Rivista tecnico-scientifica ambientale dell'Arma dei Carabinieri                                                            ISSN 2532-7828

BIODIVERSITA' 
STRUMENTI (s.l.) PER IL NATURALISTA DI CAMPAGNA DEL XXI SECOLO
05/07/2024
Pierangelo Crucitti 
SRSN Società Romana di Scienze Naturali ETS - info@srsn.it


Il saggio parte dalla figura del moderno naturalista di campo (botanico, zoologo) che opera nelle più diverse realtà territoriali apportando un contributo originale allo studio della flora, della fauna e degli ambienti da lui esplorati in aree di più o meno rilevante interesse conservazionistico anche nel contesto del territorio italiano, tra i più ricchi di biodiversità in Europa. Tutto ciò grazie alla utilizzazione dei più diversi strumenti di lavoro rappresentati anche da opere editoriali ad hoc (liste rosse, field guides) che consentono inoltre la progettazione e la realizzazione di momenti di impegno collettivo nel contesto di attività di promozione della ricerca scientifica: la Citizen Science ne costituisce un esempio paradigmatico. 

This essay starts from the position of the figure of the modern field naturalist (botanist, zoologist) whose job realizes in the most diverse territorial realities making an original contribution to the study of the flora, fauna and environments in areas of more or less relevant conservation interest; also, in the context of the Italian landscape, among the richest of biodiversity in the whole Europe. All this thanks to the use of the most diverse working tools also represented by ad hoc editorial instruments (red lists, field guides) which also allow the planning and creation of moments of collective commitment in the context of activities to promote scientific research: the Citizen Science constitutes a paradigmatical example.

1.Generalità

Questo saggio che trae la sua origine dall’omologo seminario tenuto dallo scrivente presso il Dipartimento di Biologia Ambientale dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” il 19 aprile 2024, costituisce un complesso di riflessioni sulla biologia della conservazione, filone dell’ecologia applicata; una scienza “with a time limit” in quanto non abbiamo davanti a noi un tempo immensurabile per modificare il tasso di conversione degli habitat naturali del nostro pianeta che ha ormai raggiunto livelli esponenziali di crescita; non siamo allarmati ma seriamente preoccupati. Il laureato in Scienze Naturali che opera essenzialmente sul campo (l’ambiente nel quale svolge la sua attività di raccolta dati e materiali, finalizzata al conseguimento degli obiettivi prefissati nel contesto di ricerche accuratamente pianificate: un bosco, una grotta, una spiaggia, il deserto, la macchia mediterranea, un ecosistema urbano nel corso delle sue “bioesplorazioni”, un qualunque ambito geografico/geologico), deve essere anzitutto consapevole delle condizioni in cui versa il nostro pianeta. Il senso lato del titolo si riferisce al fatto che l’obiettivo di questo saggio è costituito dal costante riferimento a fondamentali strumenti concettuali e operativi: le liste rosse, le field guides, le attività di BioBlitz nel contesto di processi di Citizen Science, le varie “faune” nazionali in primis la collana “Fauna d’Italia”, infine le collezioni museali. Tutto ciò a supporto dei numerosi dispositivi (meccanici, ottici, elettronici) utilizzati dal moderno field zoologist/botanist: radar s.l., radio-tracking, fototrappole, fotocamere, binocoli, cannocchiali, dispositivi GPS, sensori e data-logger, sistemi di posizionamento GPS, GIS, droni. Il laureato in Scienze Naturali è preparato, durante il corso di studi, ad una visione organica e sintetica della natura e delle sue problematiche. Oggi più che mai, questa figura si qualifica come un operatore con una posizione centrale nel campo della gestione del territorio che tenga conto delle interazioni tra le esigenze dell’uomo e le altre componenti dell’ambiente in un’ottica di sempre maggiore integrazione dato che anche “noi siamo natura” secondo il titolo di una recente opera di Gianfranco Bologna. L’attività professionale del naturalista può essere esercitata a vari livelli: a) analisi e pianificazione territoriale, esecuzione di censimenti biologici, misure biotiche, redazione di carte, pianificazione ecologica del territorio; b) mantenimento e gestione ambientale: conservazione della natura, analisi di qualità ambientale; c) recupero ambientale: uso e sviluppo di tecniche di ingegneria naturalistica, progettazione nel campo della restoration ecology; d) problematiche di landscape ecology, educazione ambientale. I conservazionisti non possono certo limitarsi alla tutela delle specie per sé stesse, ma devono conservare l’intera combinazione di strutture biologiche che formano gli habitat. Nel contesto, la Defenders of Wildlife, organizzazione per la conservazione con sede negli Stati Uniti, funziona per proteggere gli animali e le piante autoctoni in tutto il Nord America nelle loro comunità naturali. In generale, questo elaborato dimostrerà che l’epoca delle esplorazioni sul campo e delle scoperte di nuove specie è tutt’altro che passata. 
 
Etica e scienza della conservazione: cenni storici

Dalle sue origini fino alla rivoluzione industriale del XVIII secolo, la popolazione umana non ha mai superato 500 milioni di individui; l’incremento demografico esplosivo avvenuto negli ultimi tre secoli rappresenta perciò un evento senza precedenti nella storia dell’umanità. Soltanto negli ultimi 50 anni siamo cresciuti da 1,65 miliardi fino a oltre 8 miliardi di individui raggiungendo una densità di popolazione 30 volte superiore a quella media di una specie animale onnivora della nostra taglia. Da solo l’uomo consuma, direttamente o indirettamente tramite gli animali di allevamento, circa il 40% della produzione primaria del pianeta. Il collasso e la devastazione della Terra sono caratterizzati da crisi ambientale, sanitaria, alimentare ed energetica con gravi conseguenze che hanno un impatto fortemente negativo sulla biodiversità terrestre e acquatica, sulla salute umana, delle piante e degli animali, sulla sicurezza alimentare e delle acque in termini quali/quantitativi, infine sulla salute degli oceani. Oltretutto, la sinergia dei fattori coinvolti in queste modificazioni si riverbera su altri fenomeni acuendone la gravità: nuove zoonosi, migrazioni, ingiustizie sociali. Ci chiediamo: che pianeta sarà la Terra in un prossimo futuro? Edward O. Wilson ci ammonisce con queste parole: “il solo processo in atto che per milioni di anni resterà irreparabile è la perdita della diversità genetica e l’estinzione delle specie provocate dalla distruzione degli habitat naturali. Questa è la pazzia che i nostri discendenti meno ci perdoneranno”. 
Dalla metà dell’Ottocento, come reazione alle trasformazioni operate dall’uomo sugli ambienti naturali, sino ad allora praticamente intatti, emerse, in particolare negli Stati Uniti, un movimento filosofico il cui obiettivo era sensibilizzare la pubblica opinione sull’importanza della natura per scopi diversi dal puro e semplice guadagno economico. I principali fautori di questo movimento, Ralph Waldo Emerson, Henry David Thoreau, John Muir, consideravano la natura un tempio ove ammirare l’opera del divino artefice. Nacque così l’esigenza di conservare intatti vasti paesaggi naturali di particolare bellezza e nel 1872 fu fondato lo Yellowstone National Park, primo parco nazionale della Terra e prima area pubblica protetta destinata a preservare nel tempo un ambiente naturale proteggendolo da ogni attività di trasformazione operata dall’uomo. Nel XX secolo, all’etica “romantica” della conservazione si contrappose l’etica di conservazione delle risorse. Questa visione spiccatamente antropocentrica, ispirata dalla necessità di ottenere la maggiore quantità di prodotti dalla natura per il tempo più lungo possibile, fu propugnata da Gifford Pinchot, primo Direttore del Servizio Forestale degli Stati Uniti. Queste visioni contrapposte della natura esercitano ancora oggi una influenza visibile sulla società. La trasformazione della natura da movimento filosofico a disciplina scientifica si deve all’ecologo statunitense Aldo Leopold (1887-1948), uno dei padri del movimento ecologista americano e internazionale, di cui ricordiamo anzitutto le riflessioni in “Almanacco di un mondo semplice”. Infine, non possiamo certo dimenticare l’opera di Rachel Louise Carson (1907-1964), biologa e zoologa statunitense: “Le nostre azioni sconsiderate e distruttive entrano a far parte dei vasti cicli della Terra e con il tempo ci ritornano indietro, creando pericoli per noi stessi”. Autrice di molti libri tra cui “Primavera silenziosa”(Silent Spring) che ebbe un enorme successo negli Stati Uniti d'America e lanciò il movimento ambientalista incitando un cambiamento nella politica nazionale sui fitofarmaci. 
Afferma Aldo Leopold: “una cosa è giusta quando tende a preservare l’integrità, la stabilità e la bellezza della comunità biotica. È sbagliata quando fa il contrario”. Una naturale espansione del suo pensiero è costituita dai postulati di Michael E. Soulé (1985) in “What is Conservation Biology? A new synthetic discipline addresses the dynamics and problems of perturbed species, communities, and ecosystems”:
1. la diversità degli organismi è una buona cosa; 
2. la complessità ecologica è una buona cosa; 
3. L’evoluzione è una buona cosa; 
4. L’estinzione prematura degli organismi non è una buona cosa; 
5. La diversità degli organismi ha un valore intrinseco.
 Il termine Biological Diversity fu utilizzato da Mark A. Wilcox nel 1984 per descrivere “la varietà di forme viventi, il ruolo ecologico che esse hanno e la diversità genetica che contengono” per quanto la sua forma contratta BioDiversity sembra sia stata usata correntemente da Walter G. Rosen in occasione del Forum organizzato a Washington dal 21 al 24 settembre 1986 dalla National Academy of Sciences e dalla Smithsonian Institution. Già nel 1986 questo termine si ritrova in un documento destinato al Congresso Americano; un senatore, avveduto e curioso, ne richiese il significato preciso con una domanda formale; l’OTA Office of Technological Assessment nel 1987 non solo ne spiegò il significato ma realizzò un volumetto in cui definiva la biodiversità. Dobbiamo soprattutto a Edward O. Wilson (1988) la diffusione dei principi ispiratori del concetto di biodiversità nella letteratura scientifica; non è certamente un caso che nel 1986 sia stata fondata negli USA la Society for Conservation Biology. In Italia incontriamo questo termine nel Conciso del Vocabolario della Lingua Italiana Treccani solo nel 1998 con una definizione tutt’altro che chiara: “la coesistenza di varie specie animali e vegetali in un determinato ecosistema, che ne garantisce l’equilibrio dinamico nel tempo, attraverso una complessa rete di interrelazioni”; solo nel Treccani Trevolumi (2007) è dedicata un’intera pagina di approfondimento al termine, finalmente spiegato in modo esauriente.
 “Quante sono le specie viventi?” Questa era una delle domande che si poneva G. Evelyn Hutchinson (1959), limnologo e pioniere degli studi sull’ecologia delle comunità, nel suo contributo “Homage to Santa Rosalia, or why are there so many kinds of animals?” pubblicato per il centenario della teoria di Darwin, proponendo tra l’altro Santa Rosalia come patrona degli studi evolutivi. In quella occasione Hutchinson toccava cinque principali temi in uno stimolante esempio di sintesi indirizzata alla individuazione di alcuni problemi centrali della diversità: lunghezza delle catene alimentari (suggerendo che esse siano verticalmente limitate ai 4-5 livelli trofici dalla perdita di energia da un livello trofico al successivo); relazioni tra le catene alimentari e relazioni tra complessità strutturale e stabilità dinamica; rapporto tra produttività e numero di specie e, conseguentemente, tra area e specie; rapporti di dimensioni corporee o di dimensioni di apparati trofici di specie affini simpatriche e sintopiche; infine, all’interno dello stesso livello trofico, le piccole specie sono più numerose di quelle grandi e, di conseguenza, la diversità realizzata dalle piccole specie è maggiore di quella realizzata dalle specie di grossa taglia. Problematiche approfondite anche in collaborazione con il suo allievo e pioniere dell’ecologia delle popolazioni e delle comunità Robert Mac Arthur (1930-1972), coautore con Edward O. Wilson (1929-2021) del classico saggio “The Theory of Island Biogeography” nel quale viene formulata la teoria della biogeografia insulare. Secondo la scuola hutchinsoniana, size-ratio e competizione sono strettamente correlate. Peraltro, la competizione pur potendo condizionare la struttura delle comunità e le interrelazioni tra le specie, non costituisce l’unico fattore coinvolto; altri fattori sembrano egualmente importanti, ad es. la predazione, il disturbo dell’habitat, la variabilità temporale. Nel contesto della problematica della diversità, l’ispirazione hutchinsoniana contribuisce allo studio del rapporto con la stabilità delle comunità. Ambienti stabili possono garantire l’esistenza di ecosistemi relativamente complessi e delicatamente bilanciati, mentre ambienti instabili ospiterebbero preferibilmente ecosistemi strutturalmente semplici e robusti. Il disturbo da parte dell’Uomo è pertanto assai più severo e traumatico nel caso degli ecosistemi più complessi con notevoli implicazioni ai fini della conservazione degli ambienti naturali. La stabilità fluttuerebbe con il passaggio, più o meno frequente, da uno stato di equilibrio ad uno di non equilibrio; di conseguenza, diversità e stabilità devono essere considerati concetti dinamici e non statici. 
 
