Rivista tecnico-scientifica ambientale dell'Arma dei Carabinieri                                                            ISSN 2532-7828

DIRITTO 
RESPONSABILITÀ PENALE D’IMPRESA E DELITTI IN MATERIA AMBIENTALE
13/11/2017

di Maggiore CC Filippo Vanni, Capo 2° Sez. Ufficio legislativo Comando Generale dell'Arma dei Carabinieri



RIASSUNTO:

‹‹Societas delinquere non potest››: l’insostenibilità di un dogma. Il principio che per lungo tempo ha dominato la scena dell’ordinamento giuridico italiano, sancendo l’irresponsabilità penale dei soggetti diversi dalla persona fisica, è caduto sotto il peso del decreto legislativo n. 231 del 2001: un’importante conquista legislativa che consente di imputare i delitti commessi dagli organi della persona giuridica all’ente stesso, se commessi nel suo interesse o vantaggio. Anche i reati ambientali sono compresi tra i reati-presupposto imputabili alle società: nella potenziale ablazione, quale sanzione pecuniaria, di importanti somme di denaro o utilità societarie in ogni ipotesi di “ecodelitto” con conseguente danno ambientale, consiste infatti la grande potenzialità deterrente di questo corpus normativo in tema di criminalità d’impresa, che merita di essere conosciuto e approfondito.

ABSTRACT:

Companies penal responsability and environmental crimes
‹‹Societas delinquere non potest››: unsustainability of a dogmaThe principle of penal irresponsibility of companies has for long time dominated the Italian law until decree no. 231/2001 that allows to impute crimes committed by organs of the company on its behalf and advantage, to the same company. Environmental crimes are also included among those crimes attributable to companies. Pecuniary penalty in case of environmental crimes is a deterrent worth to be known and deepened.



FOTO B1. La “nuova” responsabilità: considerazioni preliminari Il decreto legislativo 8 giugno 2001 n. 231 è stato emanato in tempestiva attuazione della delega legislativa contenuta nell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000 n. 300. Quest’ultima normativa, nel ratificare tre convenzioni internazionali , prevede modifiche al codice penale e (in attuazione della Convenzione OCSE di Parigi del 19 dicembre 1997), una delega al Governo per l’emanazione di “un decreto legislativo avente ad oggetto la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e delle società, associazioni od enti privi di personalità giuridica che non svolgono funzioni di rilievo costituzionale”. Tale delega legislativa ha posto fine alla vexata quaestio che va sotto il nome di “responsabilità penale delle persone giuridiche”, anche se non si può ignorare come, all’interno del nostro ordinamento, i tempi fossero già maturi per fare i conti con la criminalità di impresa, come testimonia il Progetto preliminare di riforma del codice penale, definitivamente licenziato dalla Commissione presieduta dal prof. Carlo Federico Grosso il 15 settembre 2000. La scelta del legislatore di introdurre una responsabilità di tipo “amministrativo” è stata comprensibilmente ispirata a una maggior cautela; pur tuttavia (sottolinea la Relazione illustrativa del decreto) essendo questa responsabilità conseguente al reato e legata (per espressa volontà della legge delega) alle garanzie del processo penale, diverge in alcuni momenti fondamentali dal paradigma di illecito amministrativo disegnato dalla legge n. 689 del 1981. La conseguenza è la nascita di un “tertium genus, che coniuga i tratti essenziali del sistema penale e di quello amministrativo nel tentativo di contemperare le ragioni dell’efficacia preventiva con quelle, ancor più ineludibili, della massima garanzia” .

