Rivista tecnico-scientifica ambientale dell'Arma dei Carabinieri                                                            ISSN 2532-7828

FAUNA 
Il controverso ritorno del castoro in Italia
03/05/2023
di Maurizio Menicucci
Giornalista Scientifico


Negli ambienti della Penisola restituiti per forza di cose alla natura, quelli delle alture abbandonate dagli abitanti ma sempre più affollate di nuove e non sempre gradite specie selvatiche, s’è rivelata all’improvviso, e con una miriade di piccole colonie, una specie che sta mettendo in grande imbarazzo gli zoologi, perché, anche se era assente da cinque secoli, è indigena del nostro Paese.


In the environments of the Peninsula that have been returned to nature by force of circumstances, those of the hills abandoned by the inhabitants, but increasingly crowded with new and not always welcome wild species, it suddenly revealed itself, and with a myriad of small colonies, a species which is putting zoologists in great embarrassment, because, even if it has been absent for five centuries, it is indigenous to our country. 

Le prove di questo sono schiaccianti. Lo dicono la storia, la toponomastica di luoghi come la Val Castorina in Umbria o il lago laziale di Posta Fibreno (dal nome latino, Castor fiber, analogo al beaver inglese) e perfino le antiche ricette, alla voce “carni bianche”. A causarne l’estinzione, più che la pelliccia, era stato il castoreo, una sostanza oleosa prodotta dalle ghiandole anali, ricercatissima per medicamenti e profumi maschili. Emanato pure dalle feci, il castoreo finisce per tradire il proprietario anche in un altro modo: ne rivela la presenza nell’ambiente, non meno dei tronchi rosicchiati a mozzicone di matita. Come quelli che, appunto, stiamo osservando sempre più numerosi mentre avanziamo a fatica tra i rovi sulla riva del Merse, tra Siena e Grosseto. A indicarmeli è Emiliano Mori, giovane naturalista e ricercatore del C.N.R., che da due anni, insieme ai colleghi Giuseppe Mazza, Chiara Pucci, Andrea Viviano e Davide Senserini, animatori del progetto “Rivers with Beavers”, segue il misterioso ritorno della specie e il suo ancor più misterioso dilagare tra Toscana, Umbria, Marche e Lazio e da pochi giorni anche in Campania. Dunque, ci siamo. Anzi: ci sono. Proprio lì. La riva opposta dell’ansa si presta bene all’ingresso sommerso di una tana. E se per ora nessuna diga sembra interferire con la corrente, l’attività di taglio, tutt’intorno, è frenetica. La continua ricrescita dei denti li obbliga a rodere, l’istinto ad ammucchiare.  Quanti saranno? Da tre a quattro. Due adulti, che sono qui da un anno, e uno o due cuccioli. 
Non sono stati loro, però, i primi a rimettere le loro zampe palmate nel Bel Paese. Nel 2018, lasciata la natia Carinzia, il castoro Ponta, chiamato così in onore del suo biografo ufficiale, Renato Pontarini, un appassionato fotonaturalista friulano che non lo perde mai di vista, aveva dato inizio alla sua avventura padana, lanciandosi sulle orme degli avi, giù per il torrente Sliza, verso Tarvisio. Quanto ci abbia impiegato ad arrivare nei paraggi della cittadina, non si sa, ma non molto. Queste acque, sebbene italiane, sono tributarie del Danubio, e lui ha nuotato da un affluente all’altro, lungo il triplice confine tra Austria, Slovenia e Italia, per stabilirsi, alla fine, in val Romana, sotto i laghi di Fusine. 
Lì, ai margini di una pista ciclabile, dove scorreva un’invisibile vena d’acqua, l’ha intercettata con tronchi e arbusti, trasformandola in poche settimane in una bella pozza, profonda più di un metro, che lui continua ad allargare e ad abbellire nell’attesa, finora vana, di una compagna, o di un compagno: il sesso dei castori, a colpo d’occhio, è indecifrabile. I partner più vicini distano poche decine di chilometri, subito al di là delle basse Alpi Carniche. Procurargliene uno sarebbe un gioco, ma se tutti lo pensano, nessuno lo fa. Paolo Molinari, ad esempio, un naturalista grande, grosso e simpatico come gli orsi che studia da anni nella foresta di Tarvisio, se anche si infilasse nel parka un castoro clandestino, chi mai se ne accorgerebbe? Ma è lui stesso a chiudere a ogni ipotesi di contrabbando: “queste reimmissioni devono essere valutate con estrema cura e concordate con le comunità che vivono e lavorano sul territorio”. 