Diversità e biodiversità: una messa a punto terminologica

Ricordiamo i livelli di biodiversità: diversità genetica; diversità a livello di ciascuna singola specie (variabilità di popolazione/i); diversità come varietà di specie; diversità come varietà di comunità; diversità come varietà di paesaggi. La biodiversità è la ricchezza e variazione strutturale, composizionale e funzionale su diverse scale dei sistemi viventi. Pertanto, il termine biodiversità include i taxa, la loro abbondanza, la variabilità genetica, i rapporti tra loro ed i processi ecologici che li coinvolgono all’interno degli ecosistemi incluso lo stesso potenziale evolutivo dei diversi gruppi tassonomici che vivono nell’area geografica considerata. Indagare le complesse interazioni tra tutti gli organismi viventi e il loro riflesso sugli ecosistemi è alla base della comprensione del concetto di biodiversità. A differenza della diversità non esiste peraltro un algoritmo che possiamo applicare alla misura della biodiversità; è impossibile possedere valori numerici relativi a tutti i gruppi tassonomici vegetali e animali, alla variabilità genetica degli organismi e alle interazioni tra gli organismi dal punto di vista ecologico ed evolutivo. Noi possiamo apprezzare un’area ad elevata biodiversità ma non possiamo attribuire un valore numerico come facciamo con le misure della ricchezza specifica. In molti casi la diversità (ricchezza specifica e numero di endemismi) è stata usata come prova di elevata biodiversità; il Mediterraneo, le Ande, il Madagascar sono considerati hotspot della biodiversità in quanto ospitano molte specie sia animali sia vegetali, numerose delle quali sono endemiche. È un modo semplificativo di apprezzare la biodiversità in quanto considera un solo parametro. La “vera” biodiversità, quella che anche tra i non addetti ai lavori è percepita come una qualità intrinseca e positiva di un ambiente, riguarda pertanto il solo numero di specie. All’interno di un determinato ecosistema, infatti, il numero di specie è sempre stato considerato una sorta di iniziale sebbene importantissima descrizione della complessità dell’ecosistema stesso. La Conferenza dell’ONU di Rio de Janeiro 1992, sebbene piuttosto datata, ha evidenziato il valore intrinseco della diversità biologica indicando i suoi molteplici contenuti ecologici, genetici, sociali, economici, scientifici, educativi, culturali, ricreativi, estetici. Quella domanda sul numero di specie che Hutchinson si poneva mentre esplorava il Monte Pellegrino presso Palermo alla ricerca di due specie del genere Corixa (emitteri acquatici) descritte da Fieber un secolo prima, è stata ripetuta da molti altri ricercatori nei successivi 60 anni ed è alla base della comprensione del concetto di diversità. Per attribuire un valore alla diversità intesa come ricchezza specifica è necessario fare uso di algoritmi alla portata di tutti; tra i più noti l’indice di diversità di Shannon -Wiener e quello di Simpson; dai quali è derivato l’indice di ‘equitability’ che corrisponde al valore massimo possibile della diversità. Questi indici si basano: a) numero di specie appartenenti ad un limitato gruppo tassonomico; b) numero (frequenza) di individui di ciascuna specie. In natura le specie si possono dividere in “molto comuni”, “comuni”, “poco frequenti”, “rare”, “rarissime”; utilizzando questa suddivisione si ottengono valori matematici di diversità che sono mediamente più bassi di quello che si otterrebbe con una frequenza delle specie equiripartita (= tutte le specie con lo stesso numero di individui, fatto ecologicamente impossibile). La diversità o ricchezza specifica è pertanto una componente della biodiversità. Diversità biologica, rispettivamente sostantivo e aggettivo, possono fondersi in un unico termine in cui l’aggettivo diventa prefisso del sostantivo. È corretto scrivere “diversità animale” o “diversità vegetale” non lo è “biodiversità animale” o “biodiversità vegetale”, la biodiversità è infatti unica, inclusiva ed è impossibile misurarla. 

2.La distribuzione della biodiversità

La biodiversità non è distribuita in modo uniforme sulla Terra, bensì varia con la latitudine, l’altitudine e altri fattori che agiscono su scala locale, ad esempio la presenza di barriere geografiche che ostacolano i movimenti individuali degli organismi, o di ambienti estremi come i deserti ai quali sono adattate un numero relativamente piccolo di specie. Su scala globale, la relazione più evidente è tra la biodiversità e la latitudine: la diversità biologica aumenta spostandosi dai poli verso l’equatore. Diversi fattori sono stati invocati per spiegare il fenomeno, ad esempio la disponibilità di energia che dipende dall’irraggiamento solare e aumenta quindi verso l’equatore. Una maggiore quantità di energia a disposizione degli organismi ne riduce la competizione permettendo la coesistenza di un più alto numero di strategie evolutive diverse e, di conseguenza, nel lungo termine, di un più elevato numero di specie. Allo stesso tempo, la maggiore stabilità climatica su scala evolutiva delle regioni equatoriali, libere dai ghiacci durate le glaciazioni, avrebbe favorito prolungati processi di speciazione. La diversità si concentra in alcune aree del pianeta nelle quali si riscontrano organismi e ambienti peculiari la cui distribuzione è molto ristretta e che pertanto non sono presenti altrove. Queste aree sono definite centri di endemismo e hanno un valore particolare in quanto uniche. La loro scomparsa comporterebbe la definitiva estinzione delle specie e degli ambienti che le ospitano. I centri di endemismo sono distribuiti in diverse regioni tra cui la Cordigliera delle Ande, il Madagascar, la Rift Valley e la regione del Lago Vittoria, l’Indonesia e la Nuova Guinea nel sud-est asiatico. La caratteristica comune dei centri di endemismo è l’isolamento fisico creato da rilievi inaccessibili (Cordigliera andina, Rift Valley) o dal mare (Isole dell’Indonesia, Nuova Guinea, Madagascar). Le condizioni di isolamento consentono alle popolazioni di evolvere rapidamente in specie per l’assenza di scambio genetico con le limitrofe popolazioni del continente o di altre isole dello stesso arcipelago. 

Diamo (e torturiamo) i numeri

Ricordiamo anzitutto l’aforisma di Robert Anson Heinlein: “se qualcosa non può essere espresso in numeri non è scienza: è opinione”. A livello globale, la diversità di specie può essere fondata su due assunti ben fondati: a) le specie viventi sono milioni; b) ne conosciamo solo una modesta percentuale; l’86% delle specie terrestri e il 91% di quelle degli oceani sono sconosciute alla scienza; in quest’ultimo decennio sono state descritte dalle 15.000 alle 20.000 specie di organismi viventi all’anno. Cosa fare? Descrivere tutte le specie ancora sconosciute richiede tempi e costi che raffrontati a quelli necessari oggi per descrivere annualmente le nuove specie, sono stimati in diverse centinaia di anni con l’evidente rischio che nel frattempo la maggior parte delle specie si saranno estinte ancor prima di essere scoperte. Pertanto non resta che mettere in pratica il suggerimento di Edward O. Wilson in una delle sue ultime pubblicazioni dall’eloquente titolo “La ricerca sulla biodiversità richiede più stivali sul campo”. Lo stesso autore ammette tuttavia che non sappiamo quante specie esistono e non sappiamo neppure stimare l’ordine di grandezza che potrebbe essere di 10 così come di 100 milioni. Si consideri che già nei primi anni ‘90 le specie conosciute erano 1.413.000 di cui 751.000 Insetti e tra questi ultimi 290.000 Coleotteri seguiti dagli Imenotteri con 103.000 e dai Lepidotteri con 112.000 specie; tra i vertebrati i Pesci costituivano la maggioranza con circa 18.000 specie. Questi numeri non tengono tuttavia conto della quasi sconosciuta biodiversità marina (appena 230.000 specie), in particolare quella degli abissi oceanici. La maggior parte delle specie conosciute è terrestre, eppure la parte più consistente dei phyla animali è invece marina. Infine, non possiamo dimenticare i batteri e i funghi; per i primi si sospetta che il numero di specie sia di almeno 1.000 volte superiore a quello attuale, valutato in poche migliaia; nel caso dei secondi, sono oggi formalmente riconosciute 69.000 specie che potrebbero superare agevolmente 1 milione e mezzo; per non parlare dei nematodi, vermi di cui sono state descritte appena 15.000 specie sui milioni prevedibilmente esistenti. Dopo le valutazioni del World Conservation Monitoring Center del 1992, una delle stime più recenti del numero di specie di piante, animali, funghi e microrganismi conosciuti è stata effettuata dall’IUCN (International Union for the Conservation of Nature), la quale tenendo traccia del numero di specie descritte sino ad oggi e aggiornando le cifre ogni anno sulla base dei lavori dei tassonomi, ha valutato in 2,13 milioni le specie oggi conosciute. Fra i diversi gruppi emerge, anche in questo caso, l’enorme numero di insetti che annoverano 1,05 milioni di specie; quindi le piante (piante a fiore, conifere, felci, muschi e alghe) con oltre 423.000 specie; infine, i funghi con 120.000 specie. 

