Rivista tecnico-scientifica ambientale dell'Arma dei Carabinieri                                                            ISSN 2532-7828

FLORA 
CAUSE DI INSTABILITÀ NELLE PINETE COSTIERE DI PINO D'ALEPPO ​
13/10/2014
di Sandro D'Alessandro Commissario Capo del Corpo forestale dello Stato Comando provinciale di Taranto.


Riassunto
I litorali marini sono ambienti molto difficili per le piante legnose, specie se arboree. A differenza dei componenti della macchia mediterranea, i quali limitano l’accrescimento sia in termini assoluti che nelle sue modalità, permanendo il più delle volte allo stato arbustivo, e dello stesso Leccio che, pur rappresentando la formazione climax verso cui teoricamente tende la macchia mediterranea, assume spesso in tali condizioni un habitus arbustivo, nel Pino d’Aleppo si evidenzia di regola, anche nelle fasi giovanili, un tronco che eleva la chioma dal terreno. Non vi si nota la tendenza alla basitonia dei rami: la ramificazione non rimane infatti appressata al suolo, ma si sviluppa, compatibilmente con l’altezza raggiunta dal fusto stesso, a debita distanza da terra; nei casi in cui l’albero è allo stato isolato, la chioma si sviluppa a partire da rami emessi in prossimità della base del fusto, ma ciò è dovuto esclusivamente al mancato disseccamento di tali rami dopo la loro emissione grazie alla disponibilità di luce solare, non ad una tendenza dell’albero a ramificare dalla base. Specie arboree con temperamento sciafilo come il Leccio possono assumere portamento cespuglioso nei primi stadi del loro sviluppo e permanere in tale condizione per diversi anni, salvo poi, una volta venuti meno gli ostacoli che si frapponevano al raggiungimento dell’habitus arboreo, diventare, spesso, alberi a tutti gli effetti; specie eliofile come il Pino d’Aleppo, se cresciute dominate, possono non riprendersi mai e deperire progressivamente a causa del mancato raggiungimento della necessaria stabilità meccanica.

Abstract


Marine coasts are hostile   environments for woody plants especially  the arboreal ones.   In fact the Mediterranean scrub presents components whose  growth   is   limited to the shrubby level even for the holm-oak (Quercus ilex).
The Aleppo pine, on the contrary, has a trunk  whose foliage rises above the ground. Its branches are not characterized by basitonie and develop according on the basis of the height of the trunk. In case the Aleppo pine has been separated its crown grows from the branches on the basis of the stalk. This process is only due to the non-drying up of those branches, the sunlight (if any) and not  to the tendency of the tree to branch out from its base. Sciophilous arboreal species, such as the holm-oak, can be shrubby from the very beginning of their growth onwards unless they achieve the condition of arboreal habitus when the obstacles to their growth are removed.
Heliophilous species such as  the Aleppo pine can perish progressively if constrained because of the lack of mechanical stability.

 
 
 
 

Introduzione

I litorali marini sono ambienti molto difficili per le specie legnose ed ancora di più per le specie arboree. A differenza della macchia mediterranea i cui componenti limitano l’accrescimento sia in termini assoluti che nelle sue modalità, permanendo il più delle volte allo stato arbustivo , e dello stesso Leccio - che presenta la formazione climax verso cui teoricamente tende la macchia mediterranea -, il Pino d’Aleppo non si presenta pressoché mai allo stato cespuglioso, ma evidenzia, anche nelle fasi giovanili, la presenza di un fusto che eleva la chioma dal terreno. Non si nota infatti la tendenza alla basitonia dei rami: in presenza del fusto, la ramificazione non rimane infatti mai appressata al suolo, ma si sviluppa, compatibilmente con l’altezza raggiunta dal fusto stesso, a debita distanza da terra; nei casi in cui l’albero è allo stato isolato, la chioma si sviluppa a partire da rami emessi in prossimità della base del fusto, ma ciò è dovuto unicamente al mancato disseccamento di tali rami dopo la loro emissione grazie alla disponibilità di luce solare, non ad una tendenza dell’albero a ramificare dalla base. Specie arboree con temperamento sciafilo possono assumere portamento cespuglioso nei primi stadi del loro sviluppo e possono permanere in tale condizione per diversi anni, salvo poi, una volta venuti meno gli ostacoli che si frapponevano al raggiungimento dell’habitus arboreo, essere messe nelle condizioni di diventare, spesso, alberi a tutti gli effetti; specie eliofile come il Pino d’Aleppo, se cresciute dominate, possono non riprendersi e deperire progressivamente a causa del mancato raggiungimento della necessaria stabilità meccanica.

 

1 Considerazioni sull'indigenato del Pino D'Aleppo

Il Pino d’Aleppo (Pinus halepensis Mill.) viene classicamente descritta come importata in tutta Italia fuorché nel solo Gargano, dove essa sarebbe autoctona. A parere dello scrivente, tale asserzione presuppone una “genesi plurizonale” della specie, un vero e proprio processo di “speciazione” multipla che avrebbe avuto luogo in centri diversi e non in contatto fra di loro, in località ubicate in pieno deserto del Sahara e lungo i territori pugliesi del Foggiano.
Apparirebbe forse maggiormente lineare, in un'ottica ben più strutturale, una spiegazione di altro tipo, supponendo che il Pino d’Aleppo sia originario delle zone desertiche, magari quelle che ricadono nei territori dell’attuale Siria - dalla cui capitale la specie prende il nome - e che essa sia stata importata in epoca storica o forse protostorica dall’uomo che voleva sfruttarne la resistenza alla salsedine e l’adattabilità a condizioni ecologiche “estreme”.
L’epoca di una tale supposta importazione – ma questa è solo un’ipotesi - potrebbe essere quella in cui i monaci basiliani che attorno all’anno Mille provenivano proprio dalle zone della Siria, oppure potrebbe essere quella degli antichi Greci che provvidero ad espandere sicuramente essenze arboree di altre specie (Cipresso comune, Vallonea, Fragno, ecc.), i Greci che avevano intessuto rapporti commerciali con le popolazioni del bacino del Mediterraneo, non escluse quelle delle zone africane costiere e dell’entroterra; o potrebbe ancora essere, più indietro nel tempo, quella in cui stirpi pre-elladiche attraversavano in lungo e in largo il Mediterraneo.Quale che ne siano state l’epoca e l’occasione di diffusione, la distribuzione della specie appare circumediterranea, con importanti discontinuità eccezione fatta per alcune importanti zone di discontinuità in alcune parti che sembrerebbero non essere ascrivibili ad una diffusione legata ad cause esclusivaente naturali; un esempio di tale discontinuità appare proprio la distribuzione italiana, che è stata classicamente descritta come legata all’azione antropica, fuorché per quanto riguarda la diffusione della specie nelle zone garganiche, dove essa sarebbe autoctona. In  realtà, c’è da considerare che le coste pugliesi sono state interessate dalle attività sia degli antichi Greci che dei monaci basiliani che vi si stanziarono. Il fatto che solo sul Gargano siano rinvenibili popolamenti di Pino d’Aleppo legati a fattori diffusivi di non univoca determinazione è caratteristico, ma si presterebbe ad essere spiegato con una serie di motivazioni che tengano conto delle caratteristiche, indubbiamente più accidentate di tali zone, che ne avrebbero reso impraticabile l’utilizzazione per fini agricoli e che ne avrebbero pertanto consentito la permanenza di alberi altrimenti “improduttivi.(2)

 

1) sono descritti esemplari arborei di Fillirea, di Lentisco, di Mirto, di Corbezzolo, ecc.: lo status cespuglioso non deriverebbe ad essi, pertanto, dalle modalità di crescita previste dallerispettive specie di appartenenza, ma forse più dalle condizioni stazionali
2) il concetto di “produttività” è quello legato alle concezioni del passato, in cui si assegnava al bosco una funzione esclusivamente produttiva di legname o di legna, in effetti, non è lontano falla realtà, forse, considerare che in epoche come quella degli antichi Greci (circa 2500 anni fa) o dei monaci di San Basilio (circa 1000) l’unica funzione positiva assegnata ai boschi fosse quella della produzione legnosa e della protezione dell’entroterra. Ora, in un’economia di sussistenza, appare chiaro che tutti gli altri benefici del bosco non vengono considerati, sia perché non direttamente legati alla produttività di un bene tramutabile in sostentamento, sia perché altri benefici potevano non essere noti, trattandosi anche di un’epoca in cui la produzione di ossigeno o l’eccesso di anidride carbonica non erano un problema.”


 

2 Le pinete protettive di Pino D'Aleppo

Foto n° 1- Pineta di Pino d’Aleppo impiantata a poca distanza dal mare, in una zona in cui l’elevato tasso di salinità renderebbe problematica o del tutto impossibile la sopravvivenza di una formazione forestale più “evoluta”, come ad es. la Lecceta (Foto: Sandro D’Alessandro)

La stragrande maggioranza delle pinete costiere mediterranee ha origine artificiale. L’impianto di dette pinete, che costituiscono con poche eccezioni le uniche formazioni forestali in grado di resistere alle difficili condizioni ecologiche della fascia litoranea, è dettato dalla convenienza a proteggere la fascia costiera retrostante dai venti marini salmastri.
Nel corso dei rimboschimenti a Pino delle zone costiere sono stati impiegati il Pino d’Aleppo o, a seconda della collocazione geografica o del terreno, il Pino marittimo. Il primo è stato in linea di massima adoperato per il rimboschimento delle zone costiere a substrato calcareo, il secondo per quelle a substrato siliceo. A causa delle sue esigenze ecologiche forse meno ubiquitarie (per lo meno in fatto di terreni) il Pino marittimo, le cui pinete interessano buona parte delle coste tirreniche, è sporadico o completamente assente lungo le coste adriatiche, dove la specie predominante nelle formazioni costiere di origine antropica di Gimnosperme è il Pino d’Aleppo.
Proprio lungo il litorale adriatico sono state effettuate le osservazioni che seguono, relative alle pinete costiere di Pino d’Aleppo, che vegetano lungo il litorale in formazioni monospecifiche e coetaneiformi.

 
 
Areale - temperamento ecologico:Il pino d’Aleppo è una specie circummediterranea, è presente in tutti i paesi del bacino mediterraneo, solo in Anatolia ha una distribuzione limitata.  È stata segnalata una stazione spontanea anche in Corsica. Un tempo l’areale era molto più esteso, occupava regioni oggi coperte da Juniperus phoenicea. In Italia si trova lungo le coste dei Tre mari, più frequentemente in Liguria e Toscana in provincia di Salerno, lungo le coste occidentali della Calabria, Sicilia, nelle isole di Pantelleria e Lampedusa,  sulla costa ionica da Metaponto a Taranto. Nell’interno della penisola in Umbria e Abruzzo (però solo su formazioni calcaree); i boschi più importanti si trovano in Umbria e in Puglia. I limiti altitudinali superiori si aggirano su 700-800 m. in Liguria, 400-700 all’interno della penisola e Gargano (in Africa arriva fino a 2.200 m.).
Vegeta solo nella zona del Lauretum con preferenza per le sottozone calda e media, in cui dimostra l’adattamento a climi siccitosi, mentre  vegeta male nelle zone molto piovose (700-800 m.).
Poco esigente nei riguardi del suolo, si adatta a tutti i tipi di terreno, compresi quelli calcarei, aridi, non si adatta invece a quelli argillosi compatti o troppo umidi. >>

da Romano GELLINI “Botanica forestale” vol. I, op. cit.
 
Foto n° 2 Albero di Pino d’Aleppo radicato nel retroduna. (Foto: S. D’Alessandro).
 
 

Gli impianti delle pinete litoranee di Pino d’Aleppo sono infatti stati effettuati su una porzione non trascurabile delle coste italiane orientali, allo scopo principale di mitigare l’azione dei venti marini carichi di salsedine e di rendere l’immediato entroterra fruibile dalla popolazione a fini per lo più agricoli. A tale scopo si deve dire che poche altre specie forestali, con l’eccezione proprio del Pino marittimo(3) , appaiono in grado di formare un’analoga barriera, la cui costituzione è resa possibile sia dalle caratteristiche intrinseche della specie che dalle sue ampie tolleranze nei riguardi di fattori ecologici a fattori ambientali anche molto svantaggiosi.(4)

 

3) nel prosieguo del testo si farà riferimento anche ad altre specie che vengono impiegate nel rimboschimento delle zone a ridosso del mare e nel rinsaldamento delle dune sabbiose, ma si tratta di essenze arboree che non danno di regola origine a formazioni forestali nel vero senso della parola.
4) è riportato in letteratura il caso di semenzali di Pino d’Aleppo che apparivano in grado di sostentarsi senza danni di rilievo anche quando le loro radici erano immerse in acqua definibile “marina” a tutti gli effetti a causa del suo tenore salino.


 
Foto n°3 – Albero non molto alto, raramente con altezze superiori ai 20 m., con diametri tuttavia notevoli, può arrivare anche a 1,20 m. e più, con fusto diritto, spesso tortuoso. .
 
Foto n° 4 - Corteccia dapprima liscia di color grigio-cenere, poi bruno-rossa, si fessura longitudinalmente in placche fitte e poco profonde non sfaldatesi.
 
 

È anche grazie alla presenza di chiome che si elevano per un buon tratto al di sopra del livello del suolo, se le zone a ridosso del mare possono essere vantaggiosamente sedi di attività produttive senza che le colture abbiano a subire danni di rilevo.  Un vantaggio apportato dalla presenza di un popolamento arboreo lungo la fascia immediatamente a ridosso del mare permette altresì la presenza di insediamenti in cui gli effetti negativi della vicinanza al mare risultano attenuati.
Ma il beneficio apportato dalla presenza di una formazione arborea non si limita all’immediato vantaggio da parte dell’uomo: con la loro stessa presenza, e con gli inevitabili processi di “evoluzione” del terreno che determina, il persistere di formazioni arboree di una data specie può aprire la strada a popolamenti di specie arboree via via più esigenti ed in grado di assicurare all’ambiente una maggiore complessità biotica.
Il rimboschimento – o più spesso, per meglio dire, l’imboschimento – può avere avuto luogo su terreni precedentemente non interessati da alcun tipo di copertura forestale, intesa per lo meno in senso stretto, in quanto la ridotta distanza dal mare rendeva impossibile l’insediamento spontaneo di specie arboree e consentiva al più la presenza di specie legnose di portamento arbustivo, ossia le specie della macchia mediterranea.

 
Foto n° 5 - Aghi riuniti a 2, raramente a 3, con guaina persistente lunga 7-8 mm., lunghi 5-10 cm., molto sottili, con margini minutamente dentati, apice acuto, linee stomatifere sulle 2 facce, di color verde chiaro, raggruppati a pennello all’estremità dei rametti; canali resiniferi marginali. Microsporofilli in amenti cilindrici, gialli, con riflessi rossi >> (didascalia da R. GELLINI, op. cit.) (Foto: S. D’Alessandro).
 
Foto n° 6 - Gemme ovoidali-coniche, non resinose, lunghe 5-10 mm., bruno-rosse con squame libere frangiate di bianco spesso riflesse all’apice. Macrosporofilli con riflessi rosa-violacei (didascalia da R. GELLINI, op. cit.) (Foto: S. D’Alessandro).
 
 

L’impiego di specie arboree frugali, come appunto il Pino d’Aleppo, ha consentito pertanto in svariati casi di rivestire con copertura arborea superfici altrimenti destinate a rimanere indefinitamente interessate da arbusteti o da macchie sempreverdi.
Ciò determina senza dubbio un’avanzata, in termini ecologici, verso popolamenti meglio strutturati e verso stadi di maggiore ricchezza dell’ecosistema Da un punto di vista ecologico, infatti, la presenza di una specie arborea, in grado di determinare nell’ambiente un processo di sviluppo del sistema verso livelli volta per volta più avanzati, è in grado di modificare le caratteristiche ambientali permettendo con il passar del tempo l’instaurarsi di quelle condizioni che rendono possibile l’insediamento di specie più esigenti e nel contempo in grado di assicurare al sistema stesso una maggior stabilità ed una maggior complessità. 5
A ciò si aggiunge il fatto che in condizioni particolarmente favorevoli lo sviluppo del popolamento arboreo può portare a fasi tali da rendere possibile il successivo insediamento, artificiale o spontaneo, di altre specie arboree anche profondamente diverse in quanto ad esigenze ecologiche, come ad es. il Leccio. 6

 

5) nel caso specifico del Leccio, si tratta di una specie che sembrerebbe contraddire la regola generale che prevede che, nel corso dell’avanzamento di un ecosistema verso la sua fase climax, si verifichino condizioni di maggiore complessità biotica: il Leccio è infatti una specie che a causa della sua marcatissima sciafilia determina condizioni di forte ombreggiamento, in cui solo poche specie arboree riescono a resistere. La Lecceta adulta è di regola un popolamento fitta e monospecifici, al cui interno le possibilità di attecchimento di altre specie in possesso di temperamento più improntato verso l’eliofilia (la stragrande maggioranza, se non proprio la totalità delle specie del suo piano vegetazionale) sono praticamente impossibili. All’interno della Lecceta pura, tuttavia, si verificano condizioni di maggiore complessità strutturale, determinata da una stratificata disposizione dei rami e del fogliame, che permettono una biodiversità almeno a livello animale che non si verifica all’interno delle pinete monospecifiche.
6) il Leccio è descritto come la pianta arborea verso cui tendono le fasi serali in ambiente mediterraneo, ma nella realtà ciò non sempre avviene, in quanto la specie è caratterizzata da un temperamento ecologico molto più esigente del Pino d’Aleppo, per cui si adatta meno bene di questo a vegetare su suoli “difficili” come quelli delle coste marine.


 

Esistono però alcuni fattori che non è fuori luogo considerare e che sembrerebbero andare in direzione opposta a tale successione serale.
In primo luogo, le oggettive difficoltà dell’ambiente fanno sì che nel corso delle fasi serali della successione ecologica successiva alla fase della pineta, anziché popolamenti più “evoluti”, si insedino a volte popolamenti che, nel corso della progressione di sviluppo dei terreno e degli ecosistemi, precedono la pineta stessa. Si ha in tali casi una sorta di “regressione” verso stadi serali meno avanzati, in cui alla forma arborea succede quella arbustiva.

 
Foto n°7 - Strobili ovoido conici solitari o a 2-3, con squame a scudo quasi piano, arrotondato inferiormente senza o quasi carena trasversale, con ambone largo e non saliente, grigio; non resinosi, bruno rossi e gialli, con peduncolo spesso lungo 1-2 cm., larghi 3,5-4,5 cm. >> (didascalia da R. GELLINI, op. cit.) (Foto: S. D’Alessandro).
 
Foto n° 8 - Legno con durame bruno scuro e alburno giallastro chiaro, con anelli ben distinti, non troppo tenero o addirittura duro, di pesantezza media >> (didascalia da R. GELLINI, op. cit.) (Foto: S. D’Alessandro).
 