Se il castoro Ponta è stato il primo, un anno e mezzo dopo di lui (nel 2020), era arrivato un altro castoro, stavolta più chiaramente un maschio, sconfinato lungo il fiume Drava, dalla vicinissima Austria, tra Versciaco e San Candido, in Val Pusterla. La speranza di un incontro con “il Ponta”, però, è durata poco, perché, compatibilità sessuale a parte, se Versciaco dista poco in linea d’aria da Tarvisio, i due bacini sono ben separati. Dopo aver girovagato, lasciando i segni dei suoi denti in lungo e in largo, la scorsa primavera, il “numero due” è ritornato in Austria, togliendo il disturbo, che non è solo un modo di dire. Reinhard Pipperberger, Il guardacaccia che l’aveva scoperto e adottato, non può fare a meno di sorridere al ricordo dei pasticci provocati dal suo protetto che piantava nella zona industriale: “quasi tutti i giorni, i pompieri accorrevano per rimuovere le ramaglie che strozzavano i canali”. 
In ogni caso, “il Ponta” e il “Numero Due”, che tra l’altro è rimasto lì intorno, vicino al confine, si spostano da soli, secondo natura, quindi nessuno ha nulla da ridire.  
Invece, per quelli del Centro e ormai, come vedremo, anche del Sud Italia, la definizione tabù, troppo a lungo rimandata, alla fine è stata pronunciata: rilascio volontario. Significa che qui il “Castor Fiber”, è stato introdotto, anche perché non è plausibile, che qualche nucleo di quelli ancora presenti in età medicea sia sopravvissuto per mezzo millennio senza farsi notare; così come è escluso che siano scesi dalla Mitteleuropa, attraversando la Pianura Padana. Poi, va bene che, con i suoi 25 chili, il castoro può sembrare un’enorme nutria dalla coda piatta, ma confondere le due specie, per gli esperti, è impossibile  Dunque, l’ultimo censimento, che ha portato i ricercatori di “Rivers with Beavers” a battere anche i più piccoli corsi d’acqua dell’Italia di mezzo, è più che credibile: da i castori insediati a Civitella Paganico, nel Grossetano, a San Sepolcro, nell’Aretino, dove hanno tirato su una piccola diga, a Murlo, Monticiano e Montalcino, nel Senese, a Città di Castello, Deruta e Urbino, nel Perugino-Pesarese, a Mercatello sul Metauro e a Terni, nelle Marche. Non è tutto: li hanno appena avvistati anche nel Reatino, in Umbria e in Campania, sul Volturno. È evidente che chi li ha liberati, e forse continua a farlo, segue un progetto scientifico, e lo fa molto bene, come solo uno specialista sa fare. Ha selezionato esemplari selvatici geneticamente impeccabili, della sottospecie ovest europea, che nulla hanno a che fare né con gli individui in cattività in alcuni bioparchi locali, come lo zoo di Poppi, dai quali, perciò, non possono essere usciti, né con gli ibridi americani, manipolati per la pelliccia. Inoltre, li ha distribuiti in un territorio vasto, scegliendo aree nascoste e poco frequentate, dove potessero radicarsi prima d’essere scoperti. “L’Operazione Castoro” è partita puntando subito su numerosi siti, per avere maggiori probabilità di successo. Ed è perfettamente riuscita. 
Secondo le ultime stime, oggi sono non meno di una cinquantina e hanno tutte le possibilità di colonizzare altre zone. Ma, sul lasciarli proliferare in pace, i naturalisti suggeriscono cautela, per evitare scontri frontali con chi teme i corsi d’acqua “castorizzati”. Come ricorda Luca Lapini, zoologo del Museo friulano di storia naturale di Udine, “il castoro è un moltiplicatore di vita”. Se si stabilisce in un tratto di fiume montano, lo trasforma, moderando la corrente, in una serie di bacini interconnessi da aree umide, dove altri organismi cominciano a proliferare in un modo impressionante. Nell'arco di due anni la biodiversità aumenta del 200 o anche del 300 per cento”. A spese, quasi sempre, dell’agricoltura, è vero; però, a rigor di logica, si tratterebbe di un risarcimento, e non appropriazione indebita, perché semmai sono stati proprio i coltivi a sottrarre gli alvei naturali ai fiumi. Ma il dibattito non è banale e le esperienze di altre nazioni europee sono molto utili, per comprendere sia chi è che li “dissemina” e perché lo fa, sia le ragioni di chi si oppone.