3.La tassonomia in crisi

Il numero di specie lievita da circa 15.000 a 19.000 nuove unità ogni anno, per la maggior parte scoperte nella fascia tropicale. Ciononostante, la tassonomia è una scienza in crisi di risorse umane e finanziarie. Una crisi tanto grave da essere riconosciuta come “impedimento tassonomico”. Le conoscenze sulla biodiversità permangono largamente inadeguate: sia perché la maggior parte delle specie che vivono sulla Terra non sono state ancora formalmente descritte (carenza di Linneo, “the Linnean shortfall”); sia per la mancanza di conoscenze sulle relazioni evolutive esistenti tra le specie e quindi sui loro rapporti di parentela e affinità (carenza di Darwin, “the Darwinian shortfall”); sia perché la distribuzione geografica della maggior parte delle specie è poco conosciuta e spesso lacunosa (carenza di Wallace, “the Wallacean shortfall”). Le gravose lacune conoscitive sulla ricchezza, abbondanza e distribuzione delle specie sono sempre state considerate uno dei maggiori ostacoli per le azioni di conservazione della biodiversità. Oltre a questi tre deficit di base, i ricercatori ne hanno identificati altri che contribuiscono a peggiorare la nostra conoscenza sulla biodiversità. Questo stato di crisi è evidenziato dal lavoro di un team di ricercatori europei che ha utilizzato i database “Fauna Europaea e Zoological Record” per dimostrare che anche regioni altamente industrializzate sebbene con tradizioni consolidate di studi tassonomici come l’Europa, costituiscono importanti serbatoi di specie conosciute. Nel Vecchio Continente (Europa, Africa, Asia) si stanno scoprendo nuove specie con ritmi senza precedenti; dagli anni Cinquanta del secolo scorso ad oggi sono state descritte in media più di 770 nuove specie ogni anno che si aggiungono alle 125.000 specie di piante e animali terrestri e d’acqua dolce già conosciute. Il lavoro è per lo più sulle spalle di tassonomi non professionisti (indipendent researcher) che sono parte essenziale della forza lavoro dell’alfa-tassonomia, quella che porta appunto alla descrizione di nuove specie. I funghi costituiscono un mondo megadiverso ancora largamente inesplorato. Con 120.000 specie attualmente riconosciute, i micologi valutano che nella migliore delle ipotesi solo l’8% delle specie fungine siano state formalmente descritte sino ad oggi. L’ambizioso progetto “Map of Life (MOL)” si propone di creare una mappa interattiva in grado di stabilire dove la vita deve essere ancora scoperta; il Brasile, l’Indonesia, il Madagascar e la Colombia rappresentano i paesi con le maggiori opportunità di identificare nuove specie di vertebrati, in particolare anfibi e rettili delle regioni neotropicali e nelle foreste indomalesi. Se si potessero concentrare gli sforzi sulle specie meno conosciute, si potrebbe aumentare di 10 volte il tasso di scoperta per arrivare a completare il lavoro in 50 anni. L’International Institute for Species Exploration, ha lanciato la proposta: con 1 miliardo di dollari all’anno per finanziare 2.000 tassonomi specialisti, ciascuno supportato da uno staff di tre persone e con una descrizione di 100 specie all’anno per singolo tassonomo, si potrebbero aumentare le nuove descrizioni annuali a circa 200.000; peraltro, l'istituto si è sciolto nel 2018 quando il suo fondatore, Quentin D. Wheeler, si è dimesso. L’ambizioso obiettivo di descrivere 10 milioni di specie in meno di 50 anni è raggiungibile grazie all’innovazione tecnologica e ai progetti di digitalizzazione esistenti che facilitano l’accesso alla letteratura scientifica, a immagini, dati e campioni attraverso le tecnologie informatiche (cybertassonomia). Secondo Mark Costello è essenziale incrementare il catalogo della vita (COL - Catalogue of Life), elenco mondiale di tutte le specie conosciute. Inoltre è necessario stabilire una infrastruttura di comunità cooperativa online che aggiorni costantemente la nomenclatura delle specie e la colleghi alla letteratura, alle informazioni e alle competenze associate sul modello già operativo del WORMS (World Register of Marine Species). Infine è auspicabile creare un portale Internet come chiave per la vita sulla terra che dovrà essere implementato al più presto per facilitare chiunque a scoprire e nominare specie e a conoscere la loro storia naturale.

Record tropicali

Secondo E. O. Wilson “distruggere le foreste pluviali per un guadagno economico è come bruciare un dipinto del Rinascimento per cucinare”. Le foreste pluviali tropicali primarie sono ancora nelle condizioni originali, relativamente inalterate dalle attività umane. Hanno una struttura caratterizzata dalla volta delle chiome degli alberi, la canopia. Il suolo è generalmente privo di vegetazione perché la spessa copertura arborea lascia penetrare pochissima luce, limitando fortemente la crescita delle piante sotto gli alberi. La foresta primaria è il tipo di foresta biologicamente più diversificata al mondo, ma non sappiamo esattamente quante specie vivano in questi ecosistemi: le stime oscillano da 3 a 50 milioni. Le foreste temperate sono dominate da una mezza dozzina di specie arboree che costituiscono il 90% degli alberi di quei boschi mentre le foreste pluviali tropicali possono superare le 650 specie di alberi in un singolo ettaro di superficie boscata. Il 30% degli uccelli di tutto il mondo si trova nel solo bacino del Rio delle Amazzoni e un altro 16% in Indonesia; delle circa 250.000 specie di piante vascolari conosciute, 170.000 (il 68%) si trovano in queste foreste. E ancora: in un solo bacino idrografico del Perù sudorientale sono presenti 1.600 specie di Lepidotteri (farfalle diurne) contro le 380 dell’intera Europa e dell’area mediterranea del Nord Africa. Già Alexander von Humboldt nel suo viaggio equinoziale all’inizio dell’800, assieme all’amico Aimé Bonpland, con il quale esplorò gran parte del Sud America, nell’opera Ansichten der Natur (1808) constatava: “più ci si avvicina ai tropici, più aumenta la varietà morfologica e la leggiadria delle forme della combinazione dei colori, l’eterna giovinezza e il vigore delle forme viventi”. Gli ecologi hanno elaborato la Teoria della biodiversità ESA (energia-stabilità-area) secondo la quale la biodiversità aumenta al crescere della quantità di energia solare, della stabilità del clima, sia nell’arco delle stagioni sia in quello degli anni, e della superficie disponibile. Le specie adattate ai climi con variazioni stagionali presentano adattamenti più ampi che permettono loro di distribuirsi in aree più grandi. Climi più stabili, invece, consentono ad un maggior numero di organismi di specializzarsi in settori dell’ambiente più ristretti e di vincere la competizione nei confronti delle specie più generaliste. Una ipotesi interessante relativa all’esorbitante biodiversità vegetale dei tropici è stata avanzata da Phyllis Coley e Thomas Kursar. Questi autori propongono quale fattore fondamentale per questa enorme differenziazione, la presenza dei parassiti, il cui sviluppo è favorito dal clima caldo umido, che ha portato a una proliferazione delle difese da parte delle piante. Ciò innesca una sorta di “corsa agli armamenti” che favorisce i processi di speciazione. Dato che le piante fronteggiano ovunque le stesse sfide ambientali abiotiche (luce, acqua, sostanze nutritive), l’attenzione dei ricercatori si è concentrata sulla interazione tra i vegetali e i loro parassiti, che in genere sono maggiormente ostacolati nel loro sviluppo dalle condizioni climatiche temperate rispetto a quelle tropicali. Lo studio condotto in una foresta tropicale secca del Messico, nella foresta pluviale dell’Amazzonia e nel sottobosco ad arbusti del Panama, ha messo in evidenza come nell’intervallo di pochi metri, piante tra loro affini avessero messo a punto strategie difensive anche molto diverse nei confronti dei parassiti, pur avendo sviluppato soluzioni del tutto simili ai problemi posti dall’ambiente abiotico.

