Rivista tecnico-scientifica ambientale dell'Arma dei Carabinieri                                                            ISSN 2532-7828

AGRICOLTURA E ALIMENTAZIONE
RIFLESSIONI SUL CONCETTO DI QUALITA' AGROALIMENTARE ​
05/11/2013
Di Giuseppina CRISPONI Consiglio per la Ricerca e la Sperimentazione in Agricoltura (CRA)
Giovanni MONASTRA Dipartimento Tutela Ambientale e del Verde, Roma Capitale

Il tema della “qualità” è sempre più presente nel dibattito politico-culturale ed economico...

RIASSUNTO:

 
Il concetto di “qualità” costituisce sempre più il paradigma attorno al quale costruire il futuro. Nel settore agroalimentare, soprattutto, la qualità globale incorpora fattori materiali e immateriali e riguarda sia il prodotto sia il processo di produzione. Con particolare riferimento agli aspetti qualitativi del processo di produzione, nelle società più attente e sensibili alla dimensione ambientale e culturale si può considerare di accettare un prezzo aggiuntivo del prodotto in quanto esso incorpora fattori oggi diventati essenziali. Inoltre va anche ripagata economicamente l’attività di agricoltori e pastori che presidiano aree a rischio di abbandono e deantropizzazione forzata per scarso rendimento economico. Pure la ricerca scientifica è essenziale per migliorare la qualità dei prodotti e dei processi, ma va riorganizzata per renderla efficace in concreto. D’altra parte, Micheal Pollan nel suo libro In difesa del cibo fa un audace tentativo di scardinare i dogmi imperanti del nutrizionismo e del salutismo, astratti dalla realtà, suggerendo la regola di “non mangiare niente che la tua bisnonna non riconoscerebbe come cibo”. In definitiva, la strategia di fondo dovrebbe essere quella di agganciare i prodotti di qualità della nostra tradizione agroalimentare a elementi di modernità, che non li snaturino, ma sappiano promuoverli con intelligenza. 

ABSTRACT:

The concept of “quality” is getting more and more the paradigm to be used for building the future. Especially in the food industry, global quality includes tangible and intangible factors. It regards both product and production process. In particular referring to the qualitative aspects of the production process, in the societies, who are more aware and sensible to environmental and cultural dimension, we can consider to accept an additional price of products when they comprise factors which nowadays are essential. Furthermore, we should pay off the economic cost of the activities done by farmers and shepherds presiding over areas at risk of forced abandonment of human settlement, due to lack of economic sustainability. Also scientific research is essential for improving the quality of products and processes, but it should be reorganized to improve really its efficacy in practice. On other hand, Michael Pollan in his book In Defense of Food, does a bold attempt to demolish the prevailing dogmas of nutritionism and health fanaticism, attitudes that are far from the reality of the food, suggesting the rule " don't eat anything your grandmother wouldn't recognize as food". Ultimately, the basic strategy should be to link the quality products of our agricultural tradition to elements of modernity, which do not alter their nature, but wisely promote them.

 
 

 
 

