarono le acque del fiume Bacchiglione nel canale Bresatto per mettere in difficoltà la città), i padovani decisero di scavare un grande via d’acqua che risolvesse il problema. Fu l’origine del Canale Brentella, forse reimpostato allargando un alveo precedente, ma già quasi di dimensioni tali da avere una naturale vocazione anche per i trasporti. La metà dell’800 fu il periodo d’oro di questo tipo di movimentazione di materiali sfusi e merci lavorate, ed il movimento di burci era impressionante per frequenza e regolarità, tanto che uno squero, cantiere destinato alla manutenzione di quel tipo di barca (gli addetti eran noti come squeraròi), aprì nel 1836 a Limena proprio dove il canale Brentella si diparte dal Brenta per sboccare nel fiume Bacchiglione  durando sino agli albori della I Guerra mondiale.
Tra il 1919 ed il 1934 si ha notizia anche di un’originale tipologia di trasporto intermodale. A Limena venne infatti realizzata una piccola linea ferrata a scartamento ridotto (Decauville) dalla stazione ferroviaria locale alla banchina sul Brentella; la ghiaia di una vicina cava vi veniva trasbordata sui burci diretti a Monselice. In generale, in tutto il basso Veneto il trasporto fluviale di merci lavorate e materie prime (che spesso risalivano la corrente quando l’alveo non era impegnato nella fluitazione di tronchi grezzi, raccolti in zattere e controllati solo da un timoniere) ebbe per secoli una rilevanza non marginale nell’economia e nel paesaggio antropico del basso Veneto. Il canale Brentella risulta ancora navigabile da Limena in poi e frequentemente percorso da barche turistiche; la riviera del Brenta nella buona stagione è regolarmente percorsa da crociere alla scoperta delle celebri ville del Palladio, con indotto economico complessivo non trascurabile. Una di queste, il Burchiello, riprende il nome di una tipologia di lussuosa imbarcazione artisticamente decorata con la quale i nobili veneziani più facoltosi nel Settecento da Venezia raggiungevano le loro ville nell’interno. Cinque chiuse permettono, oggi come allora, di superare i dieci metri circa di differenza di livello presenti fra Venezia e Padova.
Un secondo esempio da citare è anche lo storico Canale Navicelli scavato da Pisa a Livorno sulla base di un progetto del 1541. All’inaugurazione nel 1603 vantava un tracciato di 22 km, largo 18 m ma profondo solo 1,5. Ampliato e rettificato tra il 1920 ed il ‘38 -  dunque in massima parte durante il Ventennio, negli anni della Bonifica Integrale del ministro Serpieri -  assunse il tracciato definitivo attuale con una larghezza di 35 m ed una profondità massima (calcolata sul livello marino medio) di 3,5. Vi sono oggi ammessi alla navigazione, entro una velocità di 6 nodi, imbarcazioni di lunghezza non superiore ai 90 m, con il limite di 2,6 m di pescaggio e di 1.200 t di stazza. Tratti dell’originale canale del XVI secolo ancora sopravvivono a margine, anche se dismessi. È prevista la realizzazione di un collegamento del canale con la foce dell’Arno per rendere il canale fruibile anche alle imbarcazioni turistiche che lì hanno stanza.
Purtroppo in generale In Italia, nell’ultimo dopoguerra, l’immeritato declino della navigazione fluviale (sopratutto in ambiente padano) fu determinato dal combinato disposto della certo indispensabile ricostruzione della rete ferroviaria, pressoché interamente distrutta da bombardamenti alleati quando non sabotata dai tedeschi in ritirata, con l’impulso straordinario dato al trasporto su gomma. Innegabilmente esso fu condizionato anche dalle esigenze industriali del politicamente molto influente gruppo industriale FIAT, che già dal 1951 aveva definito il posizionamento di massima della 600, l’auto con cui Vittorio Valletta tentò con successo di realizzare la motorizzazione di massa. Anche per favorire la penetrazione dei grandi numeri di produzione necessari a garantire la profittabilità della nuova utilitaria, fu stimolata attivamente ogni politica volta alla massimizzazione della rete stradale e al trasferimento della massima quota possibile nella distribuzione delle merci verso il trasporto su gomma  in concorrenza anche col ben più razionale treno  scelta strategica non proprio lungimirante di cui l’Italia paga drammatiche conseguenze ambientali, di congestione, sicurezza e costi energetici ancora oggi.
I barconi in legno come il burcio o la padovana, ancora diffusi del 1950, vennero presto, a torto, percepiti come obsoleti ed ingombranti, e sparirono ingloriosamente dal paesaggio padano sostituiti dal fumoso e rumoroso parossismo del trasporto su gomma.