Biodiversità e conservazione

Dunque, abbiamo messo a fuoco alcuni quesiti fondamentali, relativi ad un’area geografica più o meno circoscritta. Quante specie? Quali specie? Quali relazioni tra le specie in un ecosistema? Gli ecosistemi, non le singole specie sono la chiave di lettura del problema della conservazione della vita sul pianeta e costituiscono anche parte della soluzione. Le innumerevoli specie che costituiscono la biodiversità non vivono mai da sole ma sempre in comunità biologiche ed ecosistemi diversificati in cui si instaurano complesse interazioni e relazioni. Conservazione ed evoluzione sono due concetti che non si applicano ai singoli individui ma piuttosto alle popolazioni. L’evoluzione è un cambiamento della frequenza dei geni all’interno delle popolazioni e non si applica agli individui che evidentemente si conservano nell’arco della propria vita modificandosi nell’aspetto esterno solo in seguito allo sviluppo e all’invecchiamento pur conservando sempre lo stesso patrimonio genetico e pertanto non essendo soggetti ad evoluzione. La maggioranza dei ricercatori è d’accordo sul fatto che il principale obiettivo della conservazione è quello di preservare sia i processi evolutivi sia la vitalità ecologica delle popolazioni, mantenendo la variabilità genetica delle diverse specie e i loro processi evolutivi; la conservazione è possibile solo con un approccio complessivo, a livello di biodiversità. L'investimento proposto andrà ripartito in modo da difendere il patrimonio naturale da una serie di modificazioni che E. O. Wilson riassume con l'acronimo HIPPO, ovvero “Habitat destruction, Invasive species, Pollution, Population, Overharvesting”. Esiste una continuità del processo evolutivo nello spazio e nel tempo; il grado di divergenza fenotipica e di isolamento riproduttivo di alcune specie può variare quantitativamente e spesso aumenta quando la divergenza evolutiva procede per stadi; dal polimorfismo alla differenziazione in popolazioni alla formazione di ecotipi alla speciazione e successiva divergenza. Se trasferiamo questi concetti nel campo della conservazione della biodiversità, risulta evidente l’importanza delle popolazioni che costituiscono una specie, in qualità di insostituibili componenti della biodiversità (dal punto di vista genotipico o fenotipico), tessere di un mosaico che meritano una adeguata conservazione per l’intrinseco potenziale evolutivo e le loro caratteristiche uniche. È appena il caso di ricordare che l’8 febbraio 2022 è stato introdotto un nuovo comma agli articoli 9 e 41 della Costituzione, con l’obiettivo di riconoscere il principio di tutela ambientale tra quelli fondamentali. Pertanto, accanto alla tutela del paesaggio e del patrimonio storico-artistico, si attribuisce alla Repubblica anche la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi. Queste modifiche alla Costituzione sono passate alla Camera quasi all’unanimità. Peraltro è necessario chiedersi se il politico medio si sia mai posta la domanda relativa alle conseguenze che questo cambiamento potrebbe avere sui nostri comportamenti. Ad esempio, il “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza”, noto come PNRR, cita il termine biodiversità 28 volte (e in un paio di casi anche al plurale) sebbene non molto sia stato fatto in Italia per la conservazione della biodiversità. Un dato di fatto realmente inammissibile è che troppo spesso i politici non si rivolgono ai tecnici s.l. (ad es. naturalisti) quando si affrontano, a livello locale, i problemi della conservazione e della sua (eventuale!) valorizzazione. La conservazione della biodiversità passa anche attraverso cambiamenti globali nella politica: il pensiero economico contemporaneo non riconosce che l’economia umana possa essere parte della natura ma tratta l’umanità come un cliente che attinge alla natura; se noi dobbiamo assicurare il mantenimento della biodiversità, dobbiamo anche porre dei limiti al suo sfruttamento. Partha Dasgupta e Simon Levin hanno presentato nel 2023 una grammatica per il ragionamento economico che non si basa su questo errore, ma su un confronto tra la nostra richiesta dei servizi ecosistemici e la sua capacità di fornirli in modo sostenibile ovvero senza compromettere le possibilità per le future generazioni di ottenere i propri bisogni. Questi autori suggeriscono che per misurare il benessere economico, gli uffici statistici nazionali dovrebbero stimare una misura inclusiva della ricchezza delle loro economie naturali, non del semplice PIL e della sua distribuzione; è invece opportuno utilizzare il concetto di ricchezza inclusiva per identificare gli strumenti politici che dovrebbero essere posti in atto per gestire beni pubblici globali, ad esempio il mare aperto o le foreste pluviali tropicali. La liberalizzazione del commercio non tiene conto del destino degli ecosistemi locali da cui si traggono ed esportano i prodotti primari. Il commercio porta ad un trasferimento di risorse che da ricchezza inclusiva di alcuni paesi diventano beneficio unico dei paesi importatori. Secondo Hutchinson (1962) “l’uomo sta causando l’estinzione di molte specie, spesso in modo indiscriminato. Noi possiamo sperare nell’inversione di tendenza di questo processo, se l’uomo comprenderà il valore della diversità nel senso economico non meno che in quello estetico e scientifico”. Sei anni dopo, nel 1968, Robert Kennedy (1925-1968) suggeriva: “se misuriamo il nostro progresso solo attraverso il benessere economico vuol dire che stiamo ignorando molto di quello che significa essere un abitante di questo pianeta”. E nei primi anni ’80 Thomas Lovejoy (1941-2021), nella veste di Vicepresidente per la Scienza del WWF negli Stati Uniti, ha concepito e lanciato per la foresta amazzonica il “Minimal Critical Size Project” successivamente definito “Biological Dynamics of Forest Fragments Project”. Lovejoy ha rivestito un ruolo importante nella Biologia della Conservazione quando nel 1978 partecipò alla First International Conference on Research in Conservation Biology, organizzata da M. Soulé e B. Wilcox i cui Proceedings del 1980 (“Conservation Biology: An Evolutionary-Ecological Approach”) hanno introdotto la biologia della conservazione all’interno della comunità scientifica internazionale, inclusi i ruoli della genetica e dell’ecologia delle popolazioni. Lovejoy coniò il fondamentale concetto di “debt - for - Nature swap”, un meccanismo che prevede che parte del debito estero di un Paese venga condonato in cambio di investimenti nella conservazione della natura. In pratica, i paesi ricchi dovrebbero pagare quelli poveri per garantire la conservazione degli oceani e delle foreste tropicali. E. O. Wilson (2016) nel suo ultimo libro “Metà della Terra” ha proposto provocatoriamente di destinare metà della superficie terrestre per preservare la biodiversità. Analogamente, David Attenborough, pioniere del documentario naturalistico e uno dei massimi divulgatori scientifici a livello mondiale, sostiene: “vorrei che il mondo fosse grande il doppio e metà di esso fosse ancora inesplorato”.

4.Protezione dell’habitat

Negli ultimi decenni un numero crescente di scienziati ha fatto rilevare che è giunto il momento di concentrare l’attenzione su una conservazione razionale, su scala continentale, degli ecosistemi che sostenga la massima diversità biologica invece di combattere una battaglia specie per specie a favore delle specie più rare e popolari, spesso designate come “specie bandiera”. Peraltro, oggi una specie bandiera viene scelta per simboleggiare un problema ambientale, ad esempio un ecosistema con la necessità di essere preservato: il panda gigante della Cina è una tipica specie bandiera. Concentrando l’attenzione su popolazioni già ridotte ad un piccolo numero di individui, si spende la maggior parte dei fondi disponibili per la conservazione a favore di specie che possono essere geneticamente condannate qualunque cosa si faccia. Mentre le specie bandiera quali il gorilla di montagna e la tigre reale si riproducono bene negli zoo e nei parchi di animali selvatici, gli ecosistemi che essi un tempo abitavano sono in gran parte scomparsi. Un pioniere di questa nuova forma di conservazione è J. Michael Scott, che ha diretto il programma di recupero del condor della California nella metà degli anni ’80 e precedentemente aveva dedicato 10 anni alle specie in pericolo di estinzione sull’Isola Hawaii. Nella realizzazione di carte delle specie in pericolo di estinzione, Scott scoprì che l’Isola Hawaii, dove più del 50% delle terre è di proprietà federale, ha molti tipi di vegetazione completamente fuori dalle riserve naturali. Le lacune (gap) tra le aree protette possono contenere un numero di specie in pericolo di estinzione maggiore di quello presente nelle aree protette stesse. Questa osservazione ha condotto ad un approccio denominato “gap analysis” (analisi delle lacune) in cui i conservazionisti cercano paesaggi non protetti, ricchi di specie. Grazie ai computer e ai GIS è possibile memorizzare, elaborare, recuperare e analizzare grandi quantità di dati utili ai fini della realizzazione di carte ad alta risoluzione. Questo approccio olistico ha contribuito al salvataggio di un maggior numero di specie rispetto a quanto abbia realizzato un approccio riduzionistico (specie per specie). Nel contesto, ricordiamo il ruolo rivestito dalla CITES (Convention on International Trade in Endangered Species) che dal 1975 ha rappresentato un fondamentale passo in avanti verso la protezione su scala mondiale della flora e della fauna in pericolo di estinzione. La CITES regolamenta il commercio internazionale di esemplari vivi e di prodotti derivati dalle specie incluse nell’elenco. Le indagini e l’applicazione delle norme sono particolarmente difficili nei Paesi in via di sviluppo dove la flora e la fauna selvatica stanno scomparendo più rapidamente. 

Homo sapiens, una specie intrusiva

La deforestazione è pratica antica, già i Romani si resero responsabili della deforestazione di vaste aree del Bacino Mediterraneo per ricavare il legname destinato alla costruzione di navi. Il cambio di passo nella velocità di conversione degli ambienti naturali è tuttavia dovuto alla utilizzazione di macchine a combustibili fossili che ha portato ad una riduzione delle foreste e delle aree umide stimata tra il 30% e il 50% nonché alla conversione in aree agricole delle praterie causando una riduzione di queste ultime prossima al 90%. Da tali presupposti e considerando che le risorse del pianeta sono tutt’altro che inesauribili, non sorprende che le specie viventi siano sottoposte ad una pressione intensa e crescente con numerose di esse a serio rischio di estinzione. Le specie stanno scomparendo ad una velocità elevata; almeno una specie di vertebrato all’anno negli ultimi 150 anni e, secondo alcune stime, una specie vegetale o animale al giorno. È opinione consolidata che il mondo stia sperimentando una estinzione di massa, l’ultima avvenuta dopo quella al passaggio K-T, 65 milioni di anni or sono e nota come estinzione dei dinosauri. Il termine Antropocene designa l'attuale epoca geologica nella quale l'essere umano con le sue attività è riuscito, con modifiche territoriali, strutturali e climatiche, ad incidere sui processi geologici. Ricordiamo a questo punto la P di “Population” dell’acronimo HIPPO coniato da E. O. Wilson. E ricordiamo inoltre che per “biomassa” si intende un insieme di organismi animali o vegetali presenti in una certa quantità in un dato ambiente come quello acquatico o quello terrestre. In generale è la capacità di un determinato ecosistema di produrre massa organica attraverso processi autotrofici e processi eterotrofici. Può essere calcolata in massa di carbonio ed espressa in gigatonnellate (GtC) ove 1 GtC è pari ad un miliardo di tonnellate di carbonio, in quanto indipendente dal contenuto di acqua degli organismi. Se analizziamo la ripartizione della biomassa globale dei diversi taxa constatiamo che, su un totale di circa 550 GtC, quella terrestre è largamente predominante rispetto a quella marina, stimata in sole 6 GtC. È pure evidente che le piante terrestri con circa 450 GtC costituiscono di gran lunga i dominatori del Pianeta; impressionante la quota della biomassa dei batteri con circa 70 GtC che si trovano prevalentemente in ambienti profondi del sottosuolo. Gli animali con circa 2 GtC, sono rappresentati principalmente da organismi marini; in questo regno domina la biomassa degli Artropodi seguiti dai Pesci. L’esame della biomassa globale evidenzia una netta differenza tra gli ambienti terrestri e quelli marini. Gli oceani e i mari coprono il 71% della superficie terrestre, ciononostante la biomassa marina è appena poco più dell’1% della biomassa totale. Sorprende la netta predominanza delle biomasse degli animali domestici (0,1 GtC) e degli umani (0,06 GtC) sul resto dei mammiferi selvatici (0,007 GtC) e questo vale anche per gli uccelli per i quali la biomassa del pollame domestico è circa tre volte superiore a quella degli uccelli selvatici. Pertanto, nonostante la biomassa della specie umana sia solo lo 0,01% della biomassa vivente sulla Terra, tuttavia è dieci volte maggiore di quella di tutti i mammiferi selvatici, mentre la biomassa dei mammiferi domestici è quattordici volte superiore a quella dei mammiferi selvatici. In altri termini, la biomassa di tutti i Mammiferi è costituita da bovini, ovini, caprini, suini, equini e tutti gli altri mammiferi di allevamento; il 36% è costituito da tutti gli esseri umani e solo il 4% è costituito da tutte le specie selvatiche, dalla balenottera azzurra ai toporagni. Della biomassa degli uccelli solo il 30% costituisce l’avifauna selvatica, il restante 70% è costituito da “specie” allevate per i nostri scopi, polli, oche, anatre. All’inizio del Novecento, la situazione era totalmente diversa, le specie selvatiche di uccelli e mammiferi costituivano la maggior parte della biomassa dei vertebrati del pianeta. E dove ci sono bovini, ovini e altro bestiame al pascolo, ci sono meno specie selvatiche; viceversa, quando il bestiame viene rimosso, l’abbondanza e la diversità di quasi tutti i gruppi di animali selvatici aumenta.