Il tema della “qualità” è sempre più presente nel dibattito politico-culturale ed economico italiano, non più come elemento tecnico, sia pure importante, tra i tanti, ma come idea centrale e fondante delle dinamiche nazionali. È diventato anche da noi un vero paradigma attorno al quale costruire il futuro. Il clima è cambiato radicalmente, pure in certi ambienti prima molto chiusi e attardati in vecchi ideologismi, tipici degli anni settanta. A questo proposito è importante avere la consapevolezza che queste “rivoluzioni” terminologiche e di significato non avvengono in modo settoriale, ma sono il frutto di cambiamenti trasversali, perfino in ambiti apparentemente lontani: siamo in presenza di processi assai complessi e interdipendenti, che vanno compresi per poterli governare in modo efficiente e organico[1]. In cosa si è modificato, alle radici, il clima culturale e perfino psicologico in Italia? In questo: è definitivamente crollata, sotto il peso dei suoi fallimenti pratici e della sua inconsistenza teorica, la mentalità egualitaria e livellatrice, ossessionata dalla ridistribuzione slegata dalle capacità delle persone. Questa visione è stata prevalente, in modo radicale, negli anni settanta, fino a parte degli anni ottanta, e poi ha iniziato a regredire, ma per lunghi anni risultava ancora forte in alcune cittadelle elitarie - quelle che influenzano i comportamenti sociali. Ormai anche gli ultimi combattenti di questa utopia si sono arresi ai fatti: nessuno viene più contestato se sostiene che sia necessario premiare il merito e il talento e che la selezione debba essere reale e non fittizia, nell’interesse di tutti. Oggi, al massimo si può discutere sui contenuti e le procedure, non sui presupposti. Ci sono crescenti segnali in questa direzione nei settori più svariati. Risulta evidente che “merito”, talento”, “selezione” sono fattori legati alla qualità, mentre egualitarismo (da non confondere con eguaglianza dei diritti) e livellamento sono termini riconducibili alla quantità. Nell’orizzonte egualitario e livellatore si concepiscono solo individui, tutti appiattiti su uno standard unico, costituito da entità numeriche anonime (si parlava e straparlava delle “masse”) e, in analogia, nel mondo della produzione si riteneva degno di attenzione soltanto un prodotto standardizzato, purché abbondante. Da qui nasceva l’infatuazione per l’industria pesante e il disprezzo per l’agricoltura, vista con sospetto perché costituita in prevalenza da soggetti differenziati, con tradizioni, radici e cultura, in senso antropologico, e non da individui senza volto. Così si spiega, per esempio, lo scempio compiuto nella piana di Gioia Tauro dove, negli anni settanta, agrumeti e altre coltivazioni furono distrutte per far posto a un allucinante progetto megaindustriale, un centro siderurgico, del tutto fuori dal contesto locale tanto che poi fu definito una “cattedrale nel deserto”, per altro mai condotta a termine. Al massimo, in questa ottica, l’agricoltura sarebbe potuta sopravvivere come area marginale, possibilmente strutturata secondo i parametri tipici dell’industria di tipo fordiano (proletarizzazione, catena di montaggio, produzione di massa). Per contro, se diviene centrale una concezione della vita basata sul merito e sul talento - che, per altro, in Italia non richiama solo un fatto tecnico, ma anche antichi saperi, ben radicati - diviene centrale la persona con la sua identità, le sue caratteristiche e la sua storia, e non più l’individuo-atomo senza volto. Parallelamente nel mondo della produzione riacquista dignità e centralità, almeno nel nostro Paese, il prodotto di qualità, frutto di competenze specifiche, di identità e di radicamento storico-culturale, fattori essenziali che arricchiscono il concetto in esame ed evitano che la sua declinazione avvenga all’interno di un orizzonte di omologazione. È quindi un fenomeno globale, come detto all’inizio, e va sviluppato in termini adeguati. Poste tali premesse, scendiamo ora nello specifico parlando del termine “qualità” in relazione a oggetti o processi di produzione. La prima istintiva definizione di qualità di un prodotto è quella che la identifica con “la mancanza di difetti”. Anche se ciò può non essere sbagliato in