IMG_20160913_1707232. I profili sostanziali della responsabilità: la “parte generale” del decreto legislativo L’analisi dei profili sostanziali della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, ci porta in primo luogo a definire con precisione l’ambito dei possibili soggetti collettivi responsabili: a tal fine dispone l’articolo 1, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 231 del 2001, laddove prevede che le disposizioni dello stesso si applicano agli enti forniti di personalità giuridica e alle società e associazioni anche prive della stessa. La precisione con cui la nuova normativa tipizza i soggetti attivi non lascia adito a dubbi, e la scelta del termine “ente”, piuttosto che “persona giuridica”, è stata dettata dalla volontà di rispettare l’inequivoca volontà della delega di estendere la responsabilità anche a soggetti sprovvisti di personalità giuridica . Tuttavia, in considerazione delle finalità e della struttura complessiva del decreto, mirato alla repressione di forme di criminalità economica, i soggetti principalmente interessati dalla nuova normativa risultano essere senz’altro le società commerciali. Per espressa previsione di legge, non hanno invece spazio nel nuovo sistema normativo lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli altri enti pubblici non economici nonché gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale : in questo insieme rientrano i partiti politici e i sindacati (questi ultimi sguarniti di personalità giuridica vista la mancata attuazione dell’articolo 39 Cost.). Questa esclusione è certamente dettata dalla preoccupazione di evitare l’utilizzo nei loro confronti delle gravose e penetranti sanzioni interdittive previste dal decreto. L’esclusione degli enti che esercitano funzioni di rilievo costituzionale preclude poi senz’altro la riferibilità dell’impianto normativo alle singole Pubbliche amministrazioni. Viceversa, i cosiddetti enti pubblici economici sono enti a soggettività pubblica ma, essendo privi di pubblici poteri, agiscono iure privatorum, meritando per questo un’equiparazione agli enti a soggettività privata anche sotto il profilo della responsabilità amministrativa derivante da reato . Spostandosi sul piano dei soggetti “legittimati” ad agire per conto della persona giuridica, il decreto individua due distinte categorie: i soggetti in posizione apicale e quelli in posizione subordinata. In relazione ai primi, vengono in considerazione i soggetti collocati ai vertici dell’organizzazione dell’ente che esprimono la volontà dello stesso in tutti i rapporti esterni e nelle scelte di politica d’impresa. La formula elastica prevista dalla norma è stata preferita rispetto all’elencazione tassativa dei soggetti agenti, ritenuta una strada difficilmente praticabile vista l’eterogeneità degli enti e quindi delle situazioni di riferimento (quanto a dimensioni e natura giuridica). Infine, viene dato risalto anche a coloro che esercitano di fatto la gestione e il controllo dell’ente, in quest’ultimo caso con la previsione di congiunti poteri di gestione e controllo in capo alla medesima persona fisica (che assicurano l’effettivo ‹‹dominio›› del “soggetto di fatto” sulla politica d’impresa), dettando disposizioni sostanzialmente analoghe a quelle dell’art. 2639 c.c., che prevede l’estensione delle qualifiche soggettive solo in presenza di un esercizio continuativo e significativo dei poteri tipici della funzione.

inquinamento fiume3. La “parte speciale” del decreto: i reati-matrice La questione relativa all’ampiezza del catalogo di reati ai quali estendere la responsabilità degli enti ha formato oggetto di un largo e prolungato confronto parlamentare, a causa dell’ampiezza del numero delle fattispecie previste dalle lettere b, c, d dell’art. 11 della legge delega n. 300 del 2000. Nel corso degli ultimi passaggi parlamentari che hanno preceduto l’approvazione della legge, la Camera e il Senato hanno votato due distinti ordini del giorno proprio sul versante dell’ampiezza del catalogo dei reati: da un lato (la Camera) impegnando il Governo a contenere l’esercizio della delega con riguardo ai reati indicati negli strumenti internazionali oggetto di ratifica; dall’altro (il Senato) chiedendo al Governo di dare, alla legge delega, attuazione integrale. L’Esecutivo ha optato alla fine per la soluzione minimalista, attestandosi dietro la diplomatica posizione secondo cui dal momento che “la legge delega ha ad oggetto la ratifica delle convenzioni PIF e OCSE, […] pare opportuno limitare l’intervento in tema di responsabilità sanzionatoria degli enti ai reati indicati nei citati strumenti internazionali e comunitari” . Resta comunque il fatto che sono stati inizialmente tagliati fuori dall’ambito di applicazione della nuova disciplina reati che rappresentano fortemente la proiezione sul piano fattuale di quella colpevolezza di organizzazione che si è voluto porre a fondamento della responsabilità degli enti. Per questa ragione, rispetto al catalogo di reati capaci di integrare la c.d. “responsabilità d’impresa”, solo nell’anno 2011 è stato colmato il pesante vuoto normativo dovuto alla mancanza dei delitti in materia ambientale, aggiungendo, con l’art. 25-undecies, un ampio elenco dei reati di prima importanza: le condotte sanzionate sono quelle previste dagli articoli 727-bis e 733-bis c.p., tutelanti rispettivamente le specie animali o vegetali protette e gli habitat all’interno di siti protetti, e dalla legge n. 150 del 1992 di ratifica della Convenzione di Washington (o CITES, dall'inglese Convention on International Trade in Endangered Species of Wild Fauna and Flora) del 3 marzo 1973, sul commercio internazionale di specie animali e vegetali in via di estinzione . La disposizione contiene poi richiami al d.lgs. n. 152 del 2006, recante il “Codice dell’ambiente”, stabilendo che siano punite le persone giuridiche per le quali venga accertata la commissione dei reati di scarico di acque reflue industriali, gestione di rifiuti non autorizzata, inquinamento del suolo o delle acque, violazione degli obblighi di tracciabilità dei rifiuti, traffico illecito di rifiuti (anche organizzato) ed avvio di stabilimento o impianto non autorizzato. L’articolo 25-undecies prosegue infine sanzionando le società che inquinino l’ambiente e danneggino l’ozono stratosferico adoperando le sostanze lesive previste dalla Tabella A allegata alla legge n. 549 del 1993, nonché provochino inquinamento attraverso l’impiego delle navi, in violazione del d.lgs. n. 202 del 2007.