Problematiche sul futuro dell’umanità

Si stima quindi che la popolazione umana, raddoppiata negli ultimi 40 anni, aumenterà nuovamente della stessa quantità nei prossimi 40. Si stima inoltre che gli esseri umani abbiano modificato oltre il 50% della superficie terrestre, un tasso di trasformazione evidentemente insostenibile. Lo studio dei cambiamenti globali che hanno luogo nei sistemi naturali e l’analisi del contributo dovuto all’azione umana implica ricerche di grande attualità in diversi settori della scienza. Le Nazioni Unite hanno costituito da tempo due forum scientifici per comprendere al meglio la dimensione e gli effetti dei cambiamenti in atto nel sistema climatico e la dimensione e gli effetti degli impatti sullo stato degli ecosistemi e della biodiversità, due problematiche centrali per il futuro dell’umanità. Per il cambiamento climatico si tratta dell’IPCC Intergovernmental Panel on Climate Change (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, 1988) che svolge analisi sullo stato delle conoscenze scientifiche relative ai cambiamenti climatici, ai loro impatti e ai rischi ad essi connessi, oltre alle opzioni per la loro mitigazione e l’adattamento su scala mondiale e regionale con risultati che consentono di valutare l’andamento del clima a livello globale e regionale. Per i sistemi naturali si tratta dell’IPBES (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services, Piattaforma intergovernativa sulla biodiversità e i servizi ecosistemici, 2012) per le conoscenze sulla situazione della biodiversità e degli ecosistemi nel mondo con una specifica focalizzazione sulla situazione dello stato della vitalità e dei servizi ecosistemici. Le evidenze scientifiche raccolte in oltre 60 anni di ricerche hanno permesso di chiarire in modo inequivocabile che le attività umane svolgono un ruolo preponderante nella genesi dei cambiamenti climatici e nella profonda trasformazione dei sistemi naturali determinando la progressiva perdita di biodiversità e l’incisivo degrado delle condizioni ambientali. I drammatici risultati sono tangibili. Limitandoci ai soli vertebrati, gli anfibi sono la classe più minacciata al mondo: crisi idrica e, più in generale, pressioni connesse con i cambiamenti climatici; alterazione dei siti riproduttivi e consumo di suolo; patologie e aspetti sanitari connessi; introduzione di specie alloctone (o “aliene”); proliferazione di specie autoctone ma ormai “invasive” prelievo eccessivo per gli scopi più diversi (collezionismo, terrariofilia); un vero “fuoco concentrico” di fattori micidiali. Sicché il 41% di rane, rospi, salamandre, tritoni e cecilie è a rischio di estinzione a fronte del 26,5% dei mammiferi, 21,4% dei rettili, 12,9% degli uccelli. Le concentrazioni più elevate di specie minacciate si riscontrano in America Centrale, Ande tropicali, montagne del Camerun occidentale e Nigeria orientale, Madagascar, Ghati occidentali (India) e Sri Lanka. Oggi l’uomo sta riportando il pianeta alla situazione analoga a quando esisteva un unico grande continente. Prima che gli umani entrassero in scena, gli animali e le piante avevano difficoltà a trasferirsi in posti nuovi; ad eccezione di uccelli e spore che potevano essere trasportate dal vento, in grado quindi di attraversare gli oceani verso nuovi continenti. Le attività umane di introduzione attiva e passiva di specie aliene stanno riorganizzando il biota terrestre con il risultato che località reciprocamente molto lontane sono diventate più o meno simili nella composizione delle specie. A causa di questo rimescolamento antropogenico si verifica una certa omogeneizzazione di quasi tutti i gruppi tassonomici, con un cambiamento della ricchezza di specie e una generale somiglianza delle comunità che compongono gli ecosistemi. Per contrastare, almeno in parte, queste tendenze è possibile sviluppare alcune buone pratiche che per gli anfibi e i rettili possono essere: miglioramento e gestione dei siti riproduttivi; mitigazione degli investimenti stradali (roadkill); prevenzione sanitaria; interventi di eradicazione di specie alloctone. La misura della frammentazione degli ecosistemi e il dimensionamento dei corridoi di connessione fra le aree di riserva come la perimetrazione stessa dei parchi e delle cinture di rispetto sono impossibili oggi senza i criteri dell’ ecologia del paesaggio. Anche l’abbandono di criteri “puristi” cioè volti al recupero di una mitica naturalità senza alcun intervento umano, è dovuto a principi di ecologia del paesaggio. L’obiettivo ultimo è la definizione di paesaggio vegetale inteso come fisionomia sia di ambienti con vegetazione naturale sia di ambienti modellati dall’azione dell’uomo.

La straordinaria ricchezza della fauna d’Italia

L’Italia è caratterizzata da un patrimonio di biodiversità tra i più significativi in ambito europeo, sia per numero totale di specie animali e vegetali sia per l’elevato tasso di endemismo. Tale ricchezza è dovuta alla grande diversità litologica, topografica e climatica che caratterizza il nostro Paese, alla sua storia paleogeografica e paleoclimatica, nonché alla posizione centrale nel bacino Mediterraneo, che rappresenta uno degli hotspot di biodiversità definiti a scala planetaria. L’Italia stessa è sede di importanti aree “ad alta densità” di biodiversità ed endemismo, come ad esempio le isole tirreniche, l’Appennino Centrale, le Alpi Marittime e Liguri. Le attuali conoscenze ci dicono che la flora italiana è costituita da un numero veramente consistente di entità (specie e sottospecie), con 1.169 Briofite (di cui 297 Epatiche e Antocerote e 872 Muschi), 2.704 Licheni e ben 8.195 entità di Piante vascolari (di cui 23 Licofite, 108 Felci e affini, 30 Gimnosperme, 8.034 Angiosperme). La fauna italiana (marina, terrestre e d’acqua dolce) è stimata in oltre 60.000 specie, di cui circa il 98% costituito da Invertebrati e il rimanente da circa 1.300 specie di vertebrati. Il phylum più ricco è quello degli Artropodi, con quasi 50.000 specie, in buona parte appartenenti alla classe degli insetti, in particolare coleotteri (circa 13.000 specie). Deve essere sottolineata anche l’importanza della componente marina: la flora presente nei mari italiani ammonta a quasi 2.800 specie, di cui oltre 1.400 di fitoplancton, mentre la fauna è stimata in oltre 9.300 specie, di cui poco più di 1.000 protozoi. L’Italia oltre a essere tra i Paesi europei con maggior ricchezza floristica e faunistica, è caratterizzata da elevatissimi tassi di endemismo, ovvero dalla presenza di specie che vivono solo all’interno dei suoi confini. Gli elevati numeri di specie esclusive del nostro Paese comportano una grande responsabilità in termini di conservazione. Basti pensare che per la flora vascolare si raggiungono percentuali di endemismo superiori al 16%, essendo note ad oggi 1.371 specie e sottospecie endemiche italiane o subendemiche (ad esempio Italia e Francia metropolitana). Inoltre è endemico o subendemico del territorio italiano il 20% delle specie animali terrestri e d’acqua dolce. Tassi significativi di endemismo si rilevano tra gli anfibi (31,8%) e i pesci ossei d’acqua dolce (18,3%): più rari gli endemismi nella fauna marina.
Esaminiamo ora vari dati effettuando alcune, significative, comparazioni. I ragni (Araneae) delle Isole Britanniche contano circa 670 specie; nel contesto, l’araneofauna italiana, la più ricca di specie a livello europeo, con 53 famiglie rappresentate da 434 generi, conta oltre 1.670 specie. All’interno di questo grande numero, possiamo trovare specie tipiche delle aree centro-settentrionali europee, specie tipiche del bacino mediterraneo e del Nordafrica, ed infine una importante componente di specie endemiche sia insulare e sia legata a particolari ambienti peninsulari, come gli isolati ecosistemi alpini o i complessi ed estesi ambienti cavernicoli. I Coleoptera delle Isole Britanniche contano circa 4.000 specie, in Italia circa 13.000 specie; i soli scarabeidi (Scarabaeidae Latreille, 1802), famiglia dell'ordine dei Coleotteri comprendente più di 20.000 specie, di cui oltre 300 presenti in Europa, contano 200 specie in Italia. I Coleotteri saproxilici, sono associati più o meno strettamente, almeno in una fase del loro ciclo vitale, al legno di piante morte o deperenti in ambienti forestali e di macchia, o a materiali lignei di origine esogena (ad esempio i tronchi spiaggiati lungo gli ambienti litoranei sabbiosi o nelle anse delle principali aste fluviali). Nell’ambito dell’insieme, molto eterogeneo, di Coleotteri presenti in Italia, i saproxilici rappresentano, con circa 2000 specie censite, una componente emblematica della biodiversità terrestre, sia in termini di ricchezza e di valenza ecologica, sia di vulnerabilità alle minacce; il loro studio complessivo ha inoltre rappresentato un impegnativo sforzo di sintesi a cura di molti autori, rappresentato da una lista rossa nazionale, la “Lista Rossa dei Coleotteri saproxilici italiani”, edita nel 2014. I Coleotteri saproxilici costituiscono un anello essenziale nell’evoluzione dinamica degli ecosistemi forestali oltre che nel complesso sistema di trasformazione delle biomasse lignee in tutte le tipologie di ambienti naturali e ad influenza antropica. Costituiscono inoltre una delle principali fonti di cibo per molte specie di uccelli e di altri piccoli predatori vertebrati e rappresentano un gruppo ritenuto essenziale per ricerche sulla biodiversità terrestre e sulla frammentazione e trasformazione degli habitat. Infine, gli ortotteri (Orthoptera) sono rappresentati nelle Isole Britanniche da appena 33 specie, in Italia sono 382 con ben 162 specie endemiche, il 42,4% dell’intera ortotterofauna italiana. Analogamente agli altri paesi europei, la nostra fauna viene illustrata, a partire dal 1956, dai volumi della collana “Fauna d’Italia” che hanno raggiunto attualmente l’importante numero di 53; ciascun volume illustra un gruppo tassonomico di cui riporta il numero di specie, analiticamente illustrate e descritte sino al momento della stampa. Siamo tuttavia ancora lontani dalla trattazione esaustiva della nostra fauna tramite i volumi di questa collana, per non parlare poi dell’aggiornamento, assolutamente necessario, dei volumi più datati, ancora incompleto; ad esempio, il primo volume della collana dedicato agli Odonata (1956) riportava 80 specie per la nostra fauna, valore oggi prossimo al centinaio, di cui peraltro non esiste ancora il volume dedicato.