senso assoluto, risulta comunque estremamente generico ed inutile ai fini pratici. Molto più facile è invece definire la “quantità”, sempre legata ad aspetti, per così dire, numerici, semplici, sommabili e scomponibili. Ciò avviene non perché la “qualità” sia una realtà priva di consistenza, a differenza della quantità, ma perché - come vedremo - esprime una dimensione molto articolata, in certi casi via via arricchitasi di nuovi significati nel tempo. Essa è caratterizzata da aspetti come la complessità e la manifestazione a vari livelli, non è quindi riducibile al tecnicismo, come per molto tempo si è voluto far credere. Per un sistema produttivo moderno qualità e quantità sono parametri essenziali, ma di diverso peso specifico a seconda dei contesti socioeconomici, geografici, culturali e anche psicologici. D’altra parte, notiamo di sfuggita che la preminenza della quantità ha una sottile connotazione primitivistica, mentre la qualità si manifesta sempre come espressione di una concezione avanzata, e per certi versi anche “artistica”, del mondo (il che non significa affatto astratta dalla realtà, tutt’altro!). A questo punto dobbiamo introdurre un’altra puntualizzazione, di carattere generale: a differenza di quella che è l’idea oggi prevalente, non esiste una sola tipologia standard di “progresso”, uguale per tutti, ma varie vie alternative, la cui validità è relativa al contesto socioculturale ed economico di riferimento. A tale proposito va evidenziato che nei progressi di tipo quantitativo (continuo incremento di una produttività massificata, ecc.), che sono lineari, invasivi, omologanti, a standard unico, si tende a trascurare il concetto di “limite”, che invece è ben presente in quelli di tipo qualitativo (basati sul miglioramento delle caratteristiche del prodotto/processo), che privilegiano la dimensione della “profondità”. La qualità di un prodotto o di un servizio non consiste solo in ciò che vi mette il fornitore, ma è data anche da ciò che il cliente ne ricava e per cui è disposto a pagare. Quindi un prodotto non è di qualità unicamente perché è difficile da produrre o perché costa molto, dato che i consumatori preferiscono acquistare ciò che li appaga e fornisce loro un valore. Se focalizziamo la nostra attenzione nell’ambito agroalimentare, ci rendiamo conto che non è una valutazione facile, come è stato osservato da Raynaud, Sauvee e Valceschini. “Per molti prodotti agroalimentari, il consumatore non è sempre consapevole della qualità del prodotto, o dell’accuratezza delle informazioni relative alle sue caratteristiche. Gli economisti [...] hanno dimostrato che l’esperienza e la fiducia sui prodotti (o caratteristiche) sono soggetti a un forte problema di selezione avversa quando il prezzo è l’unica informazione disponibile sulla qualità. L’uso di segnali di qualità può attenuare il problema di selezione avversa. Migliorando l’informazione dei consumatori, la creazione di un segnale di qualità ripristina parte della efficienza del mercato. [...] La qualità del segnale è definito come: (i) un nome distintivo che differenzia un prodotto da un altro, in senso sia verticale che orizzontale, (ii) un nome che fornisce ai consumatori (a volte implicite) informazioni sulle caratteristiche del prodotto, riassunte in un logo o un nome. Da un punto di vista empirico, vi è una diversità di segnali di qualità. Il nome del marchio è probabilmente il più noto. Un secondo tipo, che gioca un ruolo importante nel settore agroalimentare europeo, è la denominazione di origine, sia perché il territorio indica effettivamente differenze significative nelle proprietà sia per il suo contenuto simbolico. In Europa, i marchi DOP e IGP legano i prodotti alla loro origine geografica e forniscono una certificazione ufficiale sugli attributi dei prodotti (ad esempio, i metodi tradizionali di produzione)”[2].
Ancora: secondo la norma ISO 9000 del 2005 la qualità è il “grado in cui un insieme di caratteristiche intrinseche soddisfano i requisiti”, mentre per Newell e Dale la qualità deve essere raggiunta in cinque aree fondamentali: persone, mezzi, metodi, materiali e ambiente per assicurare l’appagamento dei bisogni del cliente. Insomma, vediamo che per qualità s’intende generalmente la capacità delle imprese di fornire prodotti e servizi rispondenti alle aspettative, manifeste e implicite, di acquirenti ed utenti: in sintesi tutto il mercato di riferimento.