Al principio del secolo scorso, i castori europei, prima comunissimi, erano ridotti a poche centinaia tra il Rodano e l’Elba, e a qualche decina in Norvegia. Poi, tutelati e reintrodotti, si sono ripresi e oggi vivono in 22 paesi dell’Unione, stimati in un milione di esemplari. I ritorni più simili a quello italiano sono quello in Gran. Bretagna e in Spagna, anche se con esiti diversi. Oltremanica, dove si erano estinti nel 1600, la riscossa è cominciata negli anni ’90, dalla Scozia, dove alcuni individui, fuggiti da tenute private, hanno cominciato a riprodursi in libertà. Dopodiché il confine tra rilasci sperimentali, evasioni pilotate ed espansione naturale s’è ingarbugliato. Quel che è certo è che a portarli all’estremità opposta dell’isola è stato il Devon Wildlife Trust, che un decennio fa ne aveva sistemati “un paio” in un'area recintata di tre ettari sul fiume Otter. Il risultato dell’esperimento è andato oltre le attese. “Le modifiche ambientali operate dai castori si stanno rivelando capaci di ridurre anche l’inquinamento, filtrando l'acqua contaminata dal letame e dai fertilizzanti”. Dove si sia fermato il test, però, non è chiaro, perché i castori hanno cominciato a spuntare prima lungo tutto l’Otter, poi in Galles, infine dovunque. Dopodiché, la polemica tra gli ambientalisti, coalizzati nel Beaver’s Trust, e la Britain's National Farmers Union, sindacato degli agricoltori, s’era fatta rovente. A chiuderla, forse per sempre, è stata la forza della tradizione che ancora oggi assegna ai Windsor la proprietà esclusiva della selvaggina più nobile.
Ora, sotto il patrocinio dell’attuale monarca Carlo III, i castori britannici hanno raggiunto la ragguardevole cifra di 3 mila e, sull’onda della popolarità, si preparano a entrare anche nei parchi cittadini, dove gli esperti propongono di introdurli, a cominciare proprio da Londra.  
Più precaria la loro nuova esistenza sull’Ebro, in Spagna, dove, rilasciati “di frodo” una decina d’anni fa, adesso sono un centinaio: quanti potrebbero essercene, tra un anno o due in Italia, con la differenza che nelle Penisola Iberica la loro presenza storica è molto meno sicura e la loro sorte, perciò, precaria. Per Bruxelles, al contrario, è proprio la definizione scientifica di “castoro euroasiatico” a dichiararla specie tipica di tutto il Vecchio Continente e perciò da proteggere sempre e dovunque, a rigore delle numerose leggi e direttive che dichiarano intoccabili gli animali selvatici e i loro habitat.           
E l’Italia? È plurale nelle opinioni al limite dello schizofrenico, anche se poi, sotto le sottigliezze del dibattito, si sentono pulsare più convenienze che convinzioni. Chi con decisione, chi con maggior prudenza, tutti gli addetti ai lavori accreditano l’efficacia del castoro come risanatore naturale, regolatore dei flussi idrici e ammortizzatore contro il cambiamento climatico: laddove è stato reintrodotto in buon numero le inondazioni, così come i fenomeni di siccità, si sono più che dimezzati. Anche il sospetto che possa ostacolare la fauna ittica, favorendo le specie di acqua ferma a scapito di quelle di corrente, non regge alle verifiche. Secondo un recente lavoro dell'Università di Exeter, nelle piscine create dalle loro dighe, la varietà e la quantità dei pesci sono aumentate del 37%. Quanto agli alberi, i castori si dimostrano boscaioli sostenibili: rivolgono i loro incisivi solo ai tronchi di diametro inferiore a 30 centimetri, anche per ovvie ragioni di peso, visto che poi devono trascinarli e, sempre a forza di denti, sistemarli. Dunque, diradano il bosco, lasciando più spazio ai fusti maggiori. 