Le potenzialità di territori poco esplorati

Quando si lavora sul campo per una ricerca, si tende ragionevolmente a concentrare l’attenzione sulla progettazione, sulle metodologie, sugli aspetti tecnici del campionamento e sui risultati che potranno emergere dal lavoro scientifico. La messa a punto di idonei metodi di valutazione delle potenzialità floro/faunistiche di un territorio costituisce la risultante di tre insiemi di variabili reciprocamente legate: 
1. le caratteristiche peculiari del territorio che si esplicano nella capacità portante dei suoi ambienti; 
2. l’utilizzazione antropica del territorio (urbanizzazione, infrastrutture); 
3. l’azione diretta dell’uomo sulla flora e sulla fauna (prelievo venatorio, attività agricole, traffico stradale, immissione di specie animali). 
Restiamo per il momento al sicuro dalle sorprese occupandoci di piante e vertebrati terrestri che, sebbene meglio conosciuti di tanti altri gruppi in termini di biodiversità, possono riservare ancora notevoli sorprese. 
Le piante. Il “green power” non è solo nel dominio assoluto della biomassa totale degli organismi viventi, si palesa anche nel numero di specie che si sono diversificate nel corso della storia della vita sulla Terra, a partire dalle alghe primordiali circa 500 milioni di anni fa. Secondo il lavoro condotto da un gruppo di botanici coordinati da Maarten Christenhusz, il numero di specie vegetali attualmente noto è di 374.000 specie di cui 308.312 sono piante vascolari, con 295.383 angiosperme. Fra le altre specie botaniche valutate in questa ricerca troviamo anche circa 44.000 specie di alghe, 12.700 di muschi, 10.560 di felci e poco più di 1.000 gimnosperme (conifere in generale; pini, cipressi, abeti). Ogni anno vengono descritte mediamente oltre 2.000 nuove specie, tuttavia il tasso di scoperta sta rallentando in modo preoccupante. Le cause sono sempre le stesse: carente sostegno finanziario e scientifico agli studi tassonomici. Oltretutto, fino a quando le specie non sono conosciute ufficialmente, non possono essere valutate esaustivamente come potenziali alimenti, medicinali e prodotti biotecnologici. Martin Cheek e coll. valutano le specie botaniche descritte negli ultimi 15 anni, rilevando tassi di incremento annuo da 2.100 a 2.600 specie nuove. Tra le famiglie di piante che presentano la maggiore ricchezza di specie formalmente accettate vi sono le Asteraceae con 32.000 specie, le Orchidaceae con 30.000 specie e le Fabaceae con 22.000 specie. La maggior parte delle nuove specie descritte nel 2019 sono le orchidee con 288 specie. Fra i primi paesi nella classifica delle scoperte di nuove specie vegetali vi è il Brasile in cui vengono identificate più di 200 nuove specie all’anno (circa il 10% del totale delle nuove specie vegetali scoperte annualmente), seguito dalla Cina, dalla Colombia e dall’Australia. Il predominio di questi paesi nella classifica delle novità botaniche è attribuibile a fattori comuni a tutti i paesi molto vasti e ricchi di biodiversità, relativamente stabili dal punto di vista politico e che hanno un numero abbastanza elevato di tassonomi professionisti attivi. Roberto Cazzolla Gatti e colleghi, hanno quantificato il numero di specie arboree su scala continentale e globale. Le stime mostrano una ricchezza globale di alberi di circa 73.300 specie, pari a circa il 14% in più di quelle conosciute ad oggi: gli autori di questo lavoro valutano che circa 9.200 specie di alberi debbano ancora essere scoperte. La maggior parte delle specie sconosciute sono rare, generalmente endemiche e localizzate soprattutto nelle fasce tropicali e subtropicali; circa un terzo di queste specie presentano popolazioni molto piccole e con una distribuzione spaziale limitata, per lo più localizzate in remote regioni tropicali e nelle montagne del Sud America, dell’Asia e dell’Africa. I risultati di queste ricerche evidenziano la vulnerabilità della diversità globale delle specie arboree ai cambiamenti antropogenici. Ogni anno i botanici dei Kew Gardens si avventurano nei deserti, nelle foreste pluviali, nei boschi e sulle montagne con l’obiettivo di scoprire e descrivere nuove piante. Nel 2018 hanno scoperto 128 piante vascolari provenienti dalle Americhe, dall’Asia e dall’Africa, molte di queste in serio pericolo di estinzione. Se analizziamo lo stato dell’arte della nostra flora, scopriamo, con una certa sorpresa, come anche in Italia in questi ultimi anni siano state descritte nuove specie, spesso endemiche ovvero specie presenti in aree molto circoscritte del Paese. Secondo un recente studio, se si considera la flora vascolare autoctona d’Italia, attualmente sono inventariati 8.195 taxa diversi, di cui 6.417 specie e 1.778 sottospecie. La maggiore concentrazione di entità autoctone è situata nel centro nord con il primato del Piemonte (3.463), seguito da Toscana, Lombardia, Abruzzo e Lazio. I taxa endemici italiani sono 1.708, raggruppati in 70 famiglie e 13 generi di cui 4 sono endemiti stretti e tre esclusivi di Sardegna e Corsica. L’ultimissima new entry, sempre proveniente dall’Appennino Centrale, è Allium ducissae individuata nell’area del Massiccio del Velino, un territorio a bioclima continentale, dove questa specie cresce in siti con esposizione a nord con lunga persistenza del manto nevoso, in fenditure su rocce calcaree, pendii rocciosi e cenge erbacee. 
Gli animali: riferendoci ora ai soli vertebrati terrestri, le stime del numero di specie attualmente descritte e riconosciute sono: 6.399 mammiferi, 11.162 uccelli, 11.733 rettili, 8.474 anfibi.
   L’autorevole database Amphibia Web, che ha come principale missione quella di condividere informazioni sugli anfibi per facilitare la ricerca e la loro conservazione, registra ogni anno le specie descritte in tutto il mondo: sino all’agosto 2023 erano elencate un totale di 8.680 specie riconosciute dalla scienza, di cui 7.645 sono rane e rospi, 814 sono tritoni e salamandre, 221 sono apodi. Dal 1985 le specie riconosciute sono aumentate di oltre il 60%. Nel sito è possibile analizzare il numero di specie batracologiche rilevate paese per paese. La classifica vede nelle prime cinque posizioni: Brasile con 1.172 specie, Colombia 832, Equador 685, Perù 669, Cina 599. L’Italia con 48 specie è il primo paese europeo a comparire nella classifica al 57° posto. Nell’ultimo decennio il tasso di scoperta si aggira sulle 155 nuove specie all’anno; ad agosto 2023 erano già 95 i nuovi anfibi descritti. Le sorgenti di questo nuovo apporto di specie sono prevalentemente il Sud America e la Cina; dal 2014 ad oggi, abbiamo al primo posto il Brasile con 201 specie nuove, al secondo la Cina con 192, al terzo l’Equador con 126 specie nuove, a seguire, il Madagascar con 115 nuove specie descritte negli ultimi 10 anni. Un parametro utile per individuare i progressi nella catalogazione degli Anfibi a livello globale è il numero di lavori tassonomici pubblicati nelle riviste specialistiche. Una recensione sulle pubblicazioni tassonomiche relative ad anfibi negli ultimi due decenni, dal 2001 al 2020, riporta la descrizione di 2.533 specie di rane, 259 di salamandre e 555 di apodi, principalmente nelle regioni tropicali del Sud America, dell’Asia e dell’Africa. Ben 14 nuove specie sono state individuate nel gruppo delle rane danzanti del genere Micrixalus, endemiche dei Ghati occidentali (India). Gli autori stimano che almeno il 25% delle specie di anfibi brasiliani non sia ancora stato descritto e suggeriscono di concentrare gli studi in Amazzonia e nelle regioni centrali del Brasile (Cerrado), aree ritenute prioritarie per la ricerca erpetologica. Anche in Italia il catalogo delle 41 specie di Anfibi ad oggi riconosciute viene costantemente aggiornato da revisioni tassonomiche. L’ultima novità è la raganella padana Hyla perrini, presente nella Pianura Padana, nel Canton Ticino e in parte della Slovenia occidentale. 
Per avere una idea aggiornata di quante specie di Rettili siano state descritte sino ad oggi possiamo consultare il Reptile Database. Aggiornato al dicembre 2022 registra 11.940 specie riconosciute dai tassonomi. Di queste 201 sono anfisbene, 7.310 sauri, 4.038 serpenti, 363 tartarughe, 27 coccodrilli, più le due specie di rincocefali del genere Sphenodon (tuatara). Negli ultimi dieci anni il tasso medio di scoperte è di circa 236 nuove specie descritte annualmente. La maggiore concentrazione di rettili è nell’Asia sudorientale, in Indonesia, Malesia e Indocina, oltre al Centro America, tutti hotspot di biodiversità rettiliana. Un’altra area del pianeta ricca di specie è localizzata nel Paleartico occidentale, in particolare dal Nord Africa al Medio Oriente, all’Iran, fino alla Penisola Arabica. La checklist erpetologica italiana elenca 59 specie fra sauri, serpenti e testuggini, alcune endemiche della Penisola, della Sardegna e della Sicilia. A queste si potrebbero aggiungere alcuni nuovi taxa recentemente proposti come Hierophis carbonarius, e la lucertola delle Isole Pontine Podarcis latastei.
Nella poderosa checklist mondiale degli uccelli (2 vol.), citata da Josep del Hoyo e Nigel J. Collar, sono elencate 10.964 specie ornitiche. Un lavoro condotto dall’American Museum of Natural History tuttavia suggerirebbe che nel mondo ve ne siano molte di più. Lo studio si concentra sulla diversità “nascosta”; uccelli simili tra loro che nella realtà sono specie diverse. Peraltro, gli uccelli sono tradizionalmente considerati un gruppo ben studiato, infatti si stima che oltre il 95% delle specie sia stata già descritta. Per questo studio vari autori hanno esaminato un campione casuale di 200 specie attraverso una approfondita analisi morfologica: il risultato ha prodotto mediamente quasi due specie diverse per ciascuno degli uccelli studiati, indicando quindi una stima di 18.043 specie in tutto il mondo. In una successiva analisi sono stati esaminati dati genetici intraspecifici di 437 specie, riscontrando una media di 2,4 nuove unità evolutive per singola specie analizzata e portando quindi la stima totale a più di 20.000 specie ornitiche globali. Inoltre, per quanto stupefacente possa sembrare, ogni anno gli ornitologi scoprono specie di uccelli sorprendentemente nuove per la Scienza, tra cui alcune vistose e bizzarre. Il Sud America concentra il maggior numero di scoperte: dal 1960 al 2016 le nuove specie descritte sono state 288, delle quali 50 in Brasile e 49 in Perù. In termini di biodiversità, la Nuova Guinea è più simile ad un continente che a un’isola. Vi si trova circa il 6% delle specie terrestri conosciute nel mondo di cui circa la metà strettamente endemiche. L’isola ospita più di 800 specie di uccelli incluse 38 delle 42 specie di Uccelli del Paradiso oggi conosciuti. Si stima che un solo chilometro quadrato di foresta pluviale di pianura possa contenere 150 specie diverse di uccelli. Nel 1989 una spedizione zoologica dell’Università di Chicago in Nuova Guinea scoprì casualmente che il piumaggio dell’uccello canoro dal vistoso colore nero e arancione appartenente alla famiglia degli Oriolidi, il pitoui dal cappuccio Pitohui dichrous, conteneva la batracotossina, una molecola neurotossica più potente della stricnina tipica di certi anfibi (dendrobatidi) e mai rilevata negli uccelli; oggi sappiamo che in Nuova Guinea ci sono sei specie endemiche di uccelli velenosi.
La biodiversità dei Mammiferi è stupefacente e li rende un gruppo assolutamente carismatico. La loro straordinaria radiazione adattativa ha portato a migliaia di specie con differenziazioni mastodontiche; dal pipistrello calabrone al mustiolo di appena due-tre grammi, alla balenottera azzurra che può raggiungere 190 tonnellate. Secondo Gerardo Ceballos e Paul Ehrlich, dal 1993 al 2006 sono state scoperte 408 specie di mammiferi pari al 10% di quelle già conosciute e si tratta di specie non solo criptiche ma anche di grossa taglia. Le nuove descrizioni appartengono soprattutto a roditori (174 specie), pipistrelli (94) e scimmie (55). Nuove specie sono state scoperte in tutti i continenti eccettuata l’Antartide, per lo più in Centro e Sud America, con particolare concentrazione in Messico, nella Colombia orientale, in Perù, in Equador, nel bacino amazzonico e nelle foreste atlantiche del Brasile. Sorprendentemente, anche in Europa sono state scoperte diverse nuove specie, principalmente nelle aree prospicienti il Bacino del Mediterraneo. È interessante rilevare come la distribuzione dei mammiferi scoperti di recente includa spesso vaste aree che non sono considerate hotspots della biodiversità, il che indica che sono necessarie strategie di conservazione che vadano ad integrare quelle attuate nelle aree già protette. Il database dell’American Society of Mammalogists (ASM) offre un quadro aggiornato al 2022 dei Mammiferi attuali suddivisi in 27 ordini, 167 famiglie e 1.342 generi. Il Mammal Diversity Database (MDD) include un elenco di 6.495 specie attualmente riconosciute (96 estinte recentemente, 6.399 ancora esistenti) con un incremento di 1.079 specie in circa 13 anni. Un tasso globale a lungo termine prevede la descrizione di circa 25 nuovi mammiferi all’anno, con una situazione molto fluida, secondo alcuni studiosi ci sono centinaia di specie di mammiferi ancora da scoprire per lo più di piccola taglia (pipistrelli, roditori, toporagni, talpe). La maggiore ricchezza si riscontra nelle regioni neotropicale, afro tropicale e del Sud-Est asiatico. Il gruppo più ricco è quello dei roditori, seguiti dai Chirotteri e dai Soricomorpha. 