Nel settore del quale intendiamo parlare, la qualità globale incorpora, sia pure in misura diversa e selettiva, quattro differenti tipologie, che afferiscono ad aspetti sia oggettivi che soggettivi. Infatti il concetto “qualità” ha valenza pluridimensionale e può essere osservato sotto molti punti di vista. La qualità orientata al prodotto copre tutti gli aspetti fisici, che insieme forniscono una precisa descrizione del prodotto alimentare specifico. Esempi di qualità di prodotto possono essere la percentuale di grasso e le dimensioni del muscolo della carne, il contenuto di cellule nel latte, di amido nelle patate, e la gradazione alcolica della birra. La qualità orientata al processo riguarda il modo in cui l’alimento è stato prodotto, ad esempio, senza pesticidi, o con metodiche “biologiche”, secondo le norme sul benessere degli animali, ecc. Le descrizioni basate su questi aspetti forniscono informazioni sulla procedura utilizzata per realizzare il prodotto, e questi aspetti non necessariamente hanno effetto sulle sue proprietà fisiche. Il terzo tipo è il controllo di qualità, che noi definiamo come gli standard che un prodotto deve soddisfare per essere approvato per una classe di qualità specifica, ad esempio, lo standard per il peso delle uova di varie dimensioni, la classificazione EUROP delle carni, ecc. I sistemi per la certificazione di qualità come ISO 9000 hanno a che fare principalmente con il controllo di qualità. Quest’ultimo si occupa quindi dell’adesione a norme specifiche per la qualità orientata al prodotto e al processo, indipendentemente dal livello al quale esse sono state definite. Possiamo dire che la qualità orientata al prodotto e al processo riguarda il livello di qualità, mentre il controllo di qualità si occupa della dispersione della qualità intorno a un livello pre-determinato. Infine, la qualità orientata al consumatore è la percezione soggettiva di qualità dal punto di vista del consumatore - finale o intermedio nella catena alimentare, ad esempio, un rivenditore. Si può anche dire che la qualità orientata al prodotto, la qualità orientata al processo e il controllo di qualità costituiscono la qualità oggettiva, in quanto possono essere accertate misurando e documentando gli aspetti del prodotto e il processo di produzione, e numerose misure saranno identiche entro certi limiti di errore. Può dirsi che la qualità orientata al consumatore costituisca la qualità soggettiva, poiché può essere misurata solo al livello del consumatore finale, e può differire per lo stesso prodotto tra i diversi soggetti.
I quattro tipi sono correlati. Specificamente, la qualità orientata al consumatore è influenzata da tutti e tre i tipi di qualità oggettiva. Tuttavia, queste interrelazioni non sono affatto chiare e la qualità orientata al consumatore può anche essere influenzata da fattori che non sono caratteristiche del prodotto stesso, come ad esempio la situazione di acquisto, il tipo di punto vendita, il prezzo, la marca, ecc. Gran parte della discussione sulla qualità nell’industria alimentare riguarda la qualità orientata al prodotto e al processo e il controllo di qualità, mentre il consumatore valuta e paga per la qualità soggettivamente percepita. L’importo che un consumatore è disposto a pagare per un prodotto dipende da questa qualità soggettivamente percepita, che è relativa alla, ma non è la stessa, qualità oggettiva. I miglioramenti nella qualità oggettiva, che non hanno alcun effetto sulla qualità percepita, non avranno alcun effetto commerciale, e quindi nessun effetto positivo sulla competitività del produttore. Queste valutazioni soggettive sulla qualità mutano spesso radicalmente nel tempo e talvolta anche nello spazio, in base all’area geografico-culturale considerata. In chiave soggettiva quindi qualità non è un concetto assoluto ma, al contrario, un giudizio di valore di natura dinamica, in divenire. Comunque anche i “bisogni” mutano nel tempo, quindi la stessa qualità oggettiva deve cambiare. Il livello qualitativo di un prodotto non è mai statico, fisso.