 
 

La pineta è piantata di norma in ambienti molto difficili, per non dire proibitivi da un punto di vista ecologico. Si tratta di ambienti che sono soggetti ad un gran numero di perturbazioni di diverso tipo, anche molto rilevanti in quanto a intensità, che mettono a dura prova le capacità di resistenza delle  eventuali formazioni arboree che insistono su di essi.
In primo luogo, la vicinanza al mare, che con il suo contenuto salino determina l’instaurarsi di condizioni estremamente difficili per le specie vegetali presenti. A ciò si aggiunge spesso la sterilità e la superficialità dei terreni utili per l’approfondimento radicale, che non permettono un accrescimento ottimale delle formazioni forestali. E, come se non bastasse, la frequenza degli incendi che funestano annualmente le nostre coste.
Sono proprio tali condizioni che limitano enormemente la scelta delle specie utili per rimboschire, e sono proprio queste specie che potranno, nei casi migliori, sopperire alle svantaggiose caratteristiche ambientali per permettere l’insediamento di specie arboree più esigenti e più in grado di caratterizzare l’ambiente in direzione di un aumento della biodiversità.
Malgrado ciò, è molto frequente assistere, come si è detto, a retrocessioni nelle fasi serali, e così la pineta di Pino d’Aleppo, anziché essere sostituita dalla fustaia di Leccio, è il più delle volte seguita dall’arbusteto o dalla macchia.

 
Secondo il Clements, per quanto ad una determinata zona caratterizzata da un determinato clima la formazione cosiddetta climax sia una ed una sola, possono esistere degli equilibri diversi causati dall’azione di fattori locali; così possono esistere stadi la cui presenza è legata a fattori diversi, quali:
disclimax: stadi derivati da azioni  di disturbo da parte di uomini o di animali;
sub-climax: stadi vicini al climax che divengono permanenti, ad es. per incendi che si ripetono
postclimax: caratterizzati da un’aridità locale più elevata e pertanto raggruppamenti vegetali più xerofili rispetto al clima generale
 
Stadio di sviluppo
1
Caratteristiche tipiche dello stadio di sviluppo in un generico popolamento arboreo monospecifico e coetaneo (da P. PIUSSI, op. cit. modif.)
2
Caratteristiche che si riscontrano nella pineta di protezione di Pino d’Aleppo (osservazioni e considerazioni dell'autore)
Novelleto (posticcia se di impianto artificiale)
Stadio immediatamente successivo all’insediamento del popolamento; individui con chioma che riveste completamente il tronco, fusto sottile ed elastico, accrescimento longitudinale progressivamente crescente. Nella fase iniziale spesso le chiome non sono a contatto; gli alberi subiscono la concorrenza della vegetazione erbacea ed arbustiva.
Tale stadio si verifica, oltre che nelle fasi immediatamente successive all’impianto della pineta, anche nel corso degli eventi post-traumatici, quali ad es. gli incendi che percorrono con una frequenza purtroppo molto accentuata tali popolamenti di Conifere che in seguito a schianti di piante adulte che liberano consistenti superfici dall’ombreggiamento delle chiome e rendono tali superfici disponibili per la rinnovazione, che viene così messa nelle condizioni di insediarsi.
Spessina
Inizia quando le chiome sono entrate a contatto, le come degli alberi si sono innalzate. Forte concorrenza intraspecifica, emergono le differenze di accrescimento in altezza e conseguentemente un diverso approvvigionamento luminoso da parte degli alberi. Si evidenzia la posizione sociale degli alberi. Aumento della mortalità a spese degli individui meno favoriti, forte selezione e decremento numerico. La vegetazione erbacea regredisce fino a scomparire ed il terreno appare ricoperto esclusivamente da uno strato di lettiera.
Lo stadio di spessina termina quando, in seguito al graduale disseccamento dei rami inferiori ed al loro successivo distacco, si determina un tratto di fusto libero da rami ben distinto da quello che sorregge la chioma; a questo punto l’altezza del soprassuolo raggiunge gli 8-10 metri ed il diametro degli alberi dominanti i 10 cm.
In una prima fase del raggiungimento di tale stadio di crescita la mortalità non pare eccessivamente accentuata, essendo il Pino d’Aleppo una specie eliofila ai massimi gradi che non tollera nemmeno l’ombreggiamento reciproco del suo stesso fogliame, e pertanto in possesso dei chiome abbastanza “leggere” che non determinano condizioni di forte ombreggiamento. Per effetto della concorrenza i tronchi paiono relativamente regolari, con chioma caratterizzate ancora da una discreta profondità.
Il popolamento è in questa fase molto fitto, in quanto, sebbene il numero di alberi sia inferiore a quello della precedente fase di novelleto a causa dell’inevitabile riduzione numerica, l’incremento diametrale e la presenza di rami che si dipartono dai diversi fusti intersecandosi reciprocamente determinano una certa copertura che non permette al vita di piante nel piano inferiore.
Le condizioni cambiano sensibilmente al raggiungimento delle fasi finali dello stadio di spessina, quando la forte concorrenza provoca la morte di un notevole numero di alberi.
Perticaia
La concorrenza fra gli alberi si è ridotta dopo la forte mortalità della fase precedente e si è resa evidente la differenziazione sociale in soprassuolo dominante e soprassuolo dominato. L’azione del vento si fa sentire maggiormente e scuote le chiome che tendono ad interrompere il contatto fra di loro in seguito alla rottura dei rami laterali determinata dallo sfregamento reciproco. Le chiome delle piante dominanti tendono ad assumere una forma affusolata e quelle delle piante dominate si riducono sempre più, generalmente in modo asimmetrico, se appartenenti a specie eliofile, dato che risentono di ogni apporto di luce che penetri fino a loro, mentre nelle specie sciafile si sviluppano in larghezza, con pochi rami e scarse foglie distribuite orizzontalmente.
Le pinete rimangono fitte, con prevalenza di piante molto sottili ed in possesso di pochi rami da i quali si diparte una chioma situata nella porzione superiore del fusto. L’altezza di inserzione della chioma molto elevata, unitamente ad una profondità di chioma molto ridotta, di solito ne fa un pennacchio che si diparte in corrispondenza della porzione superiore del fusto e che è molto soggetta a muoversi in funzione dello spirare del vento. Ogni singola pianta è poco stabile a causa del suo inadeguato rapporto H/D e trasmette alle piante circostanti le sollecitazioni determinate dallo spirare dei venti. Alla stabilità individuale si sostituisce la stabilità di gruppo del popolamento, che viene scaricata inevitabilmente sulle piante di confine o su quelle situate ai margini delle radure, a carico delle quali sono frequenti gli schianti.
Fustaia
Con la riduzione dell’accrescimento longitudinale prima e di quello diametrale poi, nella fase di fustaia (o soprassuolo adulto), si riduce e poi si arresta il processo di differenziazione sociale e quindi la concorrenza. Il maggior diametro dei fusti li rende meno sensibili allo spirare del vento e così la chioma, ormai limitata alla parte alta del tronco, non viene ridotta ulteriormente ridotta; d’altra parte, a causa dell’età, la reazione delle chiome nell’occupare spazi eventualmente lasciati liberi è assai più lenta.
La mortalità naturale è assai più ridotta che negli stadi precedenti ed è imputabile a fattori di origine biotica ed abiotica; di conseguenza la selezione non opera più su una classe specifica di alberi.
Gli alberi arrivati a fine ciclo sono provvisti di tronchi di limitate poco dimensioni diametrali e di chioma poco profonda. Il loro peso, unito all’assenza di alberi circostanti in grado di fornire un appoggio alle sollecitazioni da vento, ne fa degli individui facilmente soggetti a schianti nei terreni poco profondi che spesso costituiscono il sito d’impianto delle pinete di Pino d’Aleppo. Schiantandosi al suolo, tali alberi scoprono notevoli porzioni di terreno, rendendo possibile l’insediamento della rinnovazione prima impossibile a causa dell’ombreggiamento delle chiome. All’interno delle pinete di Pino d’Aleppo la rinnovazione, che si insedia di regola dopo gli schianti, appare coetanea su piccole superfici. Nelle piccole radure formatesi si insediano però anche altre specie vegetali, come la macchia mediterranea ed i rovi, che attuano una notevole concorrenza nei confronti dei semenzali di Pino d’Aleppo.
 

Tab.1 – I diversi stadi di sviluppo in un generico soprassuolo coetaneo e nella pineta protettiva di Pino d’Aleppo. Colonna (1): da P. PIUSSI, op. cit.,modif.; Colonna (2): osservazioni effettuate dall’autore nella pineta di Pino d’Aleppo di protezione.

 
Foto n°9 - Spessina di Pino d’Aleppo derivante da disseminazione naturale in una radura. (Foto: S. D’Alessandro).
 
 

2 Stabilità meccanica delle pinete di Pino d'Aleppo

Da un punto di vista esclusivamente meccanico la pianta più stabile è quella che, oltre ovviamente ad essere in buona salute, è ben radicata al suolo e presenta un ottimale e simmetrico andamento del fusto e della chioma nella sua porzione epigea, e delle radici nella sua porzione ipogea.
Un fusto ben piantato sul suolo, caratterizzato da un andamento verticale e da un ottimale rapporto altezza/diametro, oltre che con una conformazione regolare ed una chioma regolarmente sviluppata e ben proporzionata alle varie altezze è ovviamente il più stabile, almeno per quanto concerne la stabilità legata a fattori di “ancoraggio”, di forma e di rastremazione.
Il raggiungimento di caratteristiche del genere dipende da fattori di diversa natura, quali le caratteristiche genetiche dell’albero, la profondità ed il tipo di terreno, l’assenza di fattori di disturbo che impongano forme di accrescimento asimmetrico di fusto e chioma, il verificarsi o meno, occasionale o periodico, di eventi traumatici o comunque di disturbo avvenuti in un qualsiasi periodo della vita dell’albero come incendi, attacchi parassitari, concorrenza, ecc.
Le caratteristiche genetiche costituiscono un fattore che può avere una forte incidenza sulla validità di un impianto: da semi di alberi malformati si origineranno di norma individui che saranno affetti anch’essi da malformazioni, mentre vantaggi maggiori si otterranno ovviamente impiegando semi di alberi in possesso di una buona conformazione.

 
Foto n° 10 – Pineta di Pino d’Aleppo con evidenti problemi di stabilità. (Foto: S. D’Alessandro).
 

Nel caso specifico del Pino d’Aleppo, si tratta di una specie caratterizzata di per sé da un irregolare andamento del fusto e della chioma, al punto che i rami che la sostengono sono disposti senza un andamento regolare: possono essere cioè inseriti ortogonalmente sul fusto o essere inclinati ad angolo acuto, senza che sia possibile trarre una regola generale come è invece possibile per le altre due specie di Pini mediterranei: il Pino marittimo ed il Pino domestico. Mentre il primo è infatti caratterizzato da un inserzione ortogonale dei rami sul fusto, il secondo presenta rami che decorrono procedendo obliqui verso l’alto.
Tuttavia, esistono dei casi in cui anche gli alberi di Pino d’Aleppo presentano una certa regolarità nella ramificazione, regolarità che può essere legata a fattori genetici, ma anche a fattori stazionali o addirittura a concorrenza. Si verifica a volte nelle piante adulte di Pino d’Aleppo una conformazione che ricorda quella del Pino domestico, con un caratteristico portamento “ad ombrello”, determinata probabilmente dall’attenuazione della dominanza apicale dei vari rami, che porta ad una convessità della chioma verso l’alto. Come si verificano a volte i casi di Pini d’Aleppo che presentano rami inseriti ad angolo retto sul fusto, alla pari del Pino marittimo. In casi particolari l’effetto congiunto delle caratteristiche genetiche dell’albero e delle condizioni stazionali mettono in grado il Pino d’Aleppo di manifestare delle conformazioni regolari che rappresentano quasi un’anomalia per la specie.
Condizioni stazionali sfavorevoli, caratterizzate da fattori limitanti quali ad es. la pendenza del substrato, l’irregolarità, l’eventuale presenza di rocciosità, di tratti sterili, ecc., non mettono la pianta in grado di esplicare le sue potenzialità di crescita regolare al meglio delle sue possibilità
La concorrenza esercita un’azione il cui effetto sulla regolarità del fusto può essere duplice: favorevole nel caso di una concorrenza ben proporzionata e presente su tutti i lati con la stessa intensità,7 sfavorevole o deleterio nel caso in cui la pianta è oppressa con intensità diverse dai vari lati.
In bosco puro la competizione intraspecifica si esplica su diversi piani ed a diversi livelli: da un punto di vista nutrizionale, la presenza di numerosi alberi su uno stesso substrato porterà ad un minore approvvigionamento di sostanze nutritive da parte di ogni singolo albero. Da un punto di vista “energetico”, un piano di chiome più o meno compatto determinerà una minore quantità di energia solare a disposizione delle strutture fotosintetiche di ogni singolo albero. Da un punto di vista della stabilità, l’esistenza di molti alberi in possesso delle stesse caratteristiche e delle stesse esigenze ecologiche porterà alla costituzione di un popolamento che, pur di accaparrare il massimo di energia disponibile, produrrà alberi eccessivamente protesi verso il raggiungimento degli strati superiori delle chiome, a scapito delle loro caratteristiche di stabilità meccanica.

 

7) questo è ciò che si dovrebbe verificare nel caso dei rimboschimenti, in cui e le piante o i loro semi vengono disposti a distanze regolari lungo linee parallele: in tal modo si ottiene il duplice vantaggio di coprire uniformemente il terreno e di determinare una concorrenza il più possibile simmetrica su tutti i lati, con sviluppo di radici, fusti e di chiome ben conformati che sono in grado di procedere in tutte le direzioni, senza che essi si sbilancino da uno o da un altro lato. Questo a livello teorico. Esistono infatti numerose cause di irregolarità sia a livello del terreno che a livello delle singole piante. A livello del terreno per la possibile presenza di affioramenti rocciosi, strati di minore profondità terreno fertile, di ristagni d’acqua, ecc., che determinano variazioni nella crescita, quando non proprio la soppressione, di alcune delle piante presenti; a livello di  individuo per l’informazione genetica delle singole piante, che può determinare lo sviluppo di alberi eccezionalmente grandi ed in possesso di spiccate caratteristiche di concorrenza, o di piante stentate e poco capaci di esercitare una competizione valida.


 
Foto n° 11 – Risultato della competizione intraspecifica nel Pino d’Aleppo, specie estremamente eliofila del piano basale mediterraneo: gli alberi che hanno sacrificato l’accrescimento diametrale per rendere possibile un’idonea crescita in altezza non sono stati in grado di restare in piedi, una volta che la densità del popolamento viene ridotta da cause per lo più naturali. Negli spazi lasciati liberi dagli schianti, in cui si potrebbe affermare la rinnovazione della specie arborea, questa è ostacolata dall’insediamento di fitti cespugli di macchia mediterranea. (Foto: S. D’Alessandro).

È vero che in bosco la stabilità individuale è compensata dalla “stabilità di gruppo”, in cui gli alberi si sostengono e si mettono reciprocamente in grado di accaparrare il minimo di energia disponibile pro capite, ma è vero anche che tale condizione – peraltro non stabile a tempo indeterminato - viene raggiunta a spese di un ottimale spazio “vitale” a disposizione della porzione epigea e della porzione ipogea di ogni singolo albero.
La competizione, all’interno di popolamenti monospecifici e coetanei di specie eliofile, può essere notevolissima e porta alla inevitabile morte di quegli individui che non sono stati in grado di mantenere un buon ritmo di accrescimento, tale da consentire loro di stare al passo con gli altri.
L’esigenza di raggiungere gli strati superiori del piano delle chiome spinge gli alberi ad impiegare tutto il materiale fotosintetizzato nella costituzione di nuovi tessuti da adibire all’accrescimento longitudinale. L’accrescimento longitudinale, ossia il raggiungimento di una data altezza da parte dell’albero, consiste nell’incremento di una misura lineare, pertanto più facilmente ottenibile ed a scapito di un minore impiego di sostanza legnosa, a differenza degli incrementi diametrali alle diverse altezze. Nel primo caso si parla infatti di un valore “semplice”, nel secondo di misure al quadrato.
In altre parole, è ben più facile impiegare il legno prodotto per accrescersi in altezza, che per accrescersi in diametro. Ma un’altezza non supportata da diametri idonei e convenientemente ripartiti ai vari piani dell’albero determina inevitabilmente una causa di grande ed insanabile instabilità meccanica.
Un albero soggetto alla concorrenza per l’approvvigionamento luminoso ha due “scelte”: morire o mettersi al passo con le altre – non si tratta ovviamente di scelte nel senso comune del termine, ma piuttosto di possibilità -.

 
 
Foto n° 12 – Popolamento di Pino d’Aleppo cresciuto in condizioni di densità eccessiva. (Foto: S. D’Alessandro).

Le differenze fra i diversi alberi si rendono manifeste una volta superato un primo periodo  (cioè quello della fase di semenzale, in cui non si notano sostanziali differenze fra i vari individui che compongono il popolamento), all’età in cui si accentuano gli incrementi longitudinali. Gli alberi più dotati sono in grado di elevarsi in altezza mantenendo un idoneo diametro alle varie altezze; quelli meno dotati, pur di stare al passo, sacrificano al raggiungimento delle altezze indispensabili per sopravvivere gli incrementi diametrali e l’emissione di rami provvisti di chioma che fornirebbero l’energia necessaria al fabbisogno ottimale dell’albero. Si tratta di alberi con tronchi sottili, provvisti di una chioma ridotta spesso ad un “piumino” in corrispondenza della parte superiore del fusto. Una chioma che, per quanto risultata in grado di garantire il raggiungimento dell’indispensabile dimensione longitudinale, non appare assolutamente in grado di far fronte alle richieste di stabilità meccanica dell’albero, fatto questo compensato dalla presenza nelle immediate adiacenze di alberi conspecifici nelle stesse condizioni o in condizioni migliori, ai quali potersi appoggiare.
A questi alberi, che pur nella loro instabilità individuale costituiscono lo “zoccolo duro” del popolamento, si aggiungono altri alberi che vengono persi via via che continua il processo di crescita. Si tratta in questo caso di alberi che non appaiono in grado di far fronte convenientemente alla concorrenza, ma che adibiscono tutta l’energia immagazzinata per ovviare alle esigenze di carattere luminoso, senza poter disporre di energia residua da impiegare nel raggiungimento di idonee dimensioni diametriche.
Sono, questi, alberi in possesso di una limitata vitalità, che muoiono man mano che il processo di accrescimento del bosco prosegue e che sono caratterizzati da valori di H/d eccezionalmente alti 8, alberi nei quali l’impiego, necessariamente esclusivo, dell’energia luminosa assimilata a fini di crescita longitudinale, non lascia spazio a residui energetici per far fronte ad un corrispondente accrescimento diametrale. La conseguenza è la formazione di tronchi “filati”, pressoché privi di chioma vitale in grado di sopperire alle proprie stesse esigenze, che con numerosi rami secchi si apprestano verso una morte inesorabile.
Lo spazio potenzialmente a disposizione dei loro rami, quello situato nell’area del piano delle chiome al disopra del loro fusto, viene inevitabilmente occupato dall’espansione dei rami laterali degli alberi adiacenti più vigorosi, che ne occludono in breve qualsiasi possibilità di approvvigionamento di energia luminosa.
Col tempo tali alberi si riducono a dei veri e propri “stecchini” carenti o pressoché del tutto privi di chioma, il cui spazio vitale viene occupato dagli alberi circostanti, che lo impiegano per i loro processi vitali e che determinano  con la loro spietata concorrenza la morte di tali alberi sottoposti.