amianto-a-chiaiano4. Le sanzioni 4.1 La sanzione pecuniaria La sanzione base e di necessaria applicazione per l’illecito amministrativo dipendente da reato è quella pecuniaria, che costituisce il perno del sistema sanzionatorio (art. 10, comma 1). Per garantire al giudice (penale) un idoneo potere di valutazione che consenta un puntuale adeguamento della sanzione all’effettivo disvalore oggettivo e soggettivo del fatto, il nuovo sistema ha adottato un modello “bifasico” di commisurazione della sanzione pecuniaria. La prima fase impone infatti al giudice di determinare il numero delle quote che ritiene congruo per sanzionare il fatto; in secondo luogo egli dovrà procedere a quantificare l’importo, cioè il valore economico, della singola quota, sulla scorta della capacità economica e patrimoniale dell’ente. L’entità della sanzione inflitta in concreto sarà dunque data dal prodotto dei due fattori: il numero delle quote e il singolo valore attribuito a ciascuna quota, il tutto però rispettando i limiti impartiti dalla legge delega, secondo cui il numero delle quote non può essere inferiore a cento, né superiore a mille. Degni di approfondimento sono i tre criteri per la commisurazione della sanzione pecuniaria, di cui all’art. 11, comma 1, del decreto in esame: la “gravità del fatto”, il “grado di responsabilità dell’ente” e “l’attività svolta per eliminare o attenuare le conseguenze del fatto o per prevenire la commissione di ulteriori illeciti”.

4.2 La sanzione interdittiva Mentre la sanzione pecuniaria è indefettibilmente applicabile quando si riscontri la responsabilità amministrativa di una persona giuridica, quella interdittiva è irrogata, congiuntamente a quella pecuniaria, solo in relazione ai reati per i quali è espressamente prevista, e soltanto quando ricorrono le condizioni di cui all’articolo 13. Sono previste: l’interdizione dall’esercizio dell’attività; la sospensione o la revoca di autorizzazioni, licenze o concessioni; il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere prestazioni di un pubblico servizio; l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi, sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi; il divieto di pubblicizzare beni o servizi. Si tratta di misure alla cui base sta un apprezzamento di maggiore gravità della violazione, che legittimano la privazione di un diritto o di una capacità dell’ente, secondo un meccanismo che non sembra solo punitivo, quanto piuttosto indirizzato a soddisfare esigenze squisitamente preventive, sia di prevenzione speciale (perché neutralizzano le attività criminose dell’ente per cui si procede), sia, seppure in funzione complementare, di prevenzione generale (sotto il profilo della dissuasione). Si tratta infatti di misure che, incidendo sull’operatività e sulla funzionalità dell’ente, non solo lo “puniscono” efficacemente rispetto alla mera sanzione pecuniaria, ma limitano per il futuro quelle attività il cui abuso ha determinato la commissione del fatto-reato incriminato . La durata di queste misure è normalmente circoscritta nel tempo, in un intervallo che va da tre mesi a due anni (art. 13, comma 2); in casi particolarmente gravi, però, esse possono essere disposte in via definitiva, secondo quanto dispone l’articolo 16.