 
  1. 1) EmmanuelRaynaud, Loic Sauvee, Egizio Valceschini, Governance of the Agri-foodChains as a Vector of Credibility for Quality Signalization in Europe - 10thEAAE Congress, "Exploring diversity in the European Agri-foodSystem", 28-31 August 2002, Zaragoza, Spain. http://ageconsearch.umn.edu/bitstream/24917/1/cp02ra91.pdf .
 

Aspetti qualitativi del prodotto

  1. igienico-sanitario;
  2. salutistico e nutrizionale;
  3. organolettico;
  4. identificante”
 

Aspetti qualitativi del processo produttivo

  1. benessere animale;
  2. rispetto per l’ambiente (inclusa l’impronta del carbonio che valuta le emissioni di gas serra) e uso parsimonioso delle risorse naturali
 

Entrambi i punti del secondo blocco e il quinto punto del primo blocco sono attinenti solo allo specifico “umano”. Come abbiamo già sottolineato, il concetto di qualità per sua natura è un concetto dinamico e articolato (più significati e livelli interconnessi) che si modifica con il trasformarsi della società e dei bisogni degli individui. In questi ultimi cinquanta anni, prima di arrivare alla concezione complessa sopra riportata, abbiamo assistito a un cambiamento (con accentuazioni ed esclusivismi pericolosi) dei significati che ha assunto la rappresentazione della qualità in campo agroalimentare: negli anni sessanta era posta particolare enfasi sulle caratteristiche organolettiche degli alimenti; nel decennio successivo l’interesse si è spostato sull’aspetto nutrizionale e sul ruolo degli alimenti per la salute dell’uomo; negli anni ottanta è stato posto maggiore impegno sul versante della sicurezza d’uso, intesa nella sua accezione più ampia (lavorazione degli alimenti, conservazione, trasporto, preparazione); dagli anni novanta l’idea di qualità si è rivelata sempre più nelle vesti della già citata qualità totale, superando divisioni settoriali dettate da competenze scientifiche specifiche e assumendo una logica multidisciplinare, che incorpora sempre più anche gli aspetti edonistico-sociali - o meglio, comunitari, culturali, valoriali, ecc. - del cibo. Una considerazione: con particolare riferimento agli aspetti qualitativi del processo di produzione, nelle società più attente e sensibili alla dimensione ambientale e culturale si può accettare di sostenere un prezzo aggiuntivo del prodotto in quanto esso incorpora fattori oggi diventati essenziali, ma che comportano costi ulteriori. Inoltre va anche ripagata economicamente l’attività di agricoltori e pastori che presidiano aree a rischio di abbandono e deantropizzazione forzata per scarso rendimento economico. Infatti questa presenza positiva si manifesta attraverso quello che viene definito il ruolo multifunzionale dell’agricoltura: un bene sociale e nazionale, cioè un vantaggio per l’intera comunità. Tale aspetto, frutto di un approccio plurale e differenziato al mondo rurale, superando la concezione univoca e settoriale egemone nel passato, ha assunto sempre più una posizione centrale nei dibattiti scientifici e politici sul tema in oggetto. Il concetto centrale verte sul fatto che oggi l’attività agricola va molto oltre il suo ruolo tradizionale di produzione di alimenti e prodotti. Si tratta di nuove funzioni, che sono essenziali e, in sintesi, consistono nel: presidio e manutenzione del territorio; conservazione dell’assetto idrogeologico; difesa del paesaggio; tutela della flora e della fauna; conservazione della biodiversità; creazione di spazi ad uso ricreazionale; conservazione degli aspetti culturali tradizionali del territorio rurale; mitigazione degli effetti ambientali negativi generati da altre attività produttive o di consumo.
Nel contesto in esame, non va dimenticato che la ricerca scientifica, non solo privata, ma anche - e in certi casi soprattutto - pubblica, è essenziale per migliorare la qualità dei prodotti e dei processi, ma va rivista alla luce di una vera politica nazionale basata su priorità strategiche legate alle specificità locali. Infatti essa si armonizza perfettamente con l’agricoltura di qualità, “tradizionale”, migliorando e rendendo più efficienti le modalità di coltura e allevamento. Quindi la filosofia di fondo dovrebbe essere quella di agganciare i prodotti di qualità a elementi di modernità, che però non li snaturino, ma piuttosto sappiano promuoverli con intelligenza. È anche un modo per evitare che alcuni prodotti tipici e tradizionali scompaiano per difficoltà competitive. Ciò significa unire saperi (non solo scientifici) e sapori per una sana (in tutti i sensi) alimentazione.