 
 

8) il valore di H/d è un dato abbastanza rappresentativo della potenziale stabilità di un albero; esso consiste nel rapporto fra l’altezza totale dell’albero ed il suo diametro preso ad 1.30 metri da terra. Bassi valori di H/d indicano che gli alberi cui si riferiscono sono in possesso di diametri  sproporzionatamente elevati rispetto all’altezza, alti valori indicano invece alberi dall’altezza sproporzionatamente elevata rispetto al diametro.
Nel primo caso siamo davanti a piante rastremate, in cui la superficie della sezione trasversale del fusto diminuisce in maniera molto accentuata all’aumentare dell’altezza; si tratta di alberi caratterizzati di solito da un’inserzione della chioma sul fusto a poca altezza da terra e molto stabili da un punto di vista meccanico. Le condizioni di crescita che danno origine a tali alberi sono determinate inequivocabilmente da una notevole intensità luminosa alle varie altezze, di cui l’albero ha potuto fruire nei vari stadi della sua crescita. Una situazione del genere è indicativa di alberi, cresciuti in assenza pressoché totale di concorrenza, nei quali la disponibilità di energia luminosa ha fatto sì che l’accrescimento diametrale non venisse “sacrificato” a vantaggio dell’accrescimento longitudinale ed ha anzi potuto dar luogo ad individui dal tronco eccezionalmente grosso che non è dato trovare all’interno di boschi.
All’opposto, alberi in possesso di elevato rapporto H/d sono rappresentativi di situazioni di forte concorrenza, che ricalcano appieno le condizioni che si verificano all’interno delle pinete coetanee di Pino d’Aleppo cresciute senza adeguati interventi di riduzione della densità. In tali pinete la riduzione avviene “naturalmente” (il che è quasi un paradosso, trattandosi di formazioni boschive piantate dall’uomo secondo dettami che prevedono, almeno a livello teorico, l’intervento periodico da parte dell’uomo per ripristinare, in funzione dell’età, dell’altezza e del diametro, le condizioni ottimali del popolamento), per lo più in concomitanza di eventi traumatici come episodi incendiari, forti venti, attacchi parassitari, ecc. tali eventi, che si ripetono nel corso della vita del popolamento, dovrebbero portare ad una selezione degli individui più adatti all’ambiente, ma in realtà sono in gran parte dovuti al caso (………)
Ad una certa età del popolamento sopraggiungono le cause di instabilità degli alberi dovute all’età dei singoli alberi, i quali non appaiono più in grado di far fronte convenientemente alle azioni perturbatrici naturali o umane. Ad una certa fase del popolamento si verificano infatti morie generalizzate come reazione a condizioni volta per volta sempre meno incisive che assumono un peso sempre maggiore nel causare danni irreversibili o anche la morte dell’albero. Eventi traumatici che in precedenza sarebbero stati ben tollerati si rivelano sempre più significativi nel determinare condizioni di sofferenza dell’albero, con l’instaurarsi di una progressiva riduzione della capacità di feedback negativo da parte dell’intero popolamento
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Foto n° 13 – Giovane albero di Pino d’Aleppo atterrato dopo che gli è venuto a mancare l’appoggio laterale in seguito all’abbattimento o all’atterramento degli alberi adiacenti: il Pino nella foto, sostenendosi a questi, aveva potuto privilegiare l’accrescimento longitudinale senza essere costretto a supportarlo con un adeguato accrescimento diametrale che esso non era stato in grado di assicurare. Malgrado l’atterramento, l’albero è rimasto vitale, come dimostra la chioma composta da fogliame verde e l’emissione dei rami che la sostengono e la dirigono verso l’alto. (Foto: S. D’Alessandro).

Stabilità dell’albero di Pino d’Aleppo in base alla sua conformazione radicale – sembrerà strano, ma fra i testi di botanica, che pure riportano con dovizia di particolari ogni caratteristica delle specie trattate, ben pochi sono quelli in cui è descritto l’andamento delle radici del Pino d’Aleppo. Eppure, si tratta di una specie che ha avuto una grandissima diffusione ad opera dell’uomo, specialmente in Italia, dove le sue caratteristiche di albero frugale e resistente all’ambiente salmastro sono state ampiamente sfruttate per effettuare rimboschimenti nella fascia litorale; una specie per la quale il semplice interesse in quanto albero forestale sui è affiancato ad un’utilità ben definita da un punto di vista, se non produttivo nel pieno senso della parola (il suo legname non ha praticamente nessun impiego), quanto meno utilitaristico.
Per quanto il Pino d’Aleppo sia descritto, nei poche trattati che trattano l’argomento,  come un albero dall’apparato radicale “inizialmente fittonante, poi formato da radici molto profonde con grande potere di penetrazione nelle fessure della roccia”, l’andamento superficiale delle sue radici è ben visibile osservando i rigonfiamenti dell’asfalto nei tratti stradali in cui un malaccorto amministratore locale ha deciso di impiantare questa specie come albero da viale. O nei molteplici casi in cui i proprietari di case coloniche si trovano a dover fare i conti con le radici di quell’albero piantato incautamente vicino allo stabile, sollevando la casa e determinando gravi pericoli di stabilità sono resi evidenti dalle inevitabili crepe che si producono nei muri. In tali casi gli alberi manifestano in fase adulta un netto andamento superficiale delle radici che, decisamente grosse a maturità, sollevano anche di molto il fondo stradale o il terreno.
Il  Pino d’Aleppo non prevede solo l’emissione di radici schiettamente fittonanti, ma anche di radici superficiali, che sono per giunta estremamente sottili nei casi in cui l’albero vegeta in bosco monospecifico. In determinati casi, anzi, tali radici sono le uniche ad essere prodotte da tutti gli alberi presenti su estensioni anche vaste: in tutti gli alberi sradicati esaminati ai fini di questo lavoro non si è rinvenuta infatti alcuna traccia di radici fittonanti.

 
Foto n° 14 – Radici di albero di Pino d’Aleppo sradicato: come in altri casi analoghi relativi a Pini cresciuti su un substrato di non adeguato spessore, non si evidenzia la presenza di un fittone verticale che ancori l’albero al suolo, ma uno sviluppo delle radici molto superficiale. (Foto: S. D’Alessandro).

Ciò probabilmente non dipende solo dal fatto che il Pino d’Aleppo può trovarsi a vegetare su substrati nei quali lo spessore dello strato di terreno è molto limitato. Nel caso ad es. del Pino domestico, caratterizzato da una radice fittonante, l’albero nel corso della coltivazione in vivaio sviluppa un apparato radicale che si dispone a spirale perché non è in grado di procedere ulteriormente verso il basso a causa del fondo del vaso. Niente di tutto ciò si verifica evidentemente nel Pino d’Aleppo: neanche di uno sviluppo di una qualsiasi radice fittonante, sia pure deformata, è stata rinvenuta traccia in nessuno degli alberi sradicati.
È un dato di fatto che, quando alberi di Pino d’Aleppo cresciuti su substrati superficiali vengono sradicati dalla forza del vento, spesso non si evidenziano fittoni radicali che si approfondiscono verticalmente nel terreno: in tali alberi le radici visibili si riducono di norma a sottili radici che attraversano il terreno in direzione obliqua o quasi orizzontale, che sono in grado di garantire una limitata funzione di sostegno alle sollecitazioni orizzontali provocate dal vento od a quelle derivanti da uno sbilanciamento della chioma rispetto al baricentro del fusto.
Nei casi in cui il terreno permette solo un leggero approfondimento delle radici, la specie non emette un fittone di adeguata potenza e l’apparato radicale risulta pertanto in tali casi formato da radici superficiali più o meno fini. Si tratta di un’evenienza tutt’altro che infrequente nelle zone in cui la specie viene messa a dimora, sfruttando le sue caratteristiche di grande frugalità ed il suo temperamento eminentemente pioniero. Le caratteristiche intrinseche dell’albero non vengono così, nei terreni ingrati in cui esso viene di regola adoperato, messe in grado di manifestare appieno le loro potenzialità. È così che al posto di pinete di Pino d’Aleppo formate da alberi vigorosi ed in buone condizioni di salute è spesso possibile vedere popolamenti senescenti ed in cattive condizioni, destinati a soccombere pressoché contemporaneamente in tempi relativamente brevi.
A ciò si aggiunge il fatto che in popolamenti boschivi le radici risentono di una reciproca concorrenza a livello ipogeo, che fa sì che ogni albero non sia messo in condizioni di esplicare al meglio le funzionalità del proprio apparato radicale.
Una tale concorrenza è scontata in qualsiasi soprassuolo forestale, ma nel caso del Pino d’Aleppo essa si presenta quanto mai esasperata.
In primo luogo, la specie, pur essendo eliofila, si dimostra in grado di sopportare senza grossi problemi – almeno per quanto concerne le capacità intrinseche della pianta, e non per quanto consegue in termini di stabilità del popolamento adulto o prossimo alla senescenza – un certa densità. Ciò avviene a livello epigeo, ma non a livello ipogeo, in cui le radici degli alberi di pinete fitte evidenziano un marcato deficit nel loro sviluppo. Ciò si traduce alla lunga in un’insufficiente azione di ritenuta da parte delle radici.

 
Foto n° 15 - Albero di Pino d’Aleppo radicato direttamente sulla roccia in una zona a substrato costituito da dolomia. (Foto: S. D’Alessandro).

Malgrado ciò, la specie dimostra di essere egregiamente in grado di attecchire praticamente sulla roccia, il che è un indice molto eloquente della sua capacità di vegetare su un substrato compatto. Va detto che gli esempi riportati qui a tale proposito sono stati documentati in località in cui il substrato non era composto da calcare, bensì da dolomia, ossia da roccia formata da carbonato doppio di calcio e magnesio, fatto questo che può dare origine a diverse supposizioni.
E’ possibile che tale substrato mineralogico, soggetto ad un “carsismo differenziato” che avrebbe interessato la sola porzione calcarea, abbia dato origine a discontinuità nella compattezza della roccia, discontinuità al cui interno si sarebbero potuti accumulare i prodotti di decomposizione e che avrebbero con la loro stessa presenza permesso l’incunearsi delle radici negli spazi lasciati vuoti dalla disgregazione del calcare fra le pareti di carbonato di magnesio, permettendo così un loro approfondimento “guidato” nella roccia.
A tale proposito è probabile che il Pino d’Aleppo non emetta dalle radici delle sostanze in grado di demolire la roccia, ma che sfrutti le fessure già presenti nella roccia stessa, insinuandovisi con le radici ed in seguito allargandola ulteriormente sotto l’azione meccanica delle stesse radici.
Allo stesso modo, la minore solubilità del carbonato di magnesio rispetto al carbonato di calcio può determinare, con il minor numero e la minore entità delle fessurazioni che si verificano nelle rocce dolomitiche rispetto alle rocce squisitamente calcaree, una minore possibilità per l’acqua di infiltrarsi nella roccia e di venire allontanata dal substrato in cui si approfondiscono le radici, con conseguenti minori problemi di aridità. Ciò spiegherebbe la possibilità per il Pino d’Aleppo di vegetare sulla roccia nuda, in assenza pressoché totale di substrato di origine organica che possa trattenere l’acqua, rendendola disponibile per il popolamento di Conifere.
Considerazioni di altro tipo derivano dal fatto che, con la sua presenza su terreni dolomitici, il Pino d’Aleppo appare in grado di tollerare senza eccessivi problemi la presenza del magnesio, al punto che, pur in assenza totale di substrato, è proprio nelle zone in cui c’è magnesio che l’albero appare in grado di vegetare benché radicato sulla roccia nuda.
Il magnesio provoca condizioni di estremo disagio ad altre specie, al punto da determinare, nelle zone in cui esso è presente, condizioni di meno spiccata concorrenza a causa della “sofferenza” indotta negli alberi dalla sua presenza. Tale effetto è così marcato che, paradossalmente, la presenza di magnesio è stata proposta da alcuni Autori per spiegare la possibilità di alcuni alberi di vegetare in zone ad essi non del tutto confacenti da un punto di vista ecologico.
Sarebbe infatti proprio la presenza del magnesio e della ridotta competitività da esso indotta nelle specie arboree ed arbustive più sensibili (la grande maggioranza) a permettere in alcuni casi l’insediamento di essenze forestali poco idonee alle altre caratteristiche ecologiche della zona.
Comunque stiano le cose e da quale fattore, o da quale complesso di fattori la cosa possa dipendere, il fatto da rilevare è che, a differenza di quanto ci si potrebbe aspettare considerando il temperamento calciofilo della specie, il Pino d’Aleppo appare in grado di vegetare sulla roccia nuda quando si tratta di substrati caratterizzati da dolomia, ma non quando vegeta in zone esclusivamente calcaree.(9)

 
 

9 - Sebbene impiegata validamente per il rimboschimento di pendici calcaree, la specie è infatti stata descritta come non in grado di rimboschire calcari compatti; in effetti, dai rilievi esposti in questo lavoro, il Pino d’Aleppo sembrerebbe essere più a suo agio su terreni derivanti da frazioni mineralogiche differenziate, per quanto a predominanza calcarea, sui quali esso sarebbe in grado di assicurare condizioni di maggiore stabilità.


 
Foto n° 16 – Pini d’Aleppo le cui radici sono piantate direttamente nella dolomia; il poco terreno presente, formatosi successivamente all’impianto dei Pini, è quello derivante dalla lettiera degli stessi Pini. Si noti inoltre la facile dilavabilità del terreno ad opera degli agenti atmosferici a causa delle caratteristiche morfologiche della zona e quindi la presumibile carenza di nutrienti, di cui i Pini non sembrano risentire . (Foto: S. D’Alessandro).

Allo stesso modo, gli alberi di Pino d’Aleppo non hanno paura di vegetare su terreni argillosi, come appare evidente dai popolamenti delle zone retrodunali, i cui frequenti ristagni d’acqua sono resi possibili proprio da una granulometria molto fine delle particelle che costituiscono il terreno. Per quanto non in grado di vegetare su terreni eccessivamente compatti, la specie è stata infatti validamente impiegata per rimboschire terreni argillosi altrimenti destinati a restare senza copertura forestale.
Avviene a volte, però, che il Pino d’Aleppo, nei casi in cui venga usato per rimboschire ambienti difficili sotto diversi punti di vista, possa non essere in grado di penetrare convenientemente con le radici nel terreno. Esistono diversi casi in cui la specie è stata infatti utilizzata per rimboschire terreni molto sottili, substrati in cui lo strato di terra utile per la penetrazione radicale si riduce a pochi centimetri di spessore, quando non addirittura per essere impiantato direttamente roccia nuda.
Ora, i limiti imposti dalle condizioni del substrato sono tanto più rilevanti quanto più la specie viene impiegata per il rimboschimento di terreni difficili: mentre specie esigenti possono essere impiantate, con poche eccezioni, su terreni dalle caratteristiche ben determinate, nel caso di specie frugali - che vengono impiegate spesso quale unica forma arborea in grado di costituire formazioni boschive su substrati inadatti alla sopravvivenza di altre specie - i condizionamenti e le limitazioni imposte dalla tipologia del terreno e/o dalle altre condizioni stazionali in generale si fanno più rilevanti e più evidenti sulle forme di accrescimento e sull’entità degli accrescimenti stessi.

 
 
Un albero non è un animale: fermi restando i parametri “fissi” che discendono all’albero dall’appartenenza alla sua specie, un albero non ha cioè una tipologia di accrescimento completamente preformata, ma modula di continuo i suoi incrementi e le direzioni dei suoi accrescimenti a seconda delle disponibilità ecologiche dell’ambiente e delle possibilità dell’albero di indirizzare la crescita in una direzione piuttosto che in un’altra. Si verifica di continuo un “intreccio”, fra le possibilità dell’albero determinate dal suo patrimonio genetico e le condizioni - favorevoli o limitanti - dell’ambiente in cui l’individuo si trova a vegetare.
Unainterazione del genere può manifestare a volte un’inaspettata variabilità alivello intraspecifico 10, in cui alberi di una dataspecie evidenziano modalità di crescita, tolleranze, “risposte”, ecc. chepossono anche, a volte, esulare in misura anche notevole dagli standard riconosciuti per la specie.
Alivello generale, l’accrescimento effettivo che una specie può dare, sia in termini assoluti che in termini di modalità di accrescimento, risente infatt iin misura anche notevole dalle situazioni contingenti: l’accrescimento teorico viene fortemente condizionato dalle condizioni stazionali, delle quali non si può non tenere conto.
Così, a livello di accrescimento radicale, il Pino d’Aleppo potrebbe essere in grado di modulare l’andamento delle branche radicali principali, che vanno di norma in direzione degli strati di terreno esplorabili; tale sviluppo radicale permette sì la sopravvivenza di un individuo in grado di sostentarsi sotto il profilo degli apporti di sostanze nutritive, ma non altrettanto efficacemente il suo ancoraggio stabile al terreno. Una caratteristica del genere va a tutto vantaggio della rapida copertura del suolo (che viene così interessato da chiome di alberi radicati su terreni non idonei ad assicurare una ottimale radicazione), ma va a scapito della stabilità futura dell’albero.
È questo un carattere che esprime appieno il carattere di “specie pioniera”classicamente ascritto al Pino d’Aleppo: esso ricopre rapidamente il suolo con le sue chiome, ma la sua copertura appare non destinata a durare a lungo in assenza di eventi che riportino il terreno alle condizioni di “pre-insediamento”, eventi di cui si parlerà in seguito.
In termini prettamente ecologici si tratta di una caratteristica tipica di unaspecie “r”, che è protesa ad assicurare la sopravvivenza e la diffusione a livello di specie, ma che poco rilievo dà all’ importanza di ogni singolo individuo; una specie “r” è capace di pullulazioni istantanee su substrati idonei, ma altrettanto rapidamente è soggetta a decrementi rilevanti della sua consistenza numerica. E queste sono entrambe caratteristiche che si rilevano entrambe abbastanza agevolmente nelle interazioni fra il Pino d’Aleppo e l’incendio.
Per le sue caratteristiche ecologiche il Pino d’Aleppo appare difficilmente in grado di succedersi a sé stesso: è rapidissimo nell’ attecchire praticamente su qualsiasi tipo di terreno e di coprire rapidamente il suolo con le chiome, ma non è in grado di assicurare una copertura stabile nel corso degli anni.
 