La funzione dei musei di storia naturale

Gli ambienti nei quali si concentra l’attività del naturalista sono lo studio/laboratorio, la biblioteca (del dipartimento universitario), il campo, il museo di storia naturale e le sue collezioni - un erbario, una raccolta a secco (di conchiglie, scheletri, animali tassidermizzati) o in liquido di esemplari biologici; l’orto botanico; il bioparco. I biologi (botanici, zoologi) sul campo hanno continuato tradizionalmente a raccogliere campioni di esemplari (voucher specimen) da convogliare come tipi nelle collezioni dei musei per attestare la descrizione di una nuova specie. Per quanto questa pratica sia tuttora indispensabile, talvolta accresce il rischio di estinzione di popolazioni piccole e isolate. Per limitare l’impatto i ricercatori hanno oggi a disposizione adeguati metodi alternativi di documentazione, compresa la fotografia ad alta risoluzione, la registrazione audio e il campionamento non distruttivo degli esemplari; è quanto mai opportuno rivedere e riconsiderare le metodologie che prevedono prelievi di esemplari in natura. Ciò che si trova nei musei di storia naturale di tutto il mondo è, anche, una cronaca biologica, la storia di come i più diversi esseri viventi hanno vissuto nei secoli, adattandosi alle trasformazioni naturali e a quelle antropiche, resistendovi, oppure viceversa soccombendo di fronte a sfide che non erano attrezzati ad affrontare. Analizzando, studiando e decrittando tutti i segreti di questi reperti, che si stima siano circa 2,2 miliardi in tutto il mondo, raccolti nei musei negli ultimi 300 anni, si potrebbero capire meglio quali sono state le conseguenze di qualche catastrofe naturale che ancora conosciamo poco o, al contrario, di situazioni climatiche ostili, di pandemie dimenticate, avvelenamenti di massa, carestie, impatto di un meteorite, ricercando soluzioni per ciò che accade oggi, potendo contare su elementi concreti ovvero su importanti serie di dati. Consideriamo il caso del Museo Civico di Zoologia di Roma, fondato nel 1932, che possiede un patrimonio di circa 5 milioni di esemplari conservati, che vanno dalle conchiglie di piccoli molluschi alla balenottera di 16 metri. Tali collezioni derivano sia da una convenzione con l’allora Regia Università di Roma (oggi “Università di Roma “La Sapienza”) che raccoglievano anche le prestigiose raccolte dell’Archiginnasio Pontificio, sia dalle donazioni fatte dopo la sua istituzione. La maggior parte di questo immenso patrimonio viene peraltro custodito in magazzini accessibili al solo personale del museo o a soggetti terzi, di norma ricercatori qualificati; in alternativa, viene esposto in particolari occasioni.  Il Museo rappresenta quindi un vero e proprio archivio della biodiversità, oltre che un patrimonio per tutta la comunità. In Italia come in Germania non esiste una grande istituzione museale rappresentativa dell’intero patrimonio naturalistico nazionale e, come tale, ubicata nella capitale; questo perché entrambe le nazioni hanno raggiunto relativamente tardi la struttura di “stato unitario” (XIX secolo; si confronti questa condizione con quella di Francia e Gran Bretagna). Di conseguenza, l’intero patrimonio museale zoologico di questi paesi è frammentato in un numero elevato di musei o collezioni dislocate in numerose città (almeno 20 in Italia, oltre 50 in Germania). 
 Una riflessione a margine. Molti ricercatori che si accingono a descrivere nuove specie sostengono la “decolonizzazione” della nomenclatura scientifica auspicando una maggiore presenza delle lingue aborigene nei nomi assegnati ovvero nominare le specie in onore di una persona specifica è ingiustificabile e non al passo con l’uguaglianza e la rappresentazione. Si suggerisce in tal senso di riformare la tassonomia per rimuovere gli eponimi legati a personaggi coinvolti con il colonialismo e l’imperialismo i cui valori e le cui azioni sono incompatibili con la cultura contemporanea.

Red Data Books e Field Guides

I “Libri Rossi” e le “Liste Rosse” (in inglese “Red Data Book”) costituiscono strumenti conoscitivi fondamentali sullo stato di ambienti, flore e faune minacciate di un Paese ai fini della applicazione di provvedimenti di carattere protezionistico come raccomandato dalla stessa Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN, 1986): il colore rosso indica sempre una condizione di “allarme” anche nel caso di opere a carattere circoscritto (es. “Gli stagni della Sardegna - schede”); la monografia può anche avere una copertina di colore diverso (es. “Libro Rosso degli Insetti della Toscana”) ma la sostanza non cambia. Si tratta di liste annotate di taxa (specie, sottospecie) in cui sono riportate, per ciascun taxon, la posizione tassonomica (ordine e famiglia), sintetiche notizie sulla sua storia naturale (in particolare ciclo biologico ed ecologia), lo status o categoria di rischio IUCN (es. VU, EN ecc.). Tutto ciò è realmente valido per i libri rossi di tutto il modo, ad esempio il “Kyrgyz Republic Red Data Book” (Kyrgyzstan; prima edizione, 1985) introduce la tematica con queste parole: “the Red Book is one way of preservation of biodiversity. They contain data on the most vulnerable animal and plant species and practical recommendations on stabilization or restoration of their stocks”; la successiva edizione, a oltre venti anni di distanza (2007), è più estesa in quanto “for most plants and animals are now much better explored”. 
Secondo Jeroen Speybroeck e coll. (Field Guide to the Amphibians and Reptiles of Britain and Europe, 2016) “the main goal of this field guide is to identify amphibians and reptiles to species level. While many will probably want to attempt this simply by browsing the illustration, this book also present a comprehensive set of identification keys and tables. Where the reader lacks experience, or when dealing with difficult species, this may be the swifter option”. Queste guide sono identificate dal titolo e dal formato: il primo inizia spesso con le locuzioni “guida di campo”, “field guide”, “guya da campo”. Qualsiasi ulteriore generalizzazione è difficile trattandosi di strumenti estremamente versatili, per quanto funzionali all’obiettivo e al target dei lettori che l’estensore della guida si propone di raggiungere. Nell’ambito della tipologia delle guide animali sono inclusi oggetti biologici provenienti dagli stessi (uova e penne nel caso degli uccelli) o conseguenti alla loro attività (tracce e segni nel caso degli artropodi, uccelli e mammiferi). Il naturalista utilizza queste guide soprattutto nel momento in cui si trova ad operare sul campo ovvero in una determinata area geografica. Emerge, nel contesto, la figura del naturalista locale, una professionalità oggi rivalutata in tutta la sua importanza, in particolare dalla Citizen Science. Le guide di campo costituiscono pertanto uno strumento indispensabile per il naturalista che ha la necessità di distinguere all’interno di gruppi di animali o piante morfologicamente simili anche se non strettamente correlati dal punto di vista filogenetico. Risultano altresì utili al professionista impegnato nella esplorazione di territori da lui poco o punto conosciuti in quanto lontani dall’area nella quale svolge costantemente la propria attività. La funzione principale di una “guida” è quella di aiutare il lettore nella identificazione di una specie; uccello, farfalla, mammifero, pianta vascolare, fungo. Il livello tassonomico è basato sulle specie biologiche più comuni e facili da identificare generalmente contrassegnate dal nome comune o vernacolare (in italiano o in inglese a seconda della lingua adottata) e dal binomio scientifico in latino. In corrispondenza di ciascuna specie è riportata la distribuzione geografica condensata in una carta geografica a colori in miniatura ove l’estensione dell’areale è una porzione dell’area complessiva alla quale si riferisce la guida, ad esempio l’Italia nel contesto dell’Europa o del Bacino Mediterraneo. Queste guide utilizzano semplici chiavi di identificazione; il lettore è incoraggiato ad utilizzare le illustrazioni per la ricerca di un abbinamento e, successivamente, a raffrontare specie simili utilizzando tutte le informazioni disponibili in merito alle differenze tra taxa affini (due sottospecie della stessa specie; due specie congeneriche; due generi della stessa famiglia). Queste guide costituiscono spesso il primo approccio allo studio della natura da parte del neofita, futuro amatore sui generis o professionista; sono altresì destinate a colmare il gap tra l’amatore e il professionista; parzialmente peraltro, in quanto la bibliografia utilizzata dal professionista è altamente specializzata e non sempre reperibile utilizzando i comuni canali di acquisizione, ad esempio librerie specializzate. Date le premesse e nonostante la variabilità della casistica è possibile attribuire a questi strumenti di lavoro i seguenti requisiti: 
1) ridotte dimensioni, inferiori a quelle di un’opera che, sullo stesso argomento, ha la veste di un “trattato” e lo spessore di un “volume”, si tratta infatti di oggetti tascabili o “pocket field guides”; 
2) robustezza e maneggevolezza, molte sono infatti dotate di una coperta in cartoncino plastificato intermedia tra quella di un pbk o di un hdk; 
3) chiarezza e sinteticità nella trattazione, in particolare nella descrizione dei taxa;
4) ricchezza di illustrazioni in forma pittorica o fotografica come disegni o schizzi funzionali allo scopo. 
Utili inserimenti sono costituiti da:
1) margine laterale della coperta interna millimetrato per consentire di comparare le dimensioni dell’oggetto di interesse con i dati quantitativi contenuti nell’opera e relativi alle specie in esame; 
2) doppio indice analitico, uno riservato ai nomi comuni (vernacolari), l’altro ai nomi scientifici. 