Parlando di ricerca è utile segnalare una acquisizione che merita particolare attenzione (se non allarme), in quanto dimostra come la quantità, in certi casi, possa essere in netto contrasto con la qualità (aumenta la prima e diminuisce la seconda). Il biochimico Donald Davis dell’Università del Texas di Austin ha scritto: “Presumibilmente fin dagli albori dell’agricoltura, gli esseri umani hanno misurato il loro successo agricolo principalmente in base alle dimensioni dei loro raccolti. Molte metodiche ambientali e genetiche possono aumentare il rendimento delle colture, compresa l’irrigazione, la fertilizzazione, il controllo di infestanti e parassiti, la scelta di varietà coltivate e l’allevamento selettivo. Tutto ciò è culminato nella “Rivoluzione Verde” degli anni ‘60 e ’70, incrementando notevolmente le rese di grano, riso e mais. Purtroppo, negli ultimi decenni abbiamo imparato che tale aumento può ridurre le concentrazioni di alcune sostanze nutritive. Non dobbiamo pensare che la composizione rimanga costante con l’accrescersi del raccolto. Una review del 1981 su Advances in Agronomy discute ampiamente il citato “effetto diluizione”, in cui i metodi di miglioramento delle rese, come la fertilizzazione e l’irrigazione, possono diminuire le concentrazioni di nutrienti (un effetto di diluizione ambientale). Recentemente, è emerso che gli incrementi di prodotto basati sulla selezione genetica possono avere lo stesso risultato (un effetto di diluizione genetica). In entrambi i casi, le colture moderne che garantiscono un maggiore rendimento e in tempi più rapidi non sono necessariamente in grado di acquisire nutrienti, sia tramite sintesi o dal terreno, con un tasso altrettanto veloce”[1]. Sottolineiamo che non siamo di fronte a  conclusioni tratte da ragionamenti teorici o prove indirette, ma di fronte a dati sperimentali. In una di queste ricerche sono stati determinati gli effetti dei metodi dell’agricoltura intensiva sui livelli di nutrienti in alcuni cibi, in particolare verdure (ma anche fragole e meloni), per le quali, negli USA, esistono dati fin dal 1950. I parametri analizzati sono stati proteine, fosforo, calcio, ferro, riboflavina (vitamina B2), acido ascorbico (vitamina C). È emerso che i valori medi del contenuto “qualitativo” dei prodotti (aspetti nutrizionali) sono diminuiti in misura più o meno accentuata. Ad esempio, si è osservata una riduzione del 6% per le proteine per arrivare al 38% nel caso della riboflavina (vitamina B2). Ecco come Davis ha commentato i dati, ribadendo alcuni concetti: “La spiegazione più probabile, secondo noi risiede nei cambiamenti delle varietà coltivate negli ultimi cinquant’anni. In questo periodo, ci sono stati sforzi intensivi per ottenere nuove varietà in grado di garantire maggiori raccolti, di resistere agli infestanti, o di adattarsi a differenti climi. Ma il tentativo maggiore è stato quello di ottenere piante più alte e grandi. Numerose prove suggeriscono che queste selezioni portano a piante che crescono di più e più in fretta, ma che non hanno necessariamente la capacità di produrre o assorbire nutrienti con la stessa velocità”[2]. Successive ricerche hanno confermato i dati, estendendoli anche ai prodotti di altre nazioni, come la Gran Bretagna[3]. Quindi, al di là di ogni dubbio, l’incremento quantitativo ha portato a un decremento qualitativo: un effetto collaterale imprevisto derivante dalla continua ricerca di un rendimento sempre maggiore in tempi via via più ridotti. Un esempio ricco di significati su cui i fanatici del produttivismo, coniugato con la frenesia del risultato “veloce”,  dovrebbero riflettere. Ma vediamo altri aspetti legati alla complessità del cibo e quindi alla sua “qualità”, seguendo anche quanto ha notato acutamente Micheal Pollan. In un suo bel libro ci ricorda che “Jean Anthelme Brillat-Savarin, il gastronomo del Settecento, tracciò un’utile distinzione tra il comportamento degli animali – i quali “si pascono”- e quello degli umani – che mangiano o pranzano” [4] – quest’ultima un’attività che, a suo parere, è influenzata dalla cultura non meno che dalla biologia. In passato gli esseri umani si cibavano per tanti altri motivi, oltre che per la semplice necessità biologica: il piacere, la convivialità, la famiglia e la spiritualità, il loro rapporto con il mondo naturale e l’espressione della loro identità. Finché gli uomini hanno consumato i pasti in comune, mangiare era tanto questione di cultura quanto di biologia. Che questo atto riguardi in primo luogo la salute è un’idea relativamente nuova e, a parere di Pollan, addirittura pericolosa – non solo per il piacere del mangiare, ma paradossalmente per la salute stessa. In effetti nessun popolo è tanto preoccupato delle conseguenze sulla salute delle proprie scelte alimentari quanto gli americani, e allo stesso tempo nessun popolo soffre quanto loro di patologie correlate all’alimentazione. Gli statunitensi - teme Pollan - stanno diventando una “nazione di ortoressici: persone con un’ossessione insana per il mangiare sano”.[5]  