10 - la biodiversità intraspecifica è un po’ la “cenerentola” della biodiversità, in quanto nell’esaminare la ricchezza di un ambiente si tiene conto del numero di specie che vi vivono, ma mai anche della variabilità intraspecifica. Non si tiene conto, quindi, delle inaspettate risorse che una specie può avere grazie alla variegata complessità della sua informazione genetica; nel caso specifico delle essenza arboree, se la scelta del seme da impiegare nei rimboschimenti ha privilegiato quello proveniente da piante meglio formate, o in grado di dar vita ad accrescimenti sostenuti, non si è dato il giusto peso anche ad altre caratteristiche, che in un bosco naturale si verificano, e che tengano ad es.conto di fattori d resistenza ad avversità biotiche o abiotiche. In un ambiente naturale non sopravvive solo il più produttivo da un punto di vista esclusivamente umano, ma anche organismi che, benché non considerati sufficientemente remunerativi (a qualsiasi livello: sotto il punto di vista della produzione legnosa, di ossigeno, di trattenuta del suolo, ecc.), possono tuttavia essere potenzialmente in grado di fornire una risposta adeguata davanti ad avversità di vario genere, come e meglio di quelli considerati“ migliori”. Avviene anzi che il processo di selezione di piante utilizzate in coltivazione, come è il caso del Pino d’Aleppo, possa allontanare dalla specie quelle caratteristiche ritenute indesiderate e pertanto non meritevoli di essere propagate, con conseguente rarefazione delle sequenze geniche chec odificano determinati aspetti considerati non eccessivamente “convenienti” da un punto di vista umano, ma che costituiscono i mattoni sui quali si innesta la diversità intraspecifica.


 

I limiti all’accrescimento ed allo sviluppo sono infatti in tali casi molto più ristretti e, per quanto la specie impiegata possa essere frugale, essi fungono da severo freno alle possibilità che l’albero ha di svilupparsi al meglio delle sue possibilità.
Le radici, in quanto strutture preposte al sostegno ed all’assorbimento delle sostanze utili per il nutrimento della pianta, sono il mezzo attraverso il quale si esplicano le interazioni fra l’albero ed il substrato di attecchimento. È ovvio che, in terreni sterili o inadatti all’approfondimento radicale, gli alberi presenti manifesteranno carenze nutrizionali, fenomeni di sofferenza legati ad un insufficiente approvvigionamento idrico e/o gassoso ed instabilità meccaniche.
Per quanto riguarda i primi due aspetti, ossia la possibilità che gli alberi possano essere soggetti a carenze nutrizionali o legati ad insufficienti approvvigionamenti idrici e/o gassosi, essi  hanno ovviamente un’incidenza notevole sugli accrescimenti e sulla stabilità di un popolamento arboreo. Senza ovviamente ridurre la loro importanza nel determinare il successo o meno di un popolamento boschivo riguardo ai fini che a questo sono stati assegnati in fase di rimboschimento (in questo caso la costituzione di barriere protettive contro la salsedine ed i venti marini), c’è da dire che è proprio in base a tali fattori che viene effettuata la scelta della specie da impiegare.
In altre parole, è proprio in casi particolarmente difficili che si punta su specie di sicuro attecchimento, come appunto il Pino d’Aleppo. A patto, ovviamente, che il terreno sia presente in quantità sufficiente da permettere l’approfondimento radicale e consentire così alla pianta di esplicare quelle funzioni fisiche di ritenuta da cui dipenderanno in gran parte la stabilità dell’individuo e dell’intero popolamento, pena l’inevitabile declino dell’impianto, che potrà avvenire presto o tardi.
 D’altra parte, le difficoltà stazionali sono proprio quelle in base alle quali si programma la scelta dell’impiego di una o di un’altra specie: su substrati idonei si sceglierà ovviamente di ricorrere a specie più esigenti, ma in grado di dare accrescimenti più rilevanti e di fornire prodotti di maggior pregio sotto tutti gli aspetti (da quello produttivo di legname, ma anche da quello ambientale, da quello della biodiversità, da quello dello sviluppo del terreno e dell’ecosistema, ecc.); è su substrati difficili che la rosa delle specie a disposizione si riduce considerevolmente, imponendo la scelta obbligatoria di quella che, sia pure a costo di eventuali inconvenienti di vario genere, si presta a sopravvivere in tali ambienti.
In altre parole, se le condizioni stazionali e quelle pedologiche lo consentono, si fa ricorso a specie più “remunerative” sotto diversi punti di vista, mentre se le condizioni sono sfavorevoli si ricorre a specie meno “nobili”, ma di più sicuro attecchimento e di minore suscettibilità ad essere danneggiate da eventi perturbanti di vario genere o da condizioni ecologiche estreme. In una parola, specie più “rustiche”, capaci di coprire adeguatamente porzioni di terreno, ma altresì soggette ad   alcuni inconvenienti e, nel caso specifico del Pino d’Aleppo (ed anche del Pino marittimo), facilmente preda di incendi che possono assumere proporzioni catastrofiche.
In tutto quanto sopra non si è tenuto conto, se non marginalmente, di un fattore fondamentale prima solo accennato: lo spessore del substrato di attecchimento.

Tralasciando tutti gli altri aspetti, è proprio tale spessore che, nel permettere fisicamente l’approfondimento delle radici, consentendo alla pianta di assolvere ad una duplice funzione:

 
  • di ancorarsi al suolo raggiungendo quella stabilità indispensabile per l’elevazione di un albero caratterizzato da un fusto di svariati metri e da una chioma che offre una grande resistenza ai venti, importante fattore di instabilità con cui l’albero si trova a far fronte con cadenza quotidiana.
  • di assorbire acqua ed elementi nutritivi, oltre che di effettuare gli scambi gassosi da parte delle sue strutture radicali. Nella validità di questo ancoraggio dell’albero al suolo risiede una parte importante della sua stabilità meccanica e della resistenza che la pianta ha nel contrastare le sollecitazioni.
 

Sulla stabilità verticale dell’albero determinata dal peso di chioma e ramificazione e sulle sollecitazioni laterali da venti – quanto sopra per quanto riguarda esclusivamente il fattore di forma, senza analizzare le svariate implicazioni che a vari livelli esso assume.
Ad analizzare con maggiore dettaglio le varie conseguenze di una forma irregolare, diverse sono le considerazioni che possono scaturire, e tutte con carattere negativo per ciò che riguarda la stabilità e potenziale vetustà dell’albero e, di conseguenza, dell’intero popolamento.
In primo luogo, un fusto storto determina un irregolare ripartizione delle forze che agiscono su di esso. Il peso della sua parte aerea si scarica in maniera differenziata nelle varie direzioni, provocando sollecitazioni di compressione nella sua porzione interna al raggio di curvatura assunta dall’albero e sollecitazioni di tensione nella sua porzione esterna. Se a livello di alburno, più flessibile perché più ricco di acqua, ciò può entro certi limiti determinare una contrazione ed una tensione differenziati, a livello di duramen le stimolazioni - sebbene meno accentuate perché al centro del cerchio ideale che costituisce la sezione trasversale dell’albero e pertanto meno rilevanti in termini assoluti – tali sollecitazioni possono determinare la rottura del legno.
Si tratta infatti di sollecitazioni che possono avere diverse conseguenze a seconda dell’elasticità delle varie fibre, della loro tendenza ad allungarsi o a comprimersi, ecc. Una stessa sollecitazione può avere effetti diversi su un medesimo albero in funzione dell’età dell’albero stesso e, di conseguenza, della maggiore o minore elasticità dei tessuti che lo costituiscono. Con il progredire dell’età dell’albero tale elasticità tende infatti a diminuire.
Si verificano a volte distacchi fra i piani legnosi dei vari anelli concentrici, che perdono la loro compattezza e scorrono gli uni sugli altri, costituendo una serie di “tubi” concentrici che scorrono reciprocamente in maniera quasi indipendente gli uni dagli altri, con conseguenze negative evidenti sulla stabilità dell’albero

 

Sul baricentro della pianta con chioma regolare – una pianta di Pino dalla chioma regolare, ed in generale in possesso di tutte quelle caratteristiche che ne determinano la stabilità, è destinata a resistere meglio a sollecitazioni meccaniche di qualsiasi tipo e di qualsiasi provenienza.
In tali piante il baricentro del peso della chioma e dell’albero in generale non grava in una determinata direzione, ma è situato al centro del tronco della pianta stessa, il che determina una stabilità dell’albero dovuta al peso delle sue stesse strutture. In tali piante le sollecitazioni meccaniche sono di norma molto ben tollerate, e lo sono tanto più quanto maggiore è il peso della pianta. Una chioma che si inserisce ad una limitata altezza e che prosegue lungo il fusto della pianta con regolarità determina nell’albero una minore suscettibilità di danno rispetto a quella che determinerebbe una chioma inserita irregolarmente o asimmetrica o sbilanciata in una qualsiasi direzione.
Una chioma irregolare può essere determinata da diversi fattori, come ad es. la concorrenza, che costringe la pianta ad assumere conformazioni irregolari per accaparrarsi l’energia luminosa disponibile, o la conformazione del substrato, che con la sua accidentalità o la sua declività può costringere gli alberi ad assumere di portamenti che mal si accordano con la loro stabilità meccanica.
Di altro tipo sono le conformazioni assunte dalle piante in risposta a danni apportati da sostanze trasportate dal vento: in questo caso non è le ricerca di luce che spinge la chioma a svilupparsi in maniera asimmetrica, ma il danno a carico delle gemme più direttamente esposte all’azione dei venti. Un caso tipico è quello degli alberi cresciuti nelle vicinanze del mare.

 
Foto n° 17 – Caratteristico portamento “a bandiera” di un albero di Pino d’Aleppo soggetto all’influenza dei venti marini carichi di salsedine. La presenza nel vento di sostanze in grado di condizionare la conformazione delle chiome determina l’assunzione di forme irregolari da parte degli alberi, con conseguente fattore di instabilità e di maggiore suscettibilità di danni meccanici. (Foto: S. D’Alessandro).
 
 

Dalle chiome “a bandiera” determinate dall’effetto dannoso dei venti salmastri, o da quelle ridotte ad un pennacchio modellato sui rami superiori dell’albero dall’effetto della concorrenza, è impossibile aspettarsi ottimali caratteristiche di resistenza: esse agiscono nei riguardi del vento né più né meno di come agirebbe un paracadute che offre una grande resistenza all’aria, rendendo massime le sollecitazioni su un tronco di per sé sempre irregolare ed il più delle volte sbilanciato proprio nel senso delle sollecitazioni da vento.
In tali condizioni l’azione del vento dominante si assomma ad un altro importantissimo fattore di instabilità determinato dall’asimmetria del peso dell’albero che spesso grava proprio nella direzione del vento dominante, con conseguenze nefaste sulla stabilità dell’albero. Tali condizioni  accentuano i loro effetti negativi principalmente quando la pianta è in età avanzata ed oramai non più in grado di attuare una resistenza valida a tali fattori destabilizzanti. A causa della rigidità delle sue strutture legnose, un albero cresciuto asimmetricamente è destinato a non raddrizzarsi più ed a non recuperare mai la sua forma ideale; con il trascorrere del tempo, poi, l’assommarsi di strati legnosi ed il conseguenze incremento diametrico e di peso portano un ulteriore fattore di destabilizzazione che, unito alla riduzione delle capacità di reazione come conseguenza del suo invecchiamento, determinano condizioni di instabilità progressivamente maggiori.
Al contrario di quanto avviene in alberi simmetrici, il peso agisce qui come fattore sfavorevole, in quanto l’asimmetria dell’albero determina carichi che non si scaricano al centro del tronco, ma che appaiono sbilanciati e mettono a dura prova le strutture dell’albero che si inclinano maggiormente verso il basso. A ciò si aggiunge il fatto che l’aumento dell’età dell’albero porta inevitabilmente ad una riduzione dell’elasticità dei suoi tessuti a causa dell’incremento del duramen presente nelle sue strutture legnose, duramen che con il suo peso e la sua ridotta elasticità predispone maggiormente l’albero alla rottura rispetto ad un albero analogo ma con legno caratterizzato da un alburno di maggiore spessore.
Dopo essere passata attraverso l’inevitabile selezione che colpisce gli individui più deboli e meno efficienti nel dare una risposta efficace ai fattori negativi della stazione, con la senescenza la pianta vede infatti progressivamente declinare la propria energia vitale, e con essa la capacità di rispondere efficacemente alle sollecitazioni negative derivanti dagli svariati fattori ecologici avversi.
Ciò che è molto rilevante è che tale fase è raggiunta, nelle pinete coetanee monospecifiche, praticamente nello stesso tempo da tutti gli individui che formano il popolamento, con evidenti gravissimi problemi di instabilità delle intere pinete costiere.
A ciò si aggiunge il fatto che gli schianti avvengono spesso a carico di piante che hanno raggiunto ragguardevoli dimensioni e che pertanto nel cadere influenzano negativamente altri alberi circostanti, determinando anche in essi un’ulteriore causa di instabilità.
Schianti che interessano grandi alberi del popolamento liberano improvvisamente notevoli estensioni prima interessate dalla chioma dell’albero caduto, con importanti discontinuità lungo tutto il continuum delle chiome del bosco. Tali improvvise esposizioni al sole ed ai venti causano una repentina perdita di stabilità degli alberi circostanti, i quali precedentemente si erano sostenuti gli uni agli altri e che si trovano ora d’un tratto esposti alle intemperie ed alle avversità meteorologiche.
All’interno di un bosco gli alberi sono spesso in possesso di fusti eccezionalmente sottili, con ramificazione che si espande solo fino a breve distanza dal fusto e che spesso forma un groviglio con i rami degli alberi vicini traendo da ciò un duplice effetto contrastante, di concorrenza per l’approvvigionamento di energia luminosa e di sostegno reciproco. Sono alberi con  chioma ridotta ad un pennacchio all’estremità superiore del fusto che ne accentua le caratteristiche di suscettibilità alle sollecitazioni da vento e di conseguenza l’instabilità.
Tale caratteristica è quanto mai spiccata nei popolamenti di specie eliofile, quale il Pino d’Aleppo è; tali popolamenti arborei, essendo formati da individui che tendono ad accaparrare il maggior quantitativo di luce disponibile, profondono gran parte delle loro energie vitali nel permettere alle chiome di raggiungere i piani superiori del bosco. Mentre in alberi di Pino eccezionalmente vigorosi la necessità di assicurare un adeguato accrescimento longitudinale non va a sostanziale discapito di alcun altro accrescimento, in alberi dalle caratteristiche normali ciò determina un eccezionale impiego di energia e di risorse nutritive, al punto da “sacrificare” all’accrescimento longitudinale gli incrementi diametrali che, non risultando commisurati all’altezza raggiunta dall’albero, sono alla base dell’instabilità “posturale” dell’albero. All’interno delle pinete tutti gli alberi risentono in misura maggiore o minore, in ogni caso sempre notevole, della concorrenza intraspecifica che ne mette a dura prova la vigoria. In tali pinete, all’interno dei popolamenti, gli alberi fungono da sostegno gli uni agli altri e tutti ondeggiano sincronicamente sotto l’azione dei venti.
È frequente rilevare nelle pinete di Pino d’Aleppo la presenza di numerosi alberi in possesso di diametri minori che si appoggiano sistematicamente agli alberi circostanti che fungono in questo modo da tutori “involontari” di tali alberi dominati, ai quali assicurano un limitato sostegno ma dai quali ricevono un’importante causa di instabilità, in quando la ventosità impone agli alberi entrati in contatto reciproco delle sollecitazioni orizzontali che, lungi dall’essere più efficacemente contrastate, si sommano. Ciò va spesso a scapito della pianta dominante, in quanto la dominata, di norma più flessibile,(11) “scarica” le sollecitazioni orizzontali del vento su questa.
È spesso possibile vedere, anche nel chiuso delle pinete, alberi che hanno perso il loro sostegno e che si curvano, non più in grado di resistere ad una concorrenza che si è fatta troppo pressante e troppo oppressiva. Il famoso detto “mi piego ma non mi spezzo” non può, nelle piante arboree, essere impiegato come sinonimo di maggiore stabilità, tutt’altro: per gli alberi delle pinete mediterranee esso potrebbe essere riproposto nei termini di “mi piego, assumo un portamento anomalo, sostenendomi agli altri alberi, perdo in stabilità e, in caso di brusco isolamento, sono destinato a sradicarmi o a spezzarmi proprio a causa della mia conformazione irregolare”.
Sono, in altre parole, alberi che sarebbero destinati a non sopravvivere che per poco tempo se isolati, in quanto la loro notevolissima instabilità li porterebbe in breve a terminare il loro ciclo vitale anziché giovarsi delle nuove condizioni di maggiore insolazione.

 

11- La maggiore flessibilità di tali piante deriva loro da una duplice caratteristica: in primo luogo dalla loro conformazione caratteristica che, caratterizzata da un elevato rapporto H/d, consente loro di cedere a tali sollecitazioni di flessione con maggior facilità. Un altro ordine di motivi è dato dalla ripartizione in duramen e alburno, sbilanciato a favore dell’alburno rispetto ad un albero dominante coetaneo dello stesso popolamento.


 
A stabilità dell'albero come risultante di due forze che agiscono con momenti diversi
Come accennato in precedenza, la stabilità dell’albero è massima quando il suo fusto presenta una conformazione regolare ed è strutturato in maniera tale che il peso dell’albero stesso si scarichi verticalmente sul suolo, senza gravare sulle capacità di resistenza a flessione o a trazione del legno a causa di un andamento irregolare o sbilanciato in una qualsiasi direzione. Ogni deviazione dalla forma ideale sottopone le strutture di sostegno dell’albero a sollecitazioni che sono causa di una instabilità intrinseca dell’albero stesso.
Il peso agisce come elemento stabilizzante dell’albero quando l’albero stesso è normoconformato e simmetrico, ma, se l’albero è asimmetrico e sproporzionato, lo stesso peso agisce, in toto o in parte, come elemento destabilizzante.
A questo fattore di instabilità se ne aggiunge un altro che, a differenza della forza-peso, non agisce in direzione del suolo ma agisce lateralmente, in direzione parallela al suolo stesso: la forza del vento.
Queste due forze che agiscono in modo differente si combinano nel determinare importanti fattori di destabilizzazione del singolo albero e dell’intero popolamento arboreo.
L’azione destabilizzante della forza-peso aumenta all’aumentare dell’inclinazione dell’albero verso il suolo, ossia al diminuire dell’angolo, a partire dall’angolo retto, che il fusto forma con la superficie terrestre. Il valore di questa componente è uguale a zero per l’albero regolarmente radicato, che svetta perpendicolare al terreno, per tendere poi ad aumentare all’aumento della pendenza dell’albero fino al valore angolare di 0°, in cui l’albero è atterrato.
Viceversa, la resistenza offerta al vento è massima quando l’albero è perpendicolare al suolo – e di conseguenza alla direzione del vento, soffiando di norma quest’ultimo in direzione parallela alla superficie terrestre – e tende a diminuire all’aumentare dell’inclinazione dell’albero stesso, che ne riduce la superficie esposta al vento. In tal caso il valore di tale causa di instabilità è massimo quando l’albero è perpendicolare alla superficie del suolo e tende gradatamente a diminuire all’aumentare dell’inclinazione dell’albero. Per contro, venti che spirano dalla provenienza opposta a quella verso cui pende l’albero costituiscono un fattore stabilizzante.
Da quanto esposto sopra appare evidente che la maggiore o minore stabilità dell’albero segue un andamento sinusoidale a seconda dell’inclinazione dell’albero stesso, determinando quest’ultima fattori di segno opposto nei confronti delle sollecitazioni che pervengono, a seconda che si tratti di sollecitazioni derivanti dal peso o dalla forza del vento.
 