 

La navigazione fluviale in Centro e Nord Europa

Foto 4) Un bateaux mouche sulla Senna, presso l’Île Saint-Louis. Nati a Lione, vennero introdotti a Parigi in occasione dell’Expo del 1900 e sono uno degli esempi clou di sfruttamento turistico della navigazione fluviale (foto Jean-noël Lafargue, Free Art)
 

Dando per scontata la fama dell’epopea dei battelli a ruote sul Mississippi, o l’importanza del traffico fluviale nei Paesi Bassi, esempi emblematici per l’Europa centrale e settentrionale ci giungono da Regno Unito, Germania, Francia e Finlandia.
In Inghilterra il caso del Tamigi è interessante anche per qualche analogia geografica fra Roma e l’originario nucleo di Londinium. Questi era probabilmente sorto spontaneamente presso un’estremità di un ponte di barche militare romano databile attorno al 50 d.C, ma che sarebbe stato distrutto solo una decina di anni dopo. Ricostruito dopo la realizzazione delle fortificazioni attorno al nuovo castrum londinese, dopo alterne vicende si arrivò solo dopo molti secoli all’edificazione del primo ponte in mattoni e pietra, il London Bridge, completato pare nel 1209. Essendo questo sino al 1729 unico punto di attraversamento a valle di Kingston, ebbe naturalmente spazio una fiorente attività di piccole barche di legno che collegavano sopratutto le due rive del fiume trasportando paesseggeri e merci, tanto diffusa da essere regolata dal Cinquecento addirittura da licenze di esercizio in esclusiva per il trasporto di persone attraverso e lungo il Tamigi. Il Parlamento deliberò nel 1555 persino la costituzione di una società pubblica per gestire il traffico.
Negli anni della Rivoluzione industriale, l’introduzione dell’efficiente propulsione a vapore rese il traffico di persone e merci sul fiume tanto centrale nell’economia londinese e congestionato da renderne difficilissima la gestione, costellata anche da frequenti incidenti; il più drammatico nel 1878, quando la nave carboniera Bywell Castle speronò nel Tamigi, affondandolo, il battello a vapore (steam ship) SS Princess Alice, causando oltre 650 morti. L’incidente ebbe enorme clamore mediatico ed influì sostanzialmente sulla redazione dei successivi più rigorosi regolamenti di navigazione fluviale. Durante la seconda Guerra Mondiale servizi temporanei supplementari sul Tamigi vennero attivati anche per sopperire alle voragini e ai danni sui percorsi di tram e double-decker bus dovuti ai bombardamenti tedeschi.

Foto 5) La PS (paddle ship) Skibladner, sul lago Miǿsa, in Norvegia: varata nel 1856 è forse il più antico battello a ruote ancora in esercizio (foto Mahlum, Wikimedia commons)
 

In Finlandia, già nel 1968 in tutta la bella stagione (l’inverno la superficie dei laghi di norma è ghiacciata) erano fiorenti da anni attività crocieristiche su piccoli battelli, a volte simili  in scala ridotta a quelli del Mississippi, nel distretto lacustre in una tortuosa rotta attraverso laghi, quasi sempre intercomunicanti e costellati di isolette lussureggianti di conifere fra Tampere e Turku. L’indotto economico per i ristoranti, le saune ed i negozi di artigianato presenti nei vari punti sdi sosta sarebbe inimmaginabile in un contesto simile, se si fosse proposto ai turisti di muoversi con le convenzionali vie di terra.

 