Citizen Science e BioBlitz

I Bioblitz (BB) costituiscono la longa manus operativa di attività di Citizen Science sul campo finalizzate al censimento della biodiversità in aree selezionate. Questa “tecnica” costituisce una indagine biologica intensiva che ha l’obiettivo di registrare tutte le specie che vivono all’interno di un’area scelta ad hoc, avvalendosi di gruppi di specialisti supportati da personale non esperto. La componente pubblica dei BioBlitz è di fondamentale importanza a dispetto della mancanza di specializzazione di molti partecipanti ed è in grado di fornire una quantità inimmaginabile di dati sulla diversità biologica. Solitamente, ai cittadini interessati si affiancano biologi e naturalisti dotati di competenze sufficienti per identificare sul campo la maggior parte delle specie. Le aree interessate da eventi di BioBlitz sono spesso protette pur non essendo escluse dalle ricerche le aree ad esse limitrofe non tutelate; a questo proposito è appena il caso di ricordare che la partita della conservazione di specie e habitat si gioca anche e soprattutto nelle aree esterne e contigue alle aree protette. Un esempio paradigmatico è costituito dalla Campagna Romana a nord-est di Roma, vasta pianura ondulata e intersecata da fossi, che si estende dalla capitale fino al piano collinare prossimo (a nord il comprensorio Tolfetano-Cerite-Manziate, a sud i Colli Albani, a est i rilievi preappenninici; è appena il caso di ricordare che Campagna Romana non è sinonimo di Agro Romano, porzione della Campagna Romana inclusa nel distretto municipale di Roma), mosaico di frammenti boschivi, agrosistemi ed estesi comprensori artificializzati ma, nonostante questo, ricco serbatoio di biodiversità valorizzato dalla presenza di piccole aree protette (Riserve Naturali, SIC). L’organizzazione di BioBlitz è da tempo entrata in una fase ampiamente standardizzata come dimostra lo spazio concesso a questa attività da autorevoli testi dedicati alla trattazione di aspetti teorici e pratici della biodiversità. Non è un caso che il 1° BioBlitz Nazionale (X.2012) sia stato realizzato nella RN “Nomentum”, dato il livello ormai relativamente avanzato delle conoscenze sulla storia naturale di questo territorio. È ormai parte integrante della storia delle attività sponsorizzate dalla SRSN Società Romana di Scienze Naturali ETS, il “Progetto BioLazio”, frutto di una lunga serie di sopralluoghi sul campo in comprensori della Campagna Romana a nord-est di Roma. Si tratta di aree planiziali delimitate da infrastrutture viarie, edificato compatto e attraversate da grandi elettrodotti, le cui caratteristiche fisiografiche sono tuttavia quelle tipiche della Campagna Romana; rilievi bassi e ondulati rivestiti da una cotica erbosa più o meno uniforme, fossati e incisioni del terreno con raccolte d’acqua nei periodi piovosi, canali a idroperiodo variabile, siepi e macchioni fitti, filari di alberi frangivento lungo i bassi crinali, accumuli di natura litogenetica oltre a frammenti boschivi di estensione variabile; aree estese poche centinaia di ettari, interessate o meno da provvedimenti di tutela che, nonostante lo sfruttamento agricolo, pascolo incluso, ospitano ancora un numero piuttosto elevato di specie, molte delle quali di notevole interesse conservazionistico. La realizzazione di questi BioBlitz, nel quadro delle attività di promozione del Progetto BioLazio, ha richiesto il superamento di numerosi problemi organizzativi. In primis la possibilità di accedere, da parte dei numerosi cittadini intervenuti (richiamati da manifesti ad hoc collocati nei punti ritenuti strategici con alcune settimane di anticipo rispetto alla data di svolgimento dell’evento), a posti di parcheggio e ristoro che oltretutto costituiscono il punto di accesso più favorevole. Preliminarmente, vengono assegnati gli incarichi necessari ai componenti dello staff, ai ricercatori e ai citizen expert eventualmente formati nel corso dei precedenti sopralluoghi. Lo staff è dotato di GPS satellitari, binocoli autofocus e fotocamere reflex digitali, talvolta in possesso anche di molti cittadini “professionisti”. Abbiamo sottolineato come le attività di BioBlitz siano finalizzate alla raccolta di big data ovvero cospicue masse di dati soprattutto quantitativi. L’importanza della disponibilità di una massa relativamente enorme di dati è duplice: colmare i vuoti relativi alla assenza o scarsità di serie temporali da comparare (fluttuazione della abbondanza di taxa, soprattutto di specie target); confrontare la distribuzione attuale delle specie e lo stato degli habitat con la velocità e la direzione dei cambiamenti in atto (che si verificano sotto i nostri occhi data la pervasività e intensità delle attività umane) risultando foriera di risultati utili anche al fine di prospettare l’idoneità dei modelli predittivi (grazie all’infittimento dei dati sulla distribuzione delle specie). Un solo esempio: nell’ambito del North American Bird Phenology Program sono stati utilizzati sei milioni di dati (datacard). È inoltre evidente l’importanza della validazione dei dati che, se basata su riscontri obiettivi, ad esempio immagini dell’esemplare (animale o pianta) in vita nel suo ambiente naturale ottenute per mezzo di una buona fotocamera, sarà certamente facilitata; lo specialista accademico e/o il Citizen expert potranno confortare / confermare la diagnosi relativa alla identificazione di taxa problematici. I problemi organizzativi di un BioBlitz sono complessi e richiedono una accurata pianificazione data la mobilitazione collettiva di grandi masse e la varietà delle attività da realizzare, eventualmente anche in orario notturno. L’attività principale è rappresentata dal censimento, lungo transetti prefissati, di tutte le specie animali e vegetali riscontrate, all’unisono con la raccolta di dati bioclimatici ed eco-etologici. È preliminarmente necessario costituire una “cabina di regia” che, oltre alla assegnazione di compiti e incarichi, risolva problemi organizzativi strettamente correlati; approntamento di servizi igienico-sanitari e di ristoro, posti di pronto soccorso, stand di varia natura con postazioni PC e Internet, binoculari stereoscopici e guide di campo (field guides) per il riconoscimento di specie vegetali e animali oltre a tracce, segni e altri elementi di identificazione. L’inizio delle attività di ricerca viene preceduta dalla costituzione di gruppi di persone operanti sul campo, coordinate da uno o più specialisti (= naturalisti). Queste attività costituiscono infine l’evento principale nel contesto del CNC City Nature Challenge grande evento internazionale sulla biodiversità, competizione con frequenza annuale tra le città del mondo, che si sfidano per segnalare il maggior numero di piante e animali in natura ed i cui cittadini sono invitati a partecipare senza dover essere necessariamente esperti. L’edizione 2024 di CNC è stata la più partecipata di sempre avendo visto competere ben 690 città di 51 paesi di tutto il mondo: 14 dall’Oceania, 234 dall’Asia (205 dalla sola India) 95 dall’Europa, 38 dall’Africa, 309 dal continente americano di cui 134 dagli USA, 40 dal Canada, 62 dal Messico e 73 dagli stati del sud America; la Paz in Bolivia è risultata ancora una volta la vincitrice assoluta della competizione. Nei giorni 26-29 aprile, l’iniziativa CNC2024 ha promosso nel mondo 2.436.844 osservazioni effettuate da 83.528 cittadini, con osservazioni riconducibili a 65.682 specie di organismi viventi riconosciute da 82.930 identificatori. La vittoria è stata conseguita da La Paz (Bolivia) sulla base di tutti e tre i parametri considerati; numero di osservazioni, di specie osservate e di osservatori. Nel territorio della Città metropolitana di Roma Capitale, la partecipazione di cittadini ha permesso di ottenere ottimi risultati: il numero di osservazioni complessive è stato di 13.138 relative a 2.288 specie identificate riportate da 501 cittadini osservatori. L’adesione di Roma all’evento, promossa dall’Accademia Nazionale delle Scienze detta dei XL, è una partecipazione che prevede l’adesione di tutto il suo territorio metropolitano che può vantare una notevole varietà di biodiversità, dall’ambiente marino costiero a quello montano. Peraltro, altre 13 realtà italiane hanno preso parte alla competizione. Come numero totale di osservazioni in Italia, Roma si è classificata al secondo posto dopo la città di Milazzo (al settimo posto tra le città europee, al 33esimo nel mondo). Purtuttavia, come numero di osservatori Roma si classifica al primo posto in Italia, al secondo in Europa, al 37esimo nel mondo. Nei giorni della “sfida”, i cittadini sono invitati a prendere parte ad uno (o più) dei BioBlitz programmati, appuntamenti con esperti e ricercatori in presenza di cittadini e studenti di scuole di diverso ordine; possono peraltro agire anche in piena autonomia. Nel contesto, i cittadini sono invitati a: 
1) scaricare la specifica App o accedere al sito web di iNaturalist creando un profilo utente; 
2) iscriversi al progetto “City Nature Challenge 2024: Roma, Italy” (opzionale);
3) monitorare piante non coltivate e animali selvatici da fotografare; 
4) condividere le osservazioni fotografiche raccolte su iNaturalist (app o sito web).

“Siate affamati, siate folli” (Steve Jobs)
Dedicato ai tanti naturalisti che ritengono che non vi siano limiti all’impegno che mettono nel lavoro 

Bibliografia essenziale

Chiarucci A., 2024. Le arche della biodiversità. Salvare un po' di Natura per il futuro dell’uomo. Ulrico Hoepli
    Editore S.p.A., Milano.
Crucitti P., 2018. Principi e metodi della ricerca faunistica. La progettazione delle ricerche sulla biodiversità
    animale. Edizioni Accademiche Italiane, Schaltungsdienst Lange o. H. G., Berlin.
Genovesi P., 2024. Specie aliene. Quali sono, perché temerle e come possiamo fermarle. Gius. Laterza & Figli
    Spa, Bari-Roma.
Massa B., 2008. In difesa della biodiversità. Gruppo Perdisa Editore, Bologna.
Mazzotti S., 2024. Meravigliose creature. La diversità della vita come non la conosciamo. Società Editrice il
    Mulino, Bologna.
Primack B. R., Carotenuto L., 2003. Conservazione della natura. Zanichelli, Bologna. 


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Foto Credits:

Foto 1: Vipera dell'Orsini, Vipera ursinii  (Bonaparte, 1835)- foto di Francesco Cervoni

Foto 2: Natrice tassellata, Natrix tessellata (Laurenti, 1768)- foto di Luigi Lenzini

Foto 3: Luscengola, Chalcides chalcides (Linneus, 1758)- foto di Luca Tringali

Foto 4:  Salamandrina di Savi, Salamandrina perspicillata (Savi, 1821)- foto di Albino Lucarelli