Sembrerebbe la premessa per un liberatorio “crescete e moltiplicatevi”. E invece, no, perché se sulla loro utilità gli studiosi concordano, sulla loro sorte nell’Italia Centrale prevale il pollice verso, proprio a causa di quell’introduzione non autorizzata, che, come tutti i peccati originali, non è lui ad aver commesso. Avallata dall’I.S.P.R.A., massima autorità pubblica in fatto di fauna selvatica, la condanna è condivisa, a sorpresa, anche da chi, come il friulano Lapini quando va a vedere “il Ponta”, si commuove come fosse un’epifania. Sandro Bertolino, biologo torinese e presidente dell’Associazione Teriologica Italiana, la riassume così: “accettare la presenza dei castori eurasiatici in Italia centrale, verosimilmente frutto di immissioni illegali, costituisce un pericoloso precedente, in grado di innescare analoghe iniziative. Ragion per cui chiediamo un piano per rimuovere gli animali”. Più sfumate le voci a favore. Per Franco Tassi, "ci sembrerebbe più appropriato considerare l'ecosistema nel suo equilibrio dinamico e nella continua evoluzione, anziché limitarsi agli aspetti statici e teorici”. Anche Stefano Deliperi, del Gruppo d’Intervento Giuridico, “pur contrario a immissioni clandestine”, dice di non condividere assolutamente posizioni così drastiche, perché “si tratta comunque di fauna selvatica storicamente presente in Italia. La specie dovrebbe essere oggetto di monitoraggio e, se ben inserita sul piano naturalistico, tutelata in vista di una futura e auspicabile espansione dell’areale”. 
Un osservatore interessato all’epilogo, non potrebbe, a questo punto, che domandare alla giuria quando e come verrà eseguita la sentenza capitale. “E sbaglierebbe”, spiega il biologo forlivese Giancarlo Tedaldi. “In Italia circolano milioni di cinghiali e di nutrie, specie che, quelle sì, rompono le tasche senza possibilità di smentita. Poi, sempre sull’Appennino tosco-emiliano, abbiamo un’invasione di procioni, scappati da gabbie e giardini, che sono simpaticissimi, ma creano montagne di problemi ecologici e sanitari. Vogliamo parlare dei gamberi della Louisiana? O delle tartarughe d’acqua dolce tropicali? Crediamo seriamente che qualcuno si metta a perseguitare cinquanta castori?”.
Dunque, quella che si offre alla specie e a chi vorrebbe lasciarla dov’è ricomparsa, ma non osa confessarlo, è una salvezza pragmatica. E potrebbe anche bastare, se non si trattasse, in realtà, di una pena differita, una vera e propria “fatwa”, che chiunque potrebbe eseguire per conto suo, come e quando vuole, su animali non protetti. Perciò, nemmeno i principi ne escono così integri come si vorrebbe far credere. Senza considerare il paradosso che i castori, benché illegalmente, si trovano molto meglio sull’Appennino, in gran parte spopolato e riconquistato dalla vegetazione spontanea, che sulle Alpi, dove comunque sono stati reintrodotti, anche se questo è avvenuto in Austria e Slovenia negli anni ‘60, e non direttamente in Italia. Ma forse è più saggio pensare che ci sono state vere e proprie civiltà del castoro. Nelle culture native del Nord America, ad esempio, era considerato una delle principali specie totemiche, per la sua operosità e la capacità di resistere e plasmare gli ambienti, e il Canada, accogliendo questa tradizione, lo ha dichiarato nel 1975 “animale nazionale”. Oggi potremmo invertire l’ordine del binomio e parlare di “castoro della civiltà”: se ventidue paesi dell’Europa su ventisette lo hanno reintrodotto e protetto, forse varrebbe la pena accettare il dato di fatto. Perché mai, solo l’Italia, per rispettare un principio astratto, oltretutto smentito tutti i giorni, dovrebbe dire di no a una presenza che risarcisce la natura di una piccolissima parte di quel che le abbiamo tolto, e di cui anche noi ci siamo privati, in nome del profitto?