Conclusioni; opportunità e prospettive in Italia

Lungi dall’estinguersi, il trasporto fluviale in Italia, nonostante la relativa esiguità della rete attuale, risulta in controtendenza secondo un censimento periodico curato dal Comune di Mantova: se il mondo dei burci è ormai storia ed i Navigli a Milano son stati ingloriosamente interrati, non di meno fra Veneto, Emilia Romagna e Lombardia la massa complessiva di merci movimentate per via fluviale sui circa 300 km fra canali e fiumi oggi navigabili sarebbe cresciuta dai 100 milioni di t del 2005 addirittura ai 350 milioni di t del 2008. Un vistoso segno di rinascita favorito anche dall’impennarsi del prezzo del gasolio e delle accise ad esso applicate. Una chiatta di 1350 t di stazza è infatti in grado, pur con una velocità commerciale inferiore, di movimentare l’equivalente del carico di 67 carri merci standard o di una cinquantina di Tir. Ma per via fluviale il combustibile richiesto è dell’ordine di 1 litro/t/100 km, circa un quinto di quanto necessario per il trasporto su gomma.
In base a un calcolo energetico corretto, la stessa chiatta da 1350 t che abbiamo preso a riferimento contribuirebbe dunque per ogni giornata di esercizio a ridurre le emissioni in atmosfera - a parità di merci trasportate - in ragione di 8000 kg di CO2, 10,8 kg di HC (idrocarburi incombusti) ed 1,8 kg di frazione PM10. Nel 2010, in un convegno dell’UNII (Unione Navigazione Interna Italiana) il Presidente Mario Borgatti ebbe a dichiarare come solo l’essere progressivamente riusciti a deviare virtuosamente verso il traffico fluviale diretto ai porti interni la movimentazione di 150.000 t di soia, avesse secondo calcoli abbastanza realistici già evitato nelle zone interessate il transito di circa 70.000 TIR in quattro anni.
La navigazione fluviale come accennato è straordinariamente poco rumorosa rispetto al trasporto su gomma, ormai sempre autopropulsa, con bassa velocità commerciale di solito mai superiore ai 6-8 nodi per ragioni di sicurezza considerate le spesso impegnative masse in gioco. Perciò queste caratteristiche favoriscono la possibilità di individuare facilmente aree di rispetto ai margini che possono costituire - nonostante l’evidente origine antropica - dei luoghi di nidificazione per uccelli palustri, oltre che specchi d’acqua più ricchi di biodiversità di quanto la loro natura “artificiale” potrebbe far supporre; ciò vale in particolare per artropodi, anfibi e specie ittiche minori. La modesta entità delle luci di via e di segnalazione prescritte contribuisce anche a contenere l’inquinamento luminoso notturno.
Le dimensioni necessariamente non trascurabili delle chiatte per trasporto merci, quando - ed è frequente - siano superiormente chiuse con portelli per proteggere il carico dagli agenti atmosferici il carico, permetterebbero l’installazione su di essi di ampi superfici di pannelli fotovoltaici ad alta efficienza che potrebbero contribuire in quota parte alla propulsione (il peso degli accumulatori non sarebbe penalizzante potendo anche sostituire l’eventuale zavorra di fondo), ed anche ridurre il consumo di gasolio generato indirettamente per tramite degli alternatori dagli apparati secondari di illuminazione notturna, ormeggio, servoassistenza al timone e ogni altro meccanismo accessorio, con ulteriore risparmio in termini di CO2 emessa.

Foto 6) Una moderna chiatta per trasporto di idrocarburi sul canale Dortmund-Ems presso la centrale a carbone di Datteln (foto Maschinenjunge, Creative Commons)
 

Altro vantaggio attuale è la ormai raggiunta chiarezza e coerenza del quadro normativo. La Direttiva Europea 2006/87/CE fissa i requisiti standard per ogni nave di volume minimo di 100 m3 e lunghezza pari o superiore a 20 m;  definisce le caratteristiche richieste per i rimorchiatori, gli spintori e le navi passeggeri capaci di accogliere oltre all’equipaggio almeno 12 passeggeri. L’ultima ridefinizione delle caratteristiche è avvenuta con la Direttiva 2009/46/CE. Le vie d’acqua di interesse comunitario son state suddivise con attenzione a tutti gli aspetti territoriali in quattro zone, più il Reno (zona R) oggetto di una specifica convenzione.
A tutto il 2011 compreso, il trasporto fluviale in Italia  condizionato dalla storia recente e dalle pressioni della lobby del trasporto su gomma - rappresenta ancora solo circa l’1% del totale, a fronte del 42% in Olanda, del 18,5% in Austria, il 15% in Francia e il 14% in Germania;  vi sono dunque margini di razionalizzazione e miglioramento impressionanti, con benefici non marginali per l’ambiente e per la bilancia dei pagamenti per quanto attiene alle importazioni di petrolio, nonchè della possibilità di mettere finalmente a frutto, sul modello degli altri Paesi europei, grandissime opportunità di sviluppo turistico per giunta in modalità ecosostenibili, ancora solo marginalmente sfruttate. In tempi di spending review sempre più stringente, non ci sembra un’opportunità da sottovalutare.

 

Bibliografia essenziale

Piero Dell’Amico, Appunti sulle naves caudicariae. Ed. Serra, Pisa 2011
Rickman,G.,The Corn Supply of Ancient Rome. Oxford University Press, Oxford, 1980.
Le Gall, J.,Le Tibre: fleuve de Rome dans l’Antiquité.Presses Universitaires de France, Paris.
Ivano Galvani, Maurizio Pellegrini, Navigare il Po, tra passato e futuro pagg. 51-65 in Un Po di carte. La dinamica fluviale dell’Ottocento e le tavole della Commissione Brioschi. Ed.Diabasis 2007, ISBN 978-88-8103-109-2
Carlo Grande, Il ritorno delle idrovie così economiche e verdi, in La Stampa, 06/04/2011
Orazio Ferrara, I signori del mare. Appunti per una storia delle antiche marinerie, Centro Studi “i Dioscuri”, Sarno 1998
http://www.unii.org/
http://www.navigaportinterni.it/