 
 

Fig.1 – Rappresentazione grafica di due delle forze stabilizzanti e destabilizzanti cui può essere soggetto un albero. Su un substrato supposto piano il vento, che agisce di norma come fattore destabilizzante, può agire da fattore stabilizzante nel caso in cui spiri da direzione uguale a quella verso cui l’albero è sbilanciato. Il peso dell’albero, che è di norma un fattore stabilizzante, diviene spesso invece un fattore destabilizzante quando il fusto è asimmetrico e pende da un lato.

 
Da un punto di vista trigonometrico, indicato con alfa l'angolo che il fusto dell’albero forma con il suolo, il valore dell’instabilità dovuta al suo peso seguirà l’andamento della curva che esprime il variare di cos alfa, mentre il fattore destabilizzante determinato dal vento assumerà valori rappresentabili graficamente con la funzione di sen alfa.
Da ciò deriva che l’effetto destabilizzante del peso sarà tanto maggiore quanto maggiore sarà l’angolo alfa di inclinazione dell’albero; viceversa, l’effetto del vento sarà massimo quando il tronco sarà infisso perpendicolarmente al suolo, per poi diminuire all’aumentare dell’inclinazione dell’albero stesso.
Tuttavia il discorso, lungi dall'essere lineare, non può non tener conto di numerose variabili che influiscono sulla rilevanza dell’una o dell’altra sollecitazione.
 
ALCUNI TIPI DI DANNI MECCANICI
 

a) – LEGATI ALLA GRAVITÀ E/O AL VENTO

Stroncamenti  - si hanno quando le sollecitazioni in senso orizzontale, o quelle che procedono in direzione verticale, quando gli alberi hanno chiome, rami e/o tronco asimmetrici, determinano sul fusto delle tensioni maggiori di quelle che il fusto stesso sia in grado di sopportare. Vengono messe in gioco forze, che si oppongono alla resistenza del tronco, in possesso di una cospicua componente orizzontale, del tipo cioè che influiscono sulla stabilità del fusto: il loro effetto è infatti massimo quando la loro direzione è perpendicolare alla direzione del fusto. Si rileva a tale proposito che sia il peso dell’albero – cha ha una direzione verticale, dall’alto verso il basso – che la resistenza offerta dal vento possono offrire importanti fattori di destabilizzazione orizzontale, il primo quando l’albero è asimmetrico o sbilanciato ed il secondo praticamente sempre per sua stessa natura.
La presenza di una chioma che offre una resistenza al vento può avere un peso notevole nel determinare una instabilità dell’albero, ma anche contribuire a massimizzare, per la sua irregolarità intrinseca o per la posizione assunta dopo il “movimento” dell’albero, il fattore di instabilità dovuto al peso della stessa pianta.
Nel caso della rottura del tronco il piano di frattura è perpendicolare all’andamento delle fibre, che risultano quindi spezzate lungo il loro asse; tale inconveniente avviene pertanto quando il carico di rottura supera il limite di resistenza a flessione delle fibre stesse.

Foto n° 18 – Stroncamento di albero di Pino d’Aleppo. (Foto: S. D’Alessandro).
 
 

Possono verificarsi altresì casi di rotture di importanti branche (grossi rami) che sorreggono porzioni rilevanti di chioma, con destabilizzazione dell’assetto dell’albero e conseguente asimmetria, e pertanto, incremento della sua instabilità. Questo fenomeno può essere la conseguenza di situazioni di crescita anomala delle branche dovuta a svariate cause, come ad es. la “liberazione” di un albero de un lato mediante la soppressione di uno o più individui concorrenti: l’improvviso afflusso di luce da quella direzione può permettere l’accrescimento di un ramo tramite la stimolazione della sua gemma terminale. Il ramo diviene pertanto eccessivamente lungo e, potendo disporre di adeguato rifornimento luminoso, anche  grosso, elemento questo che determina sì una maggiore saldezza dell’albero, ma paradossalmente anche una sua instabilità a causa del suo peso. Su un ramo vitale di grandi dimensioni esposto ad un ottimale approvvigionamento luminoso  ci sarà un buono sviluppo di fogliame,  con conseguente ulteriore instabilità meccanica dovuta all’azione del vento.

 
Foto n° 19 – tronco dal quale si è distaccato un grosso ramo. (Foto: S. D’Alessandro).
 
Foto n° 20 – tronco dal quale si è distaccato un grosso ramo. (Foto: S. D’Alessandro).
 
 

Può accadere pertanto che grosse branche si stacchino dal fusto, con conseguente determinazione di passaggi che permettono l’accesso ai vasi dell’albero da parte dei parassiti, e di un improvviso sbilanciamento della chioma, che sarà pertanto più facilmente soggetto sia a danni da vento causati dal nuovo tipo di resistenza che la chioma offrirà, resistenze che non sarà più ripartita uniformemente in tutte le direzioni ma che agirà prevalentemente da un lato, che ad instabilità meccaniche determinate da un diversa e meno simmetrica distribuzione dei pesi nello spazio.
In tal caso la linea di frattura partecipa delle diverse direzioni rispetto alla fibre: è perpendicolare alle fibre stesse all’interno del ramo che viene rotto, ma risulta parallela alle fibre del fusto in corrispondenza dell’inserzione del ramo stesso. In tal caso le prime fibre che si rompono, ossia quelle più esterne al ramo, esercitano un’azione di “scollatura” le une dalle altre staccandosi reciprocamente ed esponendo le fibre proprie del ramo all’azione di gravità e vento. Quando anche tali fibre cedono si ha la rottura del ramo, che con il suo peso “trascina” per un buon tratto le fibre legnose esterne poste al disotto dell’inserzione del ramo stesso, con scopertura del legno del tronco che viene esposto all’azione degli agenti esterni per un buon tratto.
Spesso in tali punti si ha la formazione di carie, marciume, ingresso di patogeni, ecc., che determinano un’ulteriore causa di instabilità in un albero già soggetto ad un importante trauma meccanico.

 

Incurvamenti - Non sempre un albero lasciato improvvisamente isolato e non in grado di assicurarsi un ottimale sostegno è tuttavia soggetto a troncamento o sradicamento: può infatti avvenire che, specie in alberi dominati, ai quali la scarsità do energia luminosa ha imposto un modello di crescita ridotto e non in grado di sintetizzare materiale legnoso in quantità adeguata, si verifichi un incurvamento dell’albero su sé stesso lungo il proprio fusto, che è evidentemente in possesso di elasticità sufficiente a determinare questo irregolare andamento. Si tratta di alberi dominati, cui la strenua concorrenza ha imposto un modello di crescita finalizzato a percepire l’energia luminosa dei piani superiore delle chiome privilegiando la crescita in altezza a scapito di quella diametrale. In tali alberi, che si elevavano sorreggendosi agli alberi adiacenti, l’improvviso isolamento non determina lo schianto, ma un incurvamento del fusto che può portare la porzione apicale a poca distanza da terra. In tali alberi l’indice di rastremazione è di norma molto elevato, prossimo a 100, inefficace a sostenere il peso della porzione aerea. Inoltre, perchè ciò si verifichi devono essere soddisfatte alcune condizioni: da un lato, la già menzionata elasticità del fusto, che deve essere in grado di incurvarsi senza spezzarsi. Ciò è tipico delle piante giovani, ma non solo: è stata descritta negli alberi, oltre che un’età cronologica, corrispondente all’età effettivamente raggiunta dall’albero, anche un’età fisiologica, che consiste nell’età che l’albero dimostra di avere in base alla vigoria della sua risposta.(12)
Una tale differenziazione di età non è stata descritta per il Pino d’Aleppo, per quanto potrebbe essere forse invocata per spiegare la presenza di piante indubbiamente adulte cronologicamente, che dimostrano di avere nei tessuti un’elasticità tale da non determinare la rottura neanche davanti a sollecitazioni estreme, quali appunto quelle in grado di incurvare il fusto fino a terra. In tali tronchi è probabile che il duramen sia molto scarso o del tutto assente, e che tutta la massa legnosa sia costituita da alburno, in grado di assicurare quelle doti di elasticità indispensabili per un effetto del genere.

 

Sradicamenti – Si hanno quando la forza, principalmente quella del vento, agisce sull’albero superando la capacità di ritenzione delle radici. Anche in questo caso la componente principale della forza destabilizzante è quella orizzontale, ma qui si vengono a determinare una diversa influenza determinata dall’assenza o presenza di piante circostanti in grado di frenare, con la loro stessa presenza, la caduta dell’albero.
Per quanto riguarda specificamente il Pino d’Aleppo, i cui popolamenti sono fitti, le radici non appaiono in grado di formare una adeguata base d’appoggio perché ostacolate dalla grande presenza di altre radici tutt’attorno all’albero. In secondo luogo, la stabilità orizzontale viene solo di rado offerta, in quanto, su substrati superficiali – la regola, nelle località costiere in cui al specie è stata impiantata – l’albero non appare assolutamente in grado di approfondire le sue radici, che si limitano pertanto a radici superficiali, per lo più sottili e di limitata lunghezza a causa della concorrenza intraspecifica. In tali condizioni, appare evidente che il popolamento usufruisce della “stabilità di massa” determinata dal complesso degli alberi che, pur limitandosi ed ostacolandosi, si sostengono a vicenda, scaricando le sollecitazioni orizzontali su quegli alberi di confine di cui si è già parlato. Appare pertanto chiaro che l’improvvisa comparsa di una radura determinata dalla caduta di un albero per un qualsiasi motivo, innescherà dapprima un processo di indebolimento di tutta la cenosi arborea circostante, e successivamente una maggiore disponibilità di luce, terreno per ancorarsi e per trarre sostanze nutritive, che permetterà successivamente alle piante di confine di tale radura di espandere le proprie radici ed i propri rami verso il centro della radura stessa.
Nel contempo, si libereranno spazi in cui le plantule di Pino potranno sopravvivere, determinando una nuova generazione di Pini all’interno di una pineta che appare il più delle volte vecchia o avviata verso una fase di senescenza in cui gli schianti si faranno più frequenti con il passare del tempo l’incremento dell’età degli alberi.
La stessa comparsa di schianti mette a dura prova le piante adiacenti, e non è infatti infrequente vedere, lungo i margini di radure determinate da schianti, altre piante già atterrate o che si avviano verso una improcrastinabile fine, accentuata dal protendersi dei loro rami e dei loro usti verso la nuova fonte di energia luminosa, in uno sbilanciamento degli alberi dal loro asse di gravità e di conseguenza in una loro volta per volta maggiore instabilità.

 

12) - Ciò è ben noto nell’Abete bianco (Abies alba), specie in cui alcuni alberi possono restare dominati per molti anni, manifestando ovviamente incrementi ridotti; alberi del genere sono in grado a volte di riprendere attivamente la crescita una volta “liberati” delle piante sovrastanti, manifestando un’elasticità di crescita ad età anche sostenute, esattamente come se la loro età cronologica fosse sfasata rispetto all’età fisiologica di cui dimostrano di essere in possesso.


 

b) – LEGATI AD ALTRI FATTORI

Altri tipi di danni legati all'azione del vento: fenomeni osmotici e “corrasivi”

In primo luogo, la collocazione delle pinete di cui si tratta, cioè la riva del mare, fa sì che ben raramente ci siano degli ostacoli che permettano di attenuare i venti o di offrire riparo da essi. Inoltre, nelle località marinare ci sono spesso dei venti dominanti che soffiano con velocità ed intensità maggiore di altri; le direzioni di tali venti sono molto significative ai fini della stabilità del popolamento arboreo. Inoltre, la stessa direzione di provenienza dei venti stessi fa sì che essi risultino più o meno ricchi di sostanze saline che condizionano le forme di accrescimento delle piante arboree.
Ciò porta alla formazione di fisionomie caratteristiche: spesso gli alberi risulteranno curvati nella direzione dei venti dominanti, sia a causa del fattore meccanico di disturbo dato dall’ostacolo meccanico del vento, sia a causa del fattore chimico dato dalla presenza nel vento di particelle in sospensione dall’effetto negativo nei confronti dell’albero.
Il modellamento dell’albero avviene in modi diversi a seconda del fattore di contrasto: nel caso dell’azione meccanica del vento, si potranno avere incurvamenti preferenzialmente in una direzione, con conseguente allungamento delle fibre legnose nella zona di tensione e di compressione dalla parte opposta del fusto.
Se sull’albero agiscono sostanze chimiche in grado di incidere negativamente sulle porzioni più delicate, ossia sulle gemme, si verificheranno danni a carico delle gemme stesse. Così, nel caso di aerosol di sostanze contenenti tensioattivi, come ad es. nel caso di saponi presenti sulla superficie del mare e portati in sospensione dal vento, le gemme si spaccheranno a causa dell’abbassamento della tensione cellulare; nel caso di sostanze igroscopiche come il cloruro di sodio, il sale maggiormente contenuto nell’acqua marina, le gemme perderanno i loro liquidi interni essiccandosi; nel caso di sostanze trasportate dal vento in grado di provocare danni meccanici, come ad es. la semplice sabbia, si potranno avere delle scalfitture sulla cuticola esterna. In tutti questi casi, il risultato sarà quello della morte o del danneggiamento delle gemme della chioma poste in corrispondenza della provenienza dei venti carichi di tali sostanze, con un conseguente minore accrescimento in detta direzione.
Si formeranno alberi dai fusti incurvati privi di rami nella direzione del mare, e provvisti di una chioma “a bandiera” che si protende asimmetricamente in direzione opposta al mare.

 

Danni meccanici conseguenti a fulmini

Il fulmine caduto su un albero determina un danno più o meno grave, che resta evidente di solito per tutta la durata della vita dell’albero. Si evidenzia con una scollatura fra le fibre che percorre il fusto per tutta la sua lunghezza a partire dal punto in cui l’albero è stato colpito dal fulmine.
Per quanto il danno apportato dal fulmine si ascrive classicamente ad un’altra tipologia di danni cui può essere soggetto un albero, ossia ai danni da incendio e non a quelli meccanici, il fulmine con la sua azione meccanica determina una perdita di coesione fra le fibre che costituiscono l’”ossatura” del fusto, il che si traduce necessariamente in una riduzione della capacità fusto stesso di far fronte a sollecitazioni di altro tipo, quali appunto la forza di gravità e quella dei venti.

Foto n° 21 - Albero di Pino d’Aleppo incurvatosi in seguito all’azione di un fulmine, che ha provocato fra le fibre del tronco un distacco ben visibile nella foto; l’incurvamento del fusto è avvenuto in direzione perpendicolare alla discontinuità provocata dal fulmine. (Foto: S. D’Alessandro).

In corrispondenza della porzione di fusto in cui si è verificata la discontinuità fra le fibre, queste sono pertanto messe in grado di scorrere reciprocamente le une sulle altre per un tratto più o meno lungo. Se la discontinuità si è verificata su una porzione di tronco perpendicolare ad una tensione agente sul fusto, questo sarà più facilmente soggetto a incurvarsi: venendo a mancare, o ad essere fortemente attenuata, la tensione interna derivante dalla coesione fra le fibre, la forza peso che grava asimmetricamente porterà con maggior facilità ad un allungamento delle fibre soggette a tensione e ad una compressione di quelle soggette a compressione, con una sollecitazione differenziata a seconda del lato di tronco considerato.
L’effetto di una tale discontinuità è documentato dalla foto seguente, in cui si rileva come un fulmine abbia rappresentato l’evento scatenante dell’ incurvamento di un albero del piano dominato, già caratterizzato di per sé da un fusto irregolare e da un elevato valore del rapporto H/d (ved. nota n° 8).
In pratica un fulmine determina una discontinuità delle fibre adiacenti al distacco, fibre che possono quindi allungarsi e contrarsi indipendentemente le une dalle altre; se da un lato rispetto a tale discontinuità le sollecitazioni determinano un allungamento delle fibre, queste non saranno contrastate dalle fibre adiacenti la cui sollecitazione è di compressione, ma tale comportamento anisotropo potrà verificarsi separatamente nei tratti del tronco in corrispondenza dei lembi opposti della ferita prodotta dal fulmine.
Per contro, va detto che quella appena esposta sia da considerarsi un’eventualità piuttosto rara, in quanto un effetto come quello sopra documentato può verificarsi a carico di alberi poco stabili da un punto di vista meccanico, alberi dominati che di norma trovano spazio ai livelli inferiori del bosco, le cui chiome arrivano solo in parte al piano superiore o non vi arrivano affatto.
Da un punto di vista statistico, pertanto, considerando che le probabilità che un albero di bosco venga colpito da un fulmine sono molto limitate, appare chiaro che le possibilità che ciò si verifichi a carico di un albero dominato e poco esposto sono davvero trascurabili.

 
 

3. L’incendio della pineta costiera mediterranea (da “All’ombra delle Sughere”, op. cit., modif.)

Foto n° 22 - Pino d'Aleppo: particolare della chioma ; sono ben visibili gli aghi, facilmente infiammabili, e gli strobili, che disseminano abbondantemente dopo il passaggio di un incendio. (Foto: S. D’Alessandro).

Nelle nostre regioni mediterranee esistono, oltre al Pino d’Aleppo, due altre specie di Pini : il già  ricordato Pino marittimo (Pinus pinaster) ed il  Pino domestico ( Pinus pinea ). Sono in tutti i casi specie ben "attrezzate" per far fronte ai periodi di siccità che caratterizzano in misura notevole le nostre stagioni estive : si tratta infatti di alberi in grado di far fronte sia alla traspirazione che alla scarsità di acqua, al punto da costituire gran parte dei boschi di origine artificiale che sono diffusi lungo le coste.
Le attitudini sono ovviamente diverse, trattandosi di specie distinte e dalle esigenze ecologiche ben differenziate. Si tratta in tutti i casi di specie eliofile oltre che, come si è detto, xerofile o xerotolleranti.
Così, mentre il Pino domestico è in possesso di una certa ubiquitarietà in fatto di terreni, non altrettanto può dirsi per il Pino marittimo, il quale preferisce terreni poveri di calcio ; il contrario avviene per il Pino d'Aleppo, il quale si adatta senza eccessivi problemi anche a terreni estremamente calcarei. Il concetto di "specializzazione" riguardo ai terreni si è andato ridimensionando con il tempo, in quanto il Pino marittimo, inizialmente definito come una specie del tutto intollerante ai substrati calcarei, ha dimostrato di poter sopravvivere bene e di riprodursi efficacemente anche in terreni calcici : oggi, in seguito ad esperienze di coltivazione su terreni ricchi di calcio, si tende a considerare questa specie come intollerante ai soli terreni provvisti di bicarbonato solubile ( HCO3-).(13)

 
 

13) - Il discorso potrebbe però non seguire l’automatismo con cui a volte lo si raffigura in termini comuni, in quanto potrebbe non essere indice di una generalizzata tolleranza al calcio maggiore di quella che un tempo si accordava alla specie, ma potrebbe essere legato ad una sopravvivenza di carattere residuale  non troppo dissimile da quella proposta più avanti per spiegare la risposta del Pino d’Aleppo e dello stesso Pino marittimo al fuoco.