 
  1. 1)  Donald R. Davis, Trade-Offs in Agriculture and Nutrition, Food Technology, 2005, 59 (3), 120
  2. 2)  Donald R. Davis, Melvin D. Epp, Hugh D. Riordan, Changes in USDA Food Composition Data for 43 Garden Crops, 1950 to 1999, in J. Am. College Nutrition, 2004, 23, pp. 669-682.
  3. 3)  Donald R. Davis, Commentary on: ‘Historical variation in the mineral composition of edible horticultural products’. J. Hort. Sci. Biotechnol. 2006, 81, 553–554;  Donald R. Davis, Declining Fruit and Vegetable Nutrient Composition: What Is the Evidence?, HortScience, 2009,  44(1), 15 – 19; Anne-Marie Mayer, Historical changes in the mineral content of fruits and vegetables. Brit. Food J., 1997. 99, 207–211; Philip J. White e Martin R. Broadley, Historical variation in the mineral composition of edible horticultural products, J. Hort. Sci. Biotechnol., 2005, 80, 660–667.
  4. 4)  Micheal Pollan, In difesa del cibo, Adelphi, Milano 2009,  p. 19.
  5. 5)  Ibidem,  p. 20.

Gli esperti in nutrizione non lo hanno ancora dimostrato, ma è verosimile che il tempo che le persone dedicano a preoccuparsi di ciò che mangiano sia inversamente proporzionale alla loro salute e felicità complessive. Così certi nutrizionisti americani non riescono a spiegarsi come i francesi - che godono dei piaceri della tavola e mangiano serenamente cibi considerati nocivi dal dogma alimentare imperante - soffrano di malattie cardiovascolari molto meno dei nordamericani (è il cosiddetto “paradosso francese”). Al riguardo Pollan parla di “paradosso alimentare americano”: un popolo palesemente malato, assillato dalle regole alimentari e dalla scelta del cibo. È sintomatico un dato. Negli Stati Uniti nel 1960 la spesa per il cibo ammontava al 17,5% del reddito medio, mentre le spese per la salute coprivano un 5,2%. Oggi la spesa per il cibo è scesa al 9,9%, mentre quella per le cure mediche è arrivata al 16%. I dati si commentano da soli: le cifre si sono praticamente invertite. Secondo alcuni studiosi non assillati dal dogma “nutrizionista”, le malattie croniche che uccidono la maggior parte degli individui nei Paesi più tecnologicamente “evoluti” sono direttamente riconducibili all’industrializzazione del sistema alimentare: crescente diffusione di alimenti trattati e precotti e di cereali raffinati; uso di prodotti chimici per coltivare piante e allevare animali in enormi monocolture; sovrabbondanza di zuccheri e grassi, calorie a buon mercato prodotte dall’agricoltura industriale; riduzione della varietà biologica degli alimenti a poche colture di base, prevalentemente frumento, mais e soia. Questi cambiamenti hanno prodotto un tipo di alimentazione che per molti è ormai purtroppo normale: scatolette, piatti pronti, un sacco di grassi e zuccheri aggiunti - tranne verdura, frutta e cereali integrali. Nei primi decenni del Novecento, alcuni medici e ricercatori che lavoravano tra popolazioni isolate in varie parti del mondo osservarono che ogniqualvolta esse abbandonavano il modo di mangiare tradizionale per adottare abitudini occidentali diventavano ben presto vulnerabili alle tipiche malattie del mondo industrializzato: obesità, diabete, affezioni cardiovascolari e cancro. Secondo Pollan, esiste una differenza tra nutrizionismo e nutrizione: siamo in presenza di una ideologia, non di una disciplina scientifica. Ciò che fu l’Unione Sovietica per l’ideologia marxista, è stata la campagna anti-grassi per l’ideologia nutrizionista: il suo test supremo e il suo fallimento più grande. Le ideologie sono modi per interpretare e organizzare vasti settori della realtà partendo da presupposti condivisi, ma astratti e dogmatici, cioè privi di riscontro nella realtà. “Nel caso del nutrizionismo, il postulato