5. I compliance programs A mente dell’articolo 6, l’ente non risponde se prova che: a) sono stati adottati ed efficacemente attuati, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi; b) è stato creato, all’interno della struttura della persona giuridica, un organismo dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo col compito di vigilare sul funzionamento e sull’osservanza di tali modelli e di curare il loro aggiornamento; c) l’autore del reato ha agito eludendo fraudolentemente i modelli; d) non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo di controllo. È opportuno rilevare come la locuzione “l’ente non risponde se prova” costituisce un’evidente deroga al principio dell’onere della prova: non sarà infatti l’organo inquirente a dover dimostrare l’esistenza di una colpa organizzativa, ma la società a dover provare il contrario. Quanto pesantemente il legislatore abbia puntato sullo strumento del compliance program (così sono definiti i modelli di organizzazione e gestione nelle Federal Sentencing Guidelines in uso negli Stati Uniti) può essere facilmente intuito anche dalla lettura di disposizioni successive nello stesso testo di legge. Infatti, ai sensi dell’art. 17 (Riparazione delle conseguenze del reato), le sanzioni interdittive non si applicano quando, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, “l’ente [abbia] eliminato le carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante l’adozione e l’attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi”. Allo stesso modo, ai sensi dell’art. 49 (Sospensione delle misure cautelari), le misure cautelari possono essere sospese se l’ente chiede di poter realizzare gli adempimenti cui la legge condiziona l’esclusione di sanzioni interdittive a norma dell’art. 17 .

6. Conclusioni L’estensione della responsabilità degli enti ai reati ambientali ha così potenziato l’efficacia deterrente e repressiva dello strumento penale, tanto che non è azzardato affermare che oggi un approccio efficace a tali fenomeni di criminalità deve necessariamente passare per una verifica delle responsabilità aziendali, ripensando il processo contro gli ecodelitti come principalmente un processo all’ente responsabile . In aggiunta alle già citate sanzioni pecuniarie e (ove previsto) interdittive, vi sono infatti almeno altri due elementi di grande rilievo che consigliano il ricorso a questa nuova forma di responsabilità societaria: l’autonomia della responsabilità dell’ente (art. 8), e la possibilità di sequestro e confisca, anche per equivalente (art. 19). Per prima cosa, dunque, il processo penale contro l’ente può essere avviato e concluso anche in assenza dell’autore materiale del fatto da processare, vale a dire quando questo non sia stato identificato o per lui il reato sia estinto per un fatto diverso dall’amnistia, quale ad esempio la prescrizione. Questo significa che nei reati ambientali contravvenzionali, sebbene l’autore materiale possa ottenere nella quasi totalità dei casi il beneficio dell’estinzione del reato per prescrizione , all’ente, per converso, si applicherà quanto espressamente contenuto nel disposto dell’art. 22, in forza del quale, se l’azione penale e l’atto di incolpazione verso l’ente siano stati tempestivamente elevati entro cinque anni dal fatto, la prescrizione rimane interrotta fino al passaggio in giudicato della sentenza. Infine, con riguardo alla possibilità di sequestro e confisca, il decreto prevede che, con la sentenza di condanna, sia sempre disposta la confisca del prezzo e del profitto del reato, salvi i diritti acquisiti dai terzi in buona fede e la parte che può essere restituita al danneggiato. Nei casi in cui questo tipo di confisca non sia possibile, la stessa può avere a oggetto somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente. In tal senso, quindi, la potenziale ablazione di importanti somme di denaro o utilità societarie in ogni ipotesi di “ecodelitto” cui consegua un danno ambientale, è l’essenza stessa della grande potenzialità deterrente di questo corpus normativo in tema di criminalità d’impresa.