 
  
specie

 terreni
siccità
fuoco



Pino domestico
Preferisce quelli sabbiosi e freschi, ma vegeta quasi ovunque, con eccezione di quelli troppo compatti ed acquitrinosi. L'optimum corrisponderebbe a suoli silicatici, sabbiosi ricchi di sostanza organica. Suoli eccessivamente argillosi sono poco adatti perché impediscono lo sviluppo delle radici.
I semenzali eludono l'aridità con il rapido approfondimento del fittone, che alla fine del primo anno super il metro ; inoltre, l'ipocotile sviluppa un callo tuberoso che difende la piantina germinante dal riscaldamento superficiale del suolo. In condizioni di laboratorio, il P. domestico risulterebbe tanto resistente all'aridità quanto il P. d'Aleppo ; però, a stomi chiusi, il primo dimostra maggiori perdite per traspirazione cuticolare. In conclusione, il P. domestico tollera l'aridità quasi quanto il P. d'Aleppo, però l'optimum per lo sviluppo ed una adeguata probabilità di longevità si ha solo su stazioni con oltre 800 mm di pioggia, oppure su terreni ben riforniti di acqua.
Non possiede alcun "adattamento" nei confronti del fuoco.


Pino marittimo
Svariati tipi di terreno, anche quelli sciolti silicei o siliceo-argillosi, anche a reazione fortemente acida ; in passato considerato calcifugo, oggi si tende ad abbandonare questo concetto.Del tutto intollerati i suoli argillosi. Nei rimboschimenti su suoli calcarei non sono tuttavia rari fenomeni di clorosi, con presenza di eccezioni che taluni attribuiscono all'azione bilanciante di sufficienti disponibilità di potassio.
Rispetto al Pino d'Aleppo si dimostra incapace di riprendersi dopo aver dovuto sostenere alti valori di pressione osmotica ; rispetto al Pino domestico è incapace di eludere l'aridità perché ha l'apparato radicale meno profondo.
La rinnovazione è molto marcata dopo gli incendi anche se la specie non ha coni serotini ma solo una apertura dei coni molto graduale durante l'estate. L'incendio è il modo con cui la specie può trovare il terreno sgombro da concorrenti.


Pino d'Aleppo
Poco esigente nei riguardi del suolo, si adatta a tutti i tipi di terreno, compresi quelli calcarei, aridi; non si adatta invece a quelli argillosi compatti o troppo umidi.
La resistenza all'aridità è resa evidente dalle precipitazioni ridotte di alcune sue stazioni : fino a 300-400 mm annui. Nel passaggio ad un regime di siccità, il controllo stomatico è tale da ridurre la traspirazione fino ad 1/10 di quella originale ; la sopravvivenza dei semenzali è possibile anche con umidità ridotta all'11 % e con deficit di potenziale idrico innalzato a 10 bar : si tratta di valori comuni a quelli di alcune specie subdesertiche.
L'adattamento a rinnovarsi dopo gli incendi è molto spiccato rispetto agli altri Pini. Difatti il Pino d'Aleppo ha molti coni serotini, cioè con chiusura ritardata per molti anni dopo la maturazione. Essi si aprono tutti insieme perdendo molto seme sotto l'effetto del calore di un incendio. La germinazione del seme avviene tuttavia a temperature non alte, e quindi soprattutto dall'autunno alla primavera. In quanto specie pioniera, il Pino d'Aleppo è ospite di cenosi derivanti da degradazione ( soprattutto per incendi ripetuti ) dove forma popolamenti più o meno stabili.

Tab. 2 - Differente risposta a fattori ambientali di diverso tipo nel piano basale mediterraneo. La tabella è tratta da “All’ombra delle Sughere – lo strano caso delle Sughere vegetanti nel Brindisino apre uno spiraglio sull’insospettata variabilità degli esseri viventi” – in bibliografia.

 

I due Pini strettamente mediterranei sono alberi che offrono la risposta a tutti i tipi basali del Mediterraneo, fornendo il Pino d'Aleppo la migliore soluzione al rimboschimento di zone litoranee calciche, alcaline, ed il Pino marittimo l'analoga soluzione per i terreni poveri di calcio ed a reazione acida. Oltre a garantire una copertura perenne lungo tutto l’arco dell’anno, sono le essenze che meglio sopportano le difficili condizioni (che per la maggioranza delle specie arboree sono deleterie) delle zone a ridosso del mare.
Per quanto, come detto, la propensione o l’intolleranza per determinati substrati pedologici sia stata ridimensionata, queste due specie offrono quasi un esempio di vicarianza nei riguardi del terreno.
Il "comportamento" delle due specie nei confronti del fuoco, tuttavia, è molto simile : entrambe si giovano infatti del passaggio del fuoco, che distrugge sì il soprassuolo in piedi, ma ne favorisce in maniera incredibile la rinnovazione.(14)
A livello ecologico le due specie si configurano come estremamente eliofile, giovandosi di intense illuminazioni in tutti i loro stadi di sviluppo. La loro esigenza in fatto di energia luminosa è molto notevole anche allo stadio di semenzale - stadio caratterizzato da una maggiore sciafilia in quasi tutte le altre specie -, al punto che la rinnovazione di queste due Conifere è praticamente impossibile sotto le pinete, ma si limita agli spazi scoperti rappresentati dalle radure, dai margini del bosco e dagli spazi lasciati liberi dalla caduta delle piante adulte.
I semenzali di Pino ( presenti in numero limitato sotto la copertura delle chiome delle piante adulte ) sono in numero molto elevato alla piena luce del sole, favoriti anche dalla maggior velocità di degradazione della lettiera formata dagli aghi delle piante adulte, che permane a lungo indecomposta sotto copertura ed offre all’interno del bosco un "letto di semina" tutt'altro che ottimale.

 

14) si legga, a proposito di questa paradossale affermazione, quanto già scritto a proposito della presenza di rocce  magnesiache nel terreno e del loro ipotetico  ruolo nel determinare la presenza di specie altrimenti assenti in territori caratterizzati dalle stesse condizioni ecologiche.


 
Foto n° 23 – Fuoco di superficie in una pineta di Pino d’Aleppo (Foto: S. D’Alessandro).
 
 

Per queste ed altre ragioni la pineta presenta delle difficoltà a perpetuarsi, in quanto abitualmente un popolamento di Pini, soprattutto se di origine artificiale ( la regola, nelle nostre regioni costiere ) si presenta formato da piante della stessa età, con rinnovazione scarsa e di poco avvenire - fuorché nelle situazioni favorevoli sopra elencate - perché questa è destinata a soccombere in breve tempo a causa della scarsità di luce. Al di sotto della pineta si insediano specie sciafile come il Leccio, o di più rapido insediamento come quelle della macchia mediterranea, che possono ostacolare - quando non rendere del tutto problematica - la rinnovazione del Pino anche in assenza di copertura da parte delle chiome sovrastanti.  
La pineta di Pini mediterranei appare infatti un popolamento tipicamente pioniero, che si presta con facilità a ricoprire il suolo nudo ed a colonizzare ambienti scoperti, ma che non appare con altrettanta facilità in grado di perpetuarsi nel tempo, cedendo essa di regola il posto ad altre specie.
A venire in aiuto delle pinete è, inaspettatamente, un fattore "ecologico" di tipo distruttivo, di fronte al quale gli alberi di Pino appaiono del tutto inermi ed anzi nei cui confronti diverse loro caratteristiche appaiono protese a favorirne l'attecchimento e l'avanzamento in favore di una distruzione pressoché totale del soprassuolo : il fuoco.

Foto n° 24 - Pineta di Pino d'Aleppo percorsa da un incendio non ancora completamente spento, che ha provocato la distruzione quasi totale del soprassuolo arboreo ; è ben visibile il fumo che fuoriesce dalle chiome degli alberi. (Foto: S. D’Alessandro).

Dovunque si guardi, tutto nei Pini sembra favorire il fuoco. Tutte le strutture, tutti i caratteri ecologici delle specie, e finanche le loro propensioni, paiono favorire il suo passaggio.
In primo luogo, il loro vegetare in ambiente basale mediterraneo li espone al passaggio del fuoco che in detta zona appare estremamente frequente, facilitato dalla concomitanza stagionale di due fattori ecologici che ne rendono quanto mai agevole la propagazione : il calore e la siccità. Nel periodo estivo, e già in quello primaverile, si verifica infatti un innalzamento delle temperature che, unito alla siccità determinata dalla permanenza sullo stretto di Gibilterra della zona di alta pressione sulla Azzorre, determina l'effetto congiunto di calore e di siccità, con effetti a dir poco favorevoli sulla diffusione degli incendi: in tale periodo gran parte della vegetazione è infatti secca, costituendo facile esca per il passaggio del fuoco, che si propaga con estrema facilità.
Come appare intuitivo, a livello di ogni singola pianta il passaggio del fuoco sarà tanto meno "traumatico"(15) quanto più questa pianta sarà dotata di strutture di protezione che la mettono al riparo dagli incendi : presenza di cere ignifughe, cuticole più o meno spesse, sughero, ecc. Allo stesso modo, saranno facilitate quelle piante arboree che per le loro esigenze ecologiche tendono a vegetare a debita distanza l'una dall'altra, con il risultato che un incendio sviluppatosi a livello della chioma di un albero sia impossibilitato a percorrere l'intera superficie boschiva per mancanza di contatto fra le chiome stesse.
Nei Pini considerati, tutto sembra andare a rovescio: analizzandone le caratteristiche ecologiche e fisiologiche, ci si rende conto di essere di fronte non ad "adattamenti" per limitare i danni da incendio nelle pinete, ma di trovarsi al contrario al cospetto di tutta una serie di accorgimenti che sembrano fatti apposta per favorire il passaggio del fuoco e la distruzione completa del soprassuolo boschivo.

 

15) Siamo ovviamente a livello ipotetico, dato che nel corso di un incendio boschivo “totale” tutto viene distrutto, dagli alberi delle specie più infiammabili a quelli appartenenti alle specie più “refrattarie” al passaggio del fuoco.


 

Ogni struttura del Pino appare infatti ricca di componenti chimici facilmente infiammabili : dalle radici, al fusto, alle foglie. Al passaggio del fuoco tutto viene distrutto : un incendio "di chioma" che abbia percorso completamente una pineta lascia dietro di sé solo un ammasso di resti vegetali completamente bruciati, senza che una singola pianta si sia potuta salvare.
Neanche il terreno viene risparmiato: la presenza di cospicue quantità di resina sotto forma di aghi di pino a doversi stati di decomposizione fa sì che sottoterra, e per profondità anche rilevanti, il fuoco maceri, devastando tutto l'ambiente ipogeo e "cuocendo" inesorabilmente gli organismi ivi esistenti.
Perfino le radici del Pino hanno un ruolo non trascurabile nell'assicurare la propagazione del fuoco, in quanto la loro ampia estensione superficiale determina un veicolo di trasmissione del fuoco, che procede insidiosamente sottoterra. A volte un incendio, spento anche da qualche giorno nella sua porzione epigea, si riaccende spontaneamente ed improvvisamente a partire proprio dal sottosuolo, dove le radici resinose avevano continuato a bruciare, non viste e indisturbate.(16)
Negli incendio dei boschi di Conifere, e di Pini in particolare, niente si salva, né vegetali né animali. Ogni forma vivente poco mobile compresa nell'area percorsa dal fuoco è destinata a soccombere : Insetti, Anfibi, Rettili, Uccelli implumi ( non va dimenticato che il periodo primaverile e quello estivo, in cui divampa la stragrande maggioranza degli incendi boschivi che funestano i boschi mediterranei, è quello in cui l'avifauna mette al mondo i piccoli ), ed anche Mammiferi di diverse specie ( Insettivori, Roditori, Chirotteri, Mustelidi, ecc. ) vengono sorpresi nelle loro tane o sugli alberi dall'avanzare delle fiamme.
Si ha in poche parole una devastazione completa, in cui il fuoco viene favorito nella sua opera di distruzione e di drastica riduzione della diversità locale sia a livello autotrofo che eterotrofo.
Eppure, inaspettatamente, a partire dalle superfici percorse dal fuoco si verifica una rinascita vegetale che definire "esplosiva" non è inappropriato : la distruzione della vegetazione consente infatti la disponibilità di spazi liberi, esposti alla piena luce del sole, in cui i semi del Pino trovano un ottimo ambiente per germinare. Già pochi anni dopo il passaggio di un incendio si assiste ad un'esplosione di giovani Pini che vegetano in condizioni di estrema densità.

 
Quando la pineta bruciata ( di Pino marittimo, n.d.r. ) contiene molto seme ( come per una fustaia di più di 25-30 anni ) l'incendio può essere seguito da una ondata di rinnovazione in massa anche se tutte le piante si sono seccate ( Cutini e Mercurio, 1987 ). L'insediamento del novellame si protrae per 1-2 anni e deriva dal seme diffuso dai coni surriscaldati oppure da quello rimasto nei coni delle piante secche. Dopo 1-4 anni si può arrivare a novelleti folti con più di 100.000 piantine per ettaro, che sopprimono e fanno quasi scomparire la rinnovazione delle specie arbustive. >>   ( da G. BERNETTI, " Selvicoltura speciale ", op. cit. )
 

16) - Questo dato di fatto rende conto di quanto siadestituita di fondamento la storia relativa a fantomatiche possibilità disalvezza dal fuoco per le Testuggini terrestri americane, le quali sisottrarrebbero alla morte certa dell’incendio… scavando delle buche, veri epropri rifugi sotterranei, in cui si nasconderebbero in attesa del passaggiodel fuoco. Chi ha combattuto gliincendiboschivi sa bene di cosa si tratta e conosce bene le possibilità di salvezzaper gli esseri viventi meno mobili, tutti, che si trovano nel bel mezzo delbosco nel corso dell’imperversare delle fiamme.


 
Foto n° 25 - "Esplosione" di Pini d'Aleppo in seguito al passaggio in un incendio: è visibile ciò che resta dei tronchi carbonizzati degli alberi andati bruciati ed il rigoglio dei Pini nati in seguito all'incendio. (Foto: S. D’Alessandro).

Una densità di 100.000 piantine per ettaro, incredibilmente alta, è una densità che per gli alberi forestali non si verifica in natura in nessun altro caso al di fuori degli incendi.
Quanto detto per il Pino marittimo può essere riferito, con la sola differenza di una densità iniziale meno vistosamente accentuata, al Pino d’Aleppo, con in più il fatto che, proprio a causa della minore concorrenza intraspecifica, la mortalità è per questa specie meno accentuata nelle fasi iniziali della vita del popolamento, con conseguente maggiore conservazione della diversità genetica intraspecifica e, pertanto, di maggiori chanches nella formulazione di “risposte” idonee ad eventuali perturbazioni occorse all’ambiente.
In tal modo, ad un popolamento di Pini vecchio e deperiente si sostituisce un giovane popolamento coetaneo in grado di garantire, almeno per diversi decenni (fuoco permettendo!), la permanenza della specie in quel territorio.
Per tutta la superficie interessata dall'evento catastrofico dell'incendio si assiste ad un "riscoppio" della vegetazione di Pino, la cui rinnovazione trae paradossalmente un vantaggio dall'evento catastrofico prima subito. Gli strobili di Pino, aprendosi per il calore dell'incendio, disseminano abbondantemente, mentre il tegumento del seme da parte sua permette la sopravvivenza dell'embrione anche dopo il passaggio del fuoco.
Quasi che le speciePinus halepensis  o Pinus pinaster si siano "adattate" al fuoco, in maniera non o poco dissimile da ciò avviene per i progressivi "perfezionamenti adattativi" reciproci delle popolazioni di prede e predatori che vivono nello stesso territorio, l'incendio delle pinete provoca la rinnovazione completa del soprassuolo, determinando la scomparsa delle piante del "vecchio ciclo" e la costituzione di un popolamento coetaneo e rigoglioso, di età di poco inferiore all'epoca del passaggio del fuoco e con densità iniziali che non hanno eguali in alcun popolamento forestale.
Ad analizzare, dati alla mano e con un minimo di spirito critico questo stato di cose, si resta perplessi.
Perché, checché se ne dica, il fuoco non è un elemento naturale.  
Un fuoco non divampa per "autocombustione" dovuta alle temperature : malgrado l'opinione comune, queste sono sempre - e di gran lunga - insufficienti per innescare un incendio.
I soli fuochi naturali sono quelli che avvengono in prossimità dei vulcani o quelli che possono divampare in seguito a fulmini.
Si tratta in entrambi i casi di eventi occasionali.
L'eventualità che un incendio scaturisca a causa di un'eruzione vulcanica è ben reale, ma è legata ad un ben precisato contesto geografico ( la vicinanza di un vulcano ) e come tale non può essere invocata per spiegare gli "adattamenti" al fuoco di tutta una specie arborea.
L'evenienza poi che il fuoco possa essere innescato da un fulmine è forse solo poco più che teorica, come dimostra la quantità di alberi colpiti da fulmini visibile nei nostri boschi : spesso, nessuno di tali alberi presenta tracce di bruciatura - segno che il fulmine sembrerebbe produrre un danno fisico legato alla sua energia elettrica, ma solo più raramente, forse, un innalzamento termico tale da portare all'innesco di un incendio - ; in secondo luogo, un fulmine è il più delle volte accompagnato da un acquazzone, che determinerebbe un immediato spegnimento dell'incendio eventualmente scaturitone.

 

Nella quasi totalità gli incendi derivano infatti, direttamente o indirettamente, dall'attività umana, che con la sua opera volontaria (incendi dolosi) o involontaria (incendi colposi) determina l'insorgenza di incendi che possono rivelarsi anche catastrofici.
L' "affinità" di questi Pini con il fuoco non sembrerebbe pertanto avere le basi naturali per potersi essere verificata, in quanto non appare veritiera una spiegazione in termini "adattativi" di una modifica così rilevante e sostanziale (una catastrofe, senza mezzi termini): in primo luogo, non ci sono i tempi che la teoria prevederebbe come necessari, ed in secondo luogo non è pensabile che gli alberi di Pino abbiano "elaborato" una strategia di sopravvivenza ( a livello di popolamento che insiste sul territorio ) a scapito degli individui che si trovano di fronte all'incendio, individui che vengono irrimediabilmente bruciati. Per ammettere un'eventualità del genere bisognerebbe supporre una "capacità previsionale" a lungo termine, che non riguarda la sopravvivenza dell'individuo, ma le sua generazioni future ! Qui non sopravvive l'individuo o il gruppo di individui, ma questi soccombono tutti, indistintamente, così come indistintamente a tutti viene data la possibilità di riprodursi “ex post” dopo il sopravvenire di un incendio; qui non c'è spazio per i presupposti dell'adattamento, non c'è il tempo necessario previsto, e - particolare da non sottovalutare - non c'è neanche un nesso logico che possa spiegare in termini adattativi l'acquisizione di una tale propensione.
La spiegazione potrebbe forse essere cercata nella direzione opposta, ossia in direzione di una selezione, fra tutti i genotipi già presenti nella specie, che abbia operato in favore proprio di quelli in grado di perpetuarsi con il fuoco ed a scapito di tutti gli altri che non sono stati in grado di assicurare dopo l'incendio una rinnovazione in grado di coprire validamente il terreno. Sono infatti penalizzati quegli individui i cui semi sono andati completamente distrutti dopo un evento incendiario, ma anche quelli dai cui semi hanno avuto origine individui che non sono stati in grado di competere con la forte concorrenza determinata dall'improvviso rigoglio post-incendio della vegetazione mediterranea non arborea.
Il fuoco determina dopo il suo passaggio un improvviso aumento dei nutrienti all'interno del terreno: questi si rendono prontamente disponibili per le piante, che hanno tutto da guadagnare da un terreno lasciato scoperto oltre che ricco di elementi essenziali ! E' facile quindi prevedere l'insorgere di una estrema concorrenza - che prontamente si verifica - dopo il passaggio di un incendio.
In altre parole, il relativamente recente impiego dal fuoco nelle attività umane ( fosse esso legato a pratiche colturali, pastorizie, condotte a fini venatori o anche semplicemente per disboscare e lasciare spazio ad insediamenti abitativi o produttivi umani ) avrebbe determinato una selezione istantanea a favore dei soli genomi di Pini in grado di garantire, grazie al possesso di semi con tegumenti refrattari all’incendio duri all’interno degli strobili e della sopravvivenza degli embrioni al loro interno, una risposta efficace all'incendio. Tutti i genomi non in possesso di siffatto tipo di informazioni sarebbero scomparsi.
Ora, va appena rilevato come tali caratteri non si riferiscono a caratteri necessari alla specie nell’ambiente naturale, dato che l’incendio, con le debite eccezioni cui prima si è brevemente accennato, non è un fattore naturale. È un elemento che investe l’ambiente naturale nella sua interezza e nella sua più intima composizione, ma esso è, con poche eccezioni, sempre determinato dall’uomo. Pretendere una qualsiasi forma di adattamento al passaggio degli incendi di origine naturale, che possono verificarsi con una qualche presumibile regolarità solo nei pressi dei vulcani, sarebbe come pretendere di riscontrare un adattamento delle piante che vivono in zone in cui i terremoti sono frequenti e che pertanto si potrebbero ipoteticamente ritrovare, a cadenze medie dell’ordine delle decine o delle centinaia di anni, con le radici esposte all’aria a causa delle crepacciature prodotte dai terremoti. Niente di tutto ciò è stato mai verificato e neanche lontanamente ipotizzato.
Il fuoco è il fattore più severo cui possa essere soggetto un ecosistema. Mentre per altre pressioni dell'ambiente possono essere ammesse e valorizzate risorse individuali consistenti in una maggiore resistenza a questo o quel fattore naturale, contro il fuoco non c'è niente, se non una serie di difese passive che possono al massimo, nel caso dei soli incendi non troppo rilevanti, portare ad una riduzione del danno a livello individuale. Ciò può poi non essere risolutivo : anche la presenza, ad es., di spessi strati di sughero possono non sortire l'effetto adeguato, in casi di incendi molto violenti.
Già, perché di fronte al fuoco, quello dell'incendio boschivo "totale", niente si salva. Si assiste ad una paurosa riduzione della biodiversità. E tale riduzione si verifica sia a livello di specie che a livello intraspecifico.
Mentre tutte le pressioni ambientali di altro genere consentono la presenza di "sacche di sopravvivenza" in grado di permettere la sopravvivenza anche ad esseri viventi le cui propensioni potrebbero non essere il plus ultra per contrastare i fattori ambientali critici (facendo salve in questo modo altre propensioni che possono tornare utili come risposta a fattori di stress di altro tipo), nel caso del fuoco, quello vero, non si salvano neanche i più spiccatamente dotati di strutture di protezione contro lo stesso fuoco.
La sopravvivenza viene al più accordata a livello di specie: la generazione successiva, quella venuta dopo l'insorgenza del fuoco, potrà sì perpetuarla, ma a costo di una selezione che non ha niente di logico (o di “finalistico”, in termini dell’espressione di caratteri idonei per poter sopravvivere ad un nuovo evento selettivo). Ad avere la possibilità di proporre le proprie informazioni genetiche alle generazioni successive non saranno, cioè, gli individui in una qualche misura maggiormente adatti all'ambiente, ma unicamente quelli in grado di originare semi dal tegumento duro che possano proteggere adeguatamente l'embrione interno dal calore dell'incendio. E, com’è intuitivo, una tale caratteristica non integra necessariamente anche quella di dare origine a organismi ben conformati, idonei ad affrontare periodi siccitosi, in grado di vivere in terreni sterili, ecc.

 
Foto n° 26 – NO COMMENT (L’IMMAGINE SI COMMENTA DA SOLA !). Distruzione totale del soprassuolo in un popolamento misto di Pino d’Aleppo ed Eucalyptus. L’incendio boschivo è un evento criminoso gravissimo, le cui conseguenze possono essere inimmaginabili in termini di organismi – sia animali che vegetali - uccisi, superfici interessate, incolumità per gli esseri umani, in primo luogo gli stessi Addetti alle operazioni di spegnimento. (Foto: S. D’Alessandro).
 
 

La ‘selezione’ imposta dal fuoco non opera sulla diversa informazione genetica degli organismi e che pertanto nessun carattere imprime al popolamento sopravvissuto, giacché questo è formato da individui che non hanno in sé nessuna caratteristica peculiare che li renda funzionalmente differenti dagli organismi andati bruciati. A fronte di innumerevoli possibilità derivanti dal ventaglio di combinazioni potenzialmente offerte dal patrimonio genetico della specie d'origine, nel corso dell’incendio tutto viene infatti annullato, in favore dei soli organismi in grado di assicurare non già la propria sopravvivenza, ma quella della discendenza in base ad un unico carattere - quello della resistenza del tegumento al fuoco - che nessun valore, nessun senso ha in ambienti naturali lontani da vulcani.
Il fatto che un incendio sia seguito a distanza di tempo più o meno breve dal rigoglio della vegetazione - solo di alcune specie però : quelle cui è stato dato il nome di "pirofile", letteralmente "amiche del fuoco" ( sic ! ) fa perdere forse di vista il nettissimo impoverimento di informazione genetica che il fuoco provoca, impoverimento non valutabile e non quantificabile. E definitivo.
Quello degli incendi è un fenomeno tristemente famoso che si ripropone con frequenza ciclica in tutti gli ambienti in cui ci sia la presenza di combustibile vegetale, vivo o morto, al suolo.
Come prodotto della sintesi clorofilliana, il legno e qualsiasi altro materiale vegetale accumula nei suoi tessuti carbonio per mezzo della fotosintesi clorofilliana, con formazione di lignina e di cellulosa, entrambi prodotti facilmente infiammabili.
Non c’è vegetale che non bruci: qualsiasi componente della categoria degli autotrofi, sia esso un albero, un arbusto o una pianta erbacea, se messo davanti al fuoco è facile esca in grado di fungere da combustibile e di bruciare.
Non esistono specie non infiammabili: in presenza di un incendio non c’è struttura protettiva, non c’è stadio vegetativo che permetta ad una pianta di sfuggire alla distruzione.
Esistono, è vero, specie meno infiammabili di altre, ma l’effetto della loro maggiore refrattarietà alle fiamme consiste in una ridotta velocità di avanzamento del fronte di fuoco determinata dalla presenza di strutture meno suscettibili, in termini relativi, ad infiammarsi, ma pur sempre combustibili.
Allo stesso modo, esistono specie che per le loro caratteristiche e le loro esigenze ecologiche si trovano a vegetare in condizioni tali da rendere difficoltoso l’attecchimento e lo sviluppo di un incendio, ma ciò è legato a fattori contingenti, e non  corrisponde ad una oggettiva barriera all’espansione dell’incendio.
Fra le specie del primo tipo si ricordano qui il Larice giapponese, la Robinia e, fra le specie vegetali non arboree, il Ficodindia, il cui effetto è quello di costituire delle fasce che, inframmezzate in filari a specie arboree più facilmente infiammabili, possono ritardare la velocità di avanzamento delle fiamme rendendo più efficaci le operazioni di spegnimento.
Fra quelle del secondo tipo si può menzionare il Faggio, che per le sue esigenze in fatto di habitat e per le sue caratteristiche ecologiche vegeta in ambienti piovosi in cui la sua presenza determina la costituzione di boschi fitti nei quali la flora del sottobosco stenta a penetrare ed in cui l’accumulo di sostanza organica indecomposta al suolo è reso poco pericoloso dal punto di vista degli incendi grazie all’umidità ambientale.
Comunque stiano le cose, un vegetale è, quasi per definizione, un combustibile. Resti di vegetali vissuti milioni di anni fa e trasformatisi in petrolio conservano inalterata questa caratteristica degli organismi fotosintetici, carboni “fossili” risalenti a svariati millenni sono tuttora validi nel fornire combustibile, materiale vegetale a diversi stadi di degradazione è in grado di bruciare.
Le condizioni di maggiore o minore infiammabilità sono determinate da svariati fattori, quali la temperatura, il contenuto di umidità dei tessuti, il vento, ecc. Fra questi, la presenza di sostanze facilmente infiammabili è un fattore di prim’ordine, ed il Pino d’Aleppo è ricco di resina che si infiamma con grande facilità, offrendo un’esca privilegiata al diffondersi del fuoco al punto che lo spegnimento di un incendio di Pineta è di gran lunga più difficile dello spegnimento di un incendio che stia interessando qualsiasi altra formazione arborea.
Ad analizzare qualsiasi struttura, qualsiasi componente solida, liquida o volatile del Pino d’Aleppo, si rileva come essa sembri fatta apposta per permettere la completa distruzione dell’albero e del soprassuolo boschivo interessato dall’incendio.
Sembra infatti che, lungi dal determinare l’adozione di un qualsiasi mezzo di resistenza, il passaggio del fuoco, così frequente nei territori in cui vegeta il Pino d’Aleppo, abbia avuto come risposta l’affermazione di caratteristiche che vanno nella direzione opposta, ossia quella di essere completamente incendiato, se si tratta di un albero, o completamente distrutta, se si tratta di una pineta.
Per contro, il Pino d’Aleppo, così come pure il Pino marittimo, è prontissimo a rinnovarsi dopo il passaggio di un incendio: gli strobili caduti a terra e non distrutti dal fuoco rilasciano semi che sfruttano l’assenza di vegetazione concorrente e la disponibilità di materiale nutritivo di cui il fuoco permette il ricircolo.
La cosa impone alcune considerazioni.
Fatte le debite precisazioni, e cioè che il fuoco non è un elemento dell’ambiente naturale e che non si sviluppa per cause legate alle elevate temperature, ma che è strettamente legato all’azione umana con la sola eccezione dei fuochi divampati in seguito alle eruzioni vulcaniche, è possibile far  risaltare in tutta la sua evidenza  l’oggettiva impossibilità che un organismo manifesti degli “adattamenti” ad un elemento completamente distruttivo. Che cioè l’organismo, non in grado (al pari di tutti gli altri) di fronteggiare l’evento distruttivo, abbia adottato una serie di accorgimenti volti a sfruttare una sorta di “effetto parafulmine” in grado di determinare il rapido abbruciamento dell’intero popolamento seguito dalla rapida esplosione della rinnovazione dell’albero che tanto ha fatto nel determinare un pronto e totale attecchimento dell’incendio.
La seconda considerazione è legata alla stessa natura distruttrice del fuoco, davanti al cui passaggio nessun organismo è in grado di contrapporre una strategia efficace che non sia di tipo passivo e comunque inefficace davanti a un incendio di vaste proporzioni. Ciò comporta automaticamente un drastico impoverimento a carico della diversità, in termini genetici, del popolamento, un impoverimento  non valutabile e non quantificabile. E definitivo.

 
Foto n° 27 – Fitto popolamento di Acacia di origine australiana (Acacia sp.) insediatasi in seguito ad un incendio. (Foto: S. D’Alessandro).
 
Acacie australiane

Altre specie arboree dimostratesi in grado di proliferare dopo il passaggio di un incendio avvenuto nel piano basale mediterraneo sono le Acacie australiane, anch’esse importate per garantire una copertura arborea a territori estremamente difficili sia a causa dell’aridità che della salinità.
Per quanto utilizzate in misura minore del Pino d’Aleppo, le Acacie rientrano fra le specie che sono state impiegate in Italia per rinsaldare le dune. Il loro temperamento ecologico appare improntato all’eliofilia, se non altro per ciò che concerne la loro tendenza a ricoprire il terreno nudo, ma risultano in grado di sostenere densità anche rilevanti nei loro popolamenti. A tale proposito, si rileva come, a differenza del Pino d’Aleppo, tali alberi abbiano in fase giovanile una spiccata tendenza a ramificarsi sin dal basso, con l’emissione di numerosi fusticini dall’apparato radicale e con conseguente occupazione del suolo fin dai primi livelli della vegetazione. Anche quando, in fase adulta, sviluppano un fusto, la chioma non insiste mai ad eccessiva altezza dal suolo, il che, unito ad una certa densità fogliare, svantaggia le altre specie arboree eventualmente insediatesi sotto copertura. Tali specie si riducono il più delle volte al solo Pino d’Aleppo, dato che l’Acacia viene impiegata per rimboschire terreni a ridosso del mare, quando non proprio schiettamente sabbiosi, in cui sono ben pochi gli alberi in grado di vegetare.
Tuttavia, le difficoltà di attecchimento di alberi di altre specie nei dintorni delle formazioni ad Acacie potrebbero, per quanto mai descritti in letteratura, essere riconducibili ad ulteriori fattori sfavorevoli che nei pressi delle formazioni ad Acacia si sommano alle difficoltà ambientali, fattori che potrebbero essere ricondotti all’emissione di sostanza allelopatiche da parte delle stesse Acacie.  
 

3. Il Bosco inteso come comunità

Si intenderà qui il bosco inteso come comunità di alberi della stessa specie, in quanto le pinete di protezione sono tipicamente monospecifiche (monospecifiche, coetanee ed artificiali); se la scelta fosse ricaduta su specie diverse – qualora possibile –, essa avrebbe determinato forse una più variegata risposta degli alberi delle diverse specie alle avversità del bosco. Ma forse anche più problemi di gestione.
All’interno di un popolamento boschivo è possibile distinguere una notevole differenza fra le caratteristiche degli alberi che lo compongono. Ciò può essere dovuto a cause di diverso genere: l’informazione genetica del singolo albero, la maggiore o minore competizione con gli alberi prossimi ad esso, le caratteristiche “stazionali”, ossia relative al territorio in cui tali alberi radicano.
Per quanto riguarda l’ultimo carattere, è fin troppo evidente che alberi cresciuti su terreni fertili avranno modo di manifestare appieno le proprie potenzialità di accrescimento; allo stesso modo, all’interno di un popolamento quegli alberi che radicano su discontinuità del terreno dovute ad affioramenti rocciosi, ristagni d’acqua, presenza circoscritta di zona di minore fertilità, ecc., manifesteranno una meno spiccata tendenza ad accrescersi, e viceversa quelli radicati in condizioni particolarmente favorevoli.
Tali zone sono ovviamente dislocate senza alcuna regola all’interno di un bosco: non è possibile, senza conoscere il territorio su cui si prevede impiantare il bosco, prevedere in quali zone gli alberi avranno minore o maggiore propensione a crescere.
Esiste tuttavia una zona particolare in cui è possibile prevedere a priori che, a parità di tutte le altre condizioni, si svilupperanno alberi eccezionalmente vigorosi: il margine del bosco. Tralasciando tutte le considerazioni che è possibile fare a proposito della valenza ecologica di questa zona di confine, nel margine del bosco si verificano delle condizioni di eccezionale favore per gli alberi che insistono su di essa.
Nel margine del bosco si instaurano delle situazioni che è impossibile trovare all’interno del bosco: gli “alberi di margine” saranno gravati da una minore concorrenza a tutti i livelli: meccanico, fisico, energetico, nutritivo…
All’interno del bosco la competizione si verifica in tutte le direzioni: a sud, a nord, ad est, ad ovest, sotto terra ed in alto, a livello delle chiome. Nel margine del bosco la concorrenza, sia quella ipogea che quella epigea, è invece limitata ad una sola direzione: quella in cui insiste il popolamento boschivo.
Privi della concorrenza esercitata dalle chiome degli alberi adiacenti nella direzione che guarda verso l’esterno, gli alberi di margine usufruiscono della piena illuminazione, che permette loro di approfondire la chioma fino in basso. Il fusto è spesso provvisto di rami lungo tutta la sua lunghezza, con formazione di un rilevante apparato fogliare fotosinteticamente attivo e pertanto in possesso di una notevole “profondità di chioma”.
Quali che siano le caratteristiche genetiche degli alberi radicati al confine del popolamento – con l’eccezione ovviamente di individui “tarati”, non in grado di per sé di sopravvivere neanche in assenza di concorrenza, o in condizioni di ridotta concorrenza, - gli alberi di margine sono caratterizzati da diametri superiori rispetto a quelli degli altri alberi del popolamento, da una regolare ripartizione dei diametri alle varie altezze, da una migliore conformazione dal fusto e di conseguenza da una ben maggiore stabilità meccanica.
L’altezza di tali fusti è di norma inferiore a quella degli individui radicati all’interno del popolamento, perché gli alberi di margine non hanno la necessità di raggiungere gli strati superiori delle chiome per usufruire di un idoneo approvvigionamento luminoso, essendo i loro rami esposti per buona parte alla piena luce solare. Questa caratteristica degli alberi di confine mette anche gli alberi immediatamente adiacenti in condizione di poter limitare, sia pure di poco, la crescita in altezza, e così via, a cascata, al punto che è possibile vedere come i margini del bosco, per una larghezza di diversi metri, siano caratterizzati da alberi in possesso di un’altezza di norma inferiore a quella degli alberi più interni.

 

Le classificazioni arboree

Sono state elaborate allo scopo di fornire una chiara ed obiettiva descrizione dei singoli individui che formano il bosco.
Mentre in un bosco di specie sciafile tutti gli individui hanno probabilità di sopravvivere, in uno di specie eliofila, come la pineta di Pino d’Aleppo, gli individui rimasti indietro non hanno la possibilità di raggiungere i piani alti per assicurarsi un adeguato rifornimento di energia luminosa.
In un popolamento come la pineta coetanea  una classificazione che tiene conto della posizione sociale dei singoli alberi è pertanto quanto mai indicativo delle condizioni e del futuro di ogni albero, in quanto quelli che appartengono per un qualsiasi motivo (cronologico perché piante giovani, fisiologico perché legato al loro ciclo di sviluppo o patologico perché vittime di malattie o avversità abiotiche) a un piano inferiore sono destinati,  ameno di un eventi di qualsiasi natura che le liberi dall’ombreggiamento delle chiome delle piante più alte, a restare indietro ed a deperire.
Si riporta di seguito la classificazione del Kraft.

 

CLASSIFICAZIONE ARBOREA DI KRAFT (da P. PIUSSI, op. cit)

1. alberi predominanti, con chioma eccezionalmente vigorosa.
2. Alberi dominanti, con chioma normalmente sviluppata; costituiscono la maggior parte del soprassuolo principale (e quindi sono il termine di riferimento per le altre classi)
3. Alberi scarsamente codominanti, con chiomati forma naturale, ma non completamente sviluppata, ristretta, spesso con qualche sintomo degenerativo (apici marginali secchi, rami angolosi).
4. Alberi dominati con chioma più o mano ridotta, compressa lateralmente o bilateralmente, o a sviluppo unilaterale. Gli alberi dominati possono essere interposti, con chioma compressa dalle vicine ma non compenetrata con esse e parzialmente sottoposti con chioma libera superiormente, compenetrata con le vicine, o secca nella parte inferiore.
5. Alberi completamente sottostanti con chioma ancora vivente oppure morta o moribonda
Le prime tre classi fanno parte del soprassuolo principale, le altre due del soprassuolo accessorio.
 

Il maggiore approvvigionamento di energia luminosa mette gli alberi di confine in grado di avere una maggiore efficienza fotosintetica rispetto agli alberi interni del popolamento, da cui deriva una maggiore propensione all’accrescimento ed al mantenimento di forme regolari e non condizionate da insopprimibili necessità di impiegare tutte le risorse in vista dell’unico fine che è la sopravvivenza (che si identifica, per le piante interne del bosco, con il raggiungimento dell’illuminazione minima per far fronte ai propri processi vitali).
A livello ipogeo le radici degli alberi di confine sono libere di penetrare nel terreno, essendo la concorrenza solo da un lato, il che permette così all’albero di ancorarsi adeguatamente al terreno e di trarre da esso gli elementi nutritivi senza eccessivo sforzo. Ciò si traduce ovviamente anche in una più valida azione delle radici anche a fini statici.
Da quanto sopra derivano delle considerazioni molto importanti ai fini della stabilità dell’intero popolamento.
Si è già rilevato come, all’interno di quel “bosco puro, coetaneo ed artificiale di specie eliofile” impiantato a poca distanza dal mare che identifica con poche possibilità di errore le pinete mediterranee, esista una situazione di grave instabilità meccanica in cui le singole piante non appaiono, in linea di massima, grado di sopravvivere se isolate bruscamente.(17)

 
Foto n° 28 – Albero di Pino d’Aleppo cresciuto allo stato isolato. Si nota la chioma che si sviluppa fin dal basso, grazie all’assenza di concorrenza. Un albero isolato è un albero che non risente della concorrenza interspecifica da nessun lato; un albero di margine di un popolamento è una via di mezzo fra un albero isolato ed un albero che vegeta all’interno di un bosco, dato che le condizioni di assenza di concorrenza si verificano in questo caso solo da un lato. (Foto: S. D’Alessandro).
 
 

17) - Come avviene ad es. nel caso di diradamenti o, più frequentemente, di schianti dovuti all’instabilità del popolamento in fase adulta.


 

È scontato chiedersi, considerato quanto sopra e considerato altresì che le piante esercitano una competizione reciproca che ne mette a dura prova la stessa esistenza, come possa un bosco del genere, il più delle volte radicato su substrati che ne rendono difficile l’approfondimento radicale, sopravvivere senza schiantarsi, sradicarsi, stroncarsi o atterrarsi.
Come possano, cioè, sostenersi vicendevolmente piante che non appaiono in grado di far fronte nemmeno alle loro necessità individuali. Quando un bosco come quello sopra descritto è interessato da turbini di venti forti tutte le chiome trasmettono le sollecitazioni da vento ai fusti, che si curvano e ondeggiano sincronicamente.
La garanzia di stabilità è legata in buona parte alla presenza, ai margini del popolamento, di piante dalle caratteristiche profondamente diverse dalle altre piante che vegetano all’interno del popolamento stesso.
Se anche le piante di margine (che ricevono da un solo lato le sollecitazioni provenienti dagli altri alberi e sono prive dall’altro lato di piante cui potersi eventualmente poggiare), fossero nelle stesse condizioni delle altre piante, esse avrebbero pertanto maggiori possibilità di stroncarsi, in quanto dal lato che guarda verso l’esterno del popolamento esse non hanno alcun albero su cui scaricare le sollecitazioni del vento. Invece tali piante hanno una conformazione ben diversa, che fa sì che esse al contrario forniscano un valido “appoggio” alle piante delle file adiacenti e, di riflesso, all’intero popolamento.
Se si tagliassero le piante di margine e si esponessero all’esterno quelle che costituiscono le file interne del popolamento boschivo, in breve tempo queste ultime sarebbero con ogni probabilità soggette a danni meccanici ed atterramenti successivi che farebbero arretrare indefinitamente il confine del bosco.
I caratteri peculiari delle piante di margine derivano da una loro condizione caratteristica: quella, cioè, di essere una via di mezzo fra piante cresciute in bosco e piante cresciute allo stato isolato. Fra le conformazioni di queste due categorie di alberi esiste una notevole differenza.
Al contrario degli alberi di bosco, gli alberi cresciuti isolati presentano una conformazione più che garantisce una maggiore resistenza ai fattori destabilizzanti, specialmente per quanto riguarda la regolarità del fusto ed i rapporti fra le altezze ed i corrispondenti diametri del tronco.
Gli alberi isolati si presentano con pochi o nessun problema di stabilità: le radici hanno potuto procedere in tutte le direzioni e, a meno di discontinuità nel substrato che ne renda diffide l’esplorazione, presentano un andamento regolare e non sbilanciato in una o in un’altra direzione, oltre che in grado di assicurare ottimali approvvigionamenti di sostanze nutritive e stabilità meccaniche.
Un albero che non risenta della concorrenza laterale con i conspecifici e che vegeti in un terreno idoneo all’approfondimento radicale è messo in condizioni di svilupparsi al meglio delle sue possibilità senza limitazioni da parte dell’ambiente esterno.
La conformazione di alberi di questo tipo è ben diversa da quella degli alberi del bosco fitto, per tutta una serie di parametri sia a livello di chioma che di tronco che di radici.
Le varie differenze sono riportate schematicamente nella tabella che segue, che riassume le caratteristiche degli alberi cresciuti in bosco e degli alberi cresciuti isolati a parità di tutte le altre condizioni (substrato, condizioni di luce, temperatura, fattori limitanti estranei alla concorrenza intraspecifica., ecc.).

 
Apparato
o organo esaminato
(1)

Albero di bosco
(2)

Albero di

improvvisamente

Condizioni iniziali
bosco

isolato

Sviluppo successivo
(3)

Albero cresciuto in condizioni di isolamento
Apparato radicale
Apparato radicale La forte concorrenza, che limita l’espansione laterale delle radici e di conseguenza l’idoneo approvvigionamento di sostanze nutritive a la stabilità, determina la formazione di radici sottili spesso non in grado di sorreggere adeguatamente l’albero
La concorrenza radicale rimane anche dopo la morte degli alberi adiacenti, in quanto le loro radici permangono a lungo nel suolo costituendo motivo di ostacolo: le radici dell’albero possono risultare in un primo momento inadeguate a sostenere un albero maggiormente sollecitato
Nel lungo termine i fenomeni di marciume portano ad un dissolvimento delle radici degli alberi circostanti, il che permette alla pianta isolata di accrescere le sue radici
L’assenza di concorrenza intraspecifica, con conseguente possibilità di espansione in tutte le direzioni ed assicurazione di idonei apporti di nutrienti e di ottimale stabilità, porta allo sviluppo di un apparato radicale ottimale, spesso con presenza di contrafforti alla base che aumentano ulteriormente la stabilità dell’albero.
Fusto
Sottile ed allungato, indice di una limitata stabilità meccanica.
Le caratteristiche dimensionali del fusto rimangono a lungo invariate, espondendo la pianta ad una grande suscettibilità di danno
Progressivo incremento diametrico, che conferisce alla pianta isolata una stabilità via via maggiore
Grosso fusto che si rastrema rapidamente procedendo verso l’alto.
Chioma
Inserita sul fusto a notevole altezza, caratterizzata da una profondità il più delle volte molto limitata
L’altezza dell’inserzione sul fusto rimane costante, determinando instabilità
Si infittisce arricchendosi di nuovo fogliame ed assumendo una maggiore efficienza fotosintetica
Inserita sul fusto da limitata altezza, arriva a volte fino a terra

Tab.3 – Diverse conformazioni di apparati ed organi in alberi di Pino d’Aleppo cresciuti in bosco (1), improvvisamente isolati (2) e cresciuti allo stato isolato (3)


 

Da quanto sopra derivano ovviamente importanti condizioni dell’albero, esprimibili in termini numerici ed indici della maggiore o minore stabilità dell’albero stesso. Si tratta di parametri quantitativi e non qualitativi, espressi di regola in cm (per quanto riguarda la misura dei diametri) o in valori assoluti (per quanto riguarda il valore di H/d) che forse meglio dei precedenti indicano lo stato dell’albero cui si riferiscono

 
 
 
 
 
Diametro basimetrico
Molto ridotto in funzione della densità del popolamento
Il piccolo diametro non è spesso in grado di assicurare sostegno ottimale alla pianta improvvisamente isolata, che può incurvarsi o spezzarsi.
Lento, progressivo incremento diametrale e conseguentemente maggiore stabilità dell’albero
Diametro notevole; nessun problema di stabilità
Diametri alle varie altezze
I fusti, molto sottili, si presentano cilindrici per buona parte dell’altezza
Diametri ridotti ed uguali per lungo tratto
Progressivo incremento diametrale con conseguente maggiore stabilità meccanica
Fusti grossi ed in possesso di elevata rastremazione

Tab.4 - Parametri dendrometrici di alberi di Pino d’Aleppo cresciuti in bosco (1), improvvisamente isolati (2) e cresciuti allo stato isolato (3)

 

L’ottimale sviluppo di fusto, chioma e radici, nonché le rispettive proporzioni reciproche, hanno ripercussioni sulle modalità di reazione ai fattori destabilizzanti esterni; la stabilità cui si fa riferimento è quella di tipo esclusivamente meccanico e trascende da cause di instabilità derivanti da altri fattori ambientali, quali attacchi parassitari, effetto dei venti salmastri, ecc.

 


Tipo di instabilità
(1)

Albero di bosco
(2)

Albero di


improvvisamente


Condizioni iniziali

bosco

isolato


Sviluppo successivo
(3)

Albero cresciuto in condizioni di isolamento
Problemi meccanici

In qualche misura mitigati dalla presenza di numerosi alberi adiacenti
Grossi problemi, quando la pianta si trova esposta ai fattori destabilizzanti senza poter fruire di alcun appoggio
Progressivo aumento della stabilità dell’albero in risposta alla regolarizzazione di radici, chiome e fusto
Nessun problema di instabilità
Instabilità da vento

Notevole, mitigata della presenza degli alberi adiacenti e progressivamente scaricantesi sugli alberi di margine; possibilità di schianti generalizzati in caso di venti molto forti.
Notevolissima: l’albero di bosco è diventato albero di margine senza essere in possesso delle tipiche caratteristiche di stabilità di quest’ultimo
Progressivo aumento della stabilità dell’albero in risposta alla regolarizzazione di radici, chiome e fusto
Problemi poco rilevanti

Tab.5 – Suscettibilità ai danni meccanici da parte di fattori esterni in alberi di Pino d’Aleppo cresciuti in bosco (1), improvvisamente isolati (2) e cresciutiallo stato isolato (3)

 

Nelle tabelle sopra riportate tutti i caratteri sono stati differenziati a seconda che si riferiscano ad alberi cresciuti in bosco fitto, allo stato isolato o a quelli che sono stati improvvisamente liberati dalla concorrenza circostante da un qualsiasi evento traumatico.
In questi ultimi le modalità di crescita imposte da condizioni di concorrenza più o meno spinta portano all’assunzione di caratteristiche irreversibili; in tali alberi spesso l’improvviso isolamento si traduce in danni più che in benefici, fatto salvo un eventuale recupero, da parte dell’albero stesso, di una stabilità qualora siano ancora possibili incrementi in grado di regolarizzarne, sia pure debolmente, le asimmetrie o le carenze.
Ciò non sempre avviene in maniera efficace, però.
In alberi di Pino cresciuti in bosco che vengano improvvisamente isolati viene a mancare di botto il sostegno laterale offerto dalle piante adiacenti, con conseguenti pericoli di danni meccanici derivanti da una inadeguatezza dell’albero a sostenersi autonomamente.
Si tratta infatti di alberi poco stabili da un punto di vista meccanico, con elevato rapporto H/D e con chioma concentrata ai livelli superiori, chiome che per le sue conformazioni appare inadeguata a garantire alle improvvise necessità dell’albero isolato da poco, per il quale si rende  necessario il raggiungimento di una maggiore stabilità.
Così, un albero di Pino a cui si sono seccati i rami inferiori della chioma a causa di un insufficiente afflusso luminoso non potrà ricostituire una chioma che scende verso il basso, ma continuerà ad avere fogliame foto sinteticamente attivo a partire dal punto in cui si inseriscono i primi rami verdi; la chioma si rinfoltirà ed assumerà una maggior efficienza fotosintetica in risposta al maggiore disponibilità di energia luminosa, ma l’altezza della inserzione della chioma sarà destinata a non diminuire.

Foto n° 29 - Pini d’Aleppo cresciuti sotto la copertura di Eucalipti (Foto: S. D’Alessandro).

Contemporaneamente, si verificherà un progressivo incremento delle dimensioni diametrali Ciò potrebbe avere un suo fondamento nei minori incrementi diametrali che è possibile rilevare in tali alberi e nei minori accrescimenti dei getti laterali sotto copertura degli Eucalipti,  entrambe limitazioni che potrebbero forse conferire alla gemma apicale caratteristiche di una maggiore dominanza e di maggiore risposta agli stimoli fototropici piuttosto che ad altri condizionamenti stazionali e/o biotici che determinano un più irregolare andamento del fusto e della ramificazione, fatte, ovviamente, salve le caratteristiche dettate dall’informazione genetica di tali alberi.
Quale che ne sia la causa reale, è comunque notevole rilevare, in tali Pini d’Aleppo “dominati”, la regolarità di fusti che assumono le stesse “architetture” di crescita dei fusti degli Abeti !
In tali alberi è possibile rilevare, oltre che la regolarità dell’andamento del fusto, che si presente per un lungo tratto pressoché privo di rastremazione, anche ottimali valori del rapporto H/d ed adeguate profondità di chioma, valori che è molto raro, per non dire impossibile, riscontrare in alberi cresciuti in bosco o comunque dominati da altri alberi di Pino d’Aleppo.

 
 
ILPINO D’ALEPPO E L’EUCALIPTO: QUANDO DUE OPPOSTI CONVIVONO !
L’Eucalipto è un albero di provenienza australiana che spesso si vede lungo le nostre coste a condividere gli stessi terreni sui quali vegeta il Pino d’Aleppo. La cosa, benché abituale, appare quanto meno singolare se si considerano la diverse provenienze delle due specie e le esigenze ecologiche diametralmente opposte.
Si tratta infatti di due alberi profondamente diversi, sia dal punto di vista sistematico che da quello del temperamento ecologico
 
CARATTERE CONSIDERATO
Eucalipto (Eucalyptus spp.)
Pino d’Aleppo (Pinus halepensis)
Collocazionesistematica
Angiosperme, Fam. Myrtaceae, gen. Eucalyptus
Gimnosperme, Fam. Pinaceae, gen. Pinus
Distribuzione
Varie specie, tutte originarie dell’Australia
Specie diffusa in tutti i Paesi del bacino del Mediterraneo
Temperamento neiriguardi della luce
Temperamento eliofilo
Temperamento eliofilo
Esigenze edafiche
Specie in gran parte calciofughe
Specie calciofila
Modalità di crescita
Crescita molto rapida nelle condizioni idonee
Crescita relativamente rapida nelle condizioni idonee
Esigenze idriche
Necessita di grandi quantitativi d’acqua
Specie xerofila
Tipo di ramificazione
Ramificazione di norma monopodiale
Rami disposti irregolarmente lungo il fusto, che sostengono una chioma rada ed irregolare
Foglie
Foglie persistenti, con forma prevalentemente falcata
Foglie persistenti, aghiformi portate in gruppi di due
Radici
Fitto capillizio radicale
Radici superficiali in branchie anche di notevoli dimensioni negli individui isolati

Tab. 6 – Eucalyptus e Pinushalepensis: alcuni caratteri distintivi

 
Come si vede, si tratta di alberi dalle caratteristiche ben differenti, quando non diametralmente opposte.
L’Eucalipto, specie si origine australiana, fu attivamente impiantato lungo le coste italiane allo scopo di bonifica i terreni costieri liberandoli dai ristagni d’acqua che tipicamente si erano presenti nelle zone retrodunali. Le esigenze ecologiche della specie sono infatti improntate alla forte richiesta d’acqua, che consuma in gran quantità a che le serve per accrescersi.
Il suo largo impiego in ambito costiero mediterraneo trovò la motivazione, oltre che per rendere fruibili da un punto di vista agricolo le zone a ridosso del mare, anche per tentare di risolvere indirettamente la piaga della malaria, i cui vettori, le zanzare Anopheles, si riproducevano in gran numero nelle acque dei pantani retrodunali. L’Eucalipto fu infatti definito come una vera e propria pompa idrovora biologica, in grado di prosciugare vasti territori paludosi, ed è principalmente con questa finalità che la specie fu diffusa.
Per caratteristiche opposte si impiegò invece il Pino d’Aleppo: la specie è infatti caratterizzata da una notevolissima xerofilia (tolleranza alla siccità), oltre che da una notevolissima resistenza a terreni ricchi di sali igroscopici, quali sono appunto quelli a ridosso del mare.
Nel vedere così le cose, si direbbe che le due specie siano state impiegate per rimboschire terreni caratterizzati da parametri ambientali ben differenti, per non dire antitetiche.
Invece esse sono state impiegate per rimboschire gli stessi ambienti, sia pure in due ottiche diverse, legate probabilmente a contesti storici ed a finalità diverse: la prima specie, l’Eucalipto, è stata impiantata per prosciugare, la seconda, il Pino d’Aleppo, è stata impiantata per la sua resistenza alla siccità in territori in cui, passato il tempo delle bonifiche, la caratteristica maggiormente richiesta era non già quella di sopravvivere in un territorio estremamente umido, anche per la presenza di acqua stagnante, ma al contrario quella di “colonizzare territori la cui aridità edafica e meteorologica, unitamente alla salsedine delle zone a ridosso del mare, rendeva questa una scelta quasi obbligata.
 

Bibliografia

Sandro D’ALESSANDRO – “Strani taxa di Terra d’Otranto” - BIPEDIA n° 26 http://initial.bipedalism.pagesperso-orange.fr/26f.htm#6
Pier Luigi DI TOMMASO – “Geobotanica” – ed. CUSL, Firenze 1992
Romano GELLINI – “Botanica Forestale” Vol. I  – Edizioni CLUSF – Firenze, giugno 1980
Romano GELLINI – “Botanica Forestale” Vol. II  – Edizioni CEDAM – Padova, 1985
Marcello GOLDSTEIN, Gualtiero SIMONETTI, Marta WATSCHINGER – “Alberi di’Europa” – Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1997
Paola LANZARA, Mariella PIZZETTI – “Alberi” – Orsa Maggiore Editrice, Milano 1995
Pietro PIUSSI – “Diradamenti e stabilità dei soprassuoli” – “Monti e Boschi” XXXVII, 1986 (4): 9-13.
Pietro PIUSSI – “Ecologia forestale e selvicoltura generale” – Ed. UTET, Torino 1994
Oleg POLUNIN – “Guida agli alberi e arbusti d’Europa” – Ed. Zinchelli, Bologna 1977
Ingrid e Peter SCHONFELDER – “La flora mediterranea” – Istituto Geografico De Agostini, Novara 1996