comunemente accettato ma non dimostrato è che la chiave della comprensione degli alimenti è il nutriente. In altri termini, gli alimenti sono essenzialmente la somma dei loro nutrienti […] Dal momento che i nutrienti, diversamente dai cibi, sono invisibili e dunque un po’ misteriosi, sta agli scienziati (e ai giornalisti che diffondono le loro idee presso il grande pubblico) spiegarci la realtà nascosta dei cibi” [1]: è un approccio riduzionista e iperanalitico, opposto a quello olista e sistemico, che considera la dieta complessiva e gli stili di vita, secondo una corretta scienza della nutrizione. Un altro postulato di molti nutrizionisti, da mettere in discussione, è quello secondo cui lo scopo essenziale del mangiare è conservare e migliorare la salute fisica. Da questo presupposto deriva che i componenti del cibo possano essere suddivisi a seconda dei loro effetti sulla salute, in buoni e cattivi. Il tutto a vantaggio della grande industria, che da tempo viene supportata, nelle proprie operazioni di marketing, proprio da alcuni nutrizionisti compiacenti. C’è nel cibo anche l’aspetto edonistico, della convivialità e dell’identità e ciò non lo rende meno salutare per le popolazioni che lo prediligono. In definitiva, “Non mangiate nulla che la vostra bisnonna non riconoscerebbe come cibo” [2], ci ammonisce Pollan, che talvolta esagera nelle sue affermazioni, troppo unilaterali e radicali, ma che meriterebbe ascolto, seppur critico. Mangiare costituisce un atto agricolo[3], notò a sua volta Wendell Berry usando una espressione incisiva, evocativa. Intendeva sottolineare che gli esseri umani non sono solo consumatori passivi, ma anche attori che contribuiscono alla formazione e alla difesa dei sistemi che li nutrono. In base a come spendiamo il nostro denaro, e quindi a cosa acquistiamo, può essere avvantaggiata un’industria alimentare preoccupata solo della quantità, della convenienza e del “valore” economico, o una catena alimentare organizzata intorno a valori reali, effettivi, come la qualità e la salute degli individui e dell’ambiente. Certamente la seconda modalità di acquisto comporta un impegno maggiore, anche economico, ma quando inizieremo a considerarla non solo come una spesa, ma pure come una forma di votazione in favore di qualcosa – un voto per la salute nel senso più ampio della parola – il cibo non sembrerà più il luogo più pertinente per fare economia, ma l’elemento strategico per salvaguardare e accrescere il nostro benessere, inteso in senso ampio, e tutelare l’ambiente, oltre a sviluppare una certa idea di comunità e rilanciare un’economia sana. Insomma la qualità può realisticamente migliorare sempre più per effetto degli interventi di consumatori informati e attenti, che così svolgono un ruolo attivo e responsabile nell’influire sulle tipologie di produzione, dando anche vita a nuove soluzioni in campo produttivo e distributivo: democrazia e partecipazione possono essere gli spazi di manifestazione e determinazione della qualità[4]. Il suo controllo è troppo importante per essere lasciato ai soli esperti di settore: non è un fatto puramente burocratico-tecnologico o scientifico. Senza voler enfatizzare il “Piccolo è bello” di Ernst Schumacher, potremmo dire che le Nazioni “piccole”, se sono ricche di storia e cultura e hanno mantenuto saldi i loro legami con le tradizioni, senza sclerotizzarle e cristallizzarle, possono trovare un loro ruolo e una loro collocazione anche di alto livello, economicamente molto remunerativa. D’altra parte oggi nel mercato globale tendono sempre più a differenziarsi le Nazioni della qualità dalle Nazioni della quantità: le prime sono generalmente piccole e riescono a coniugare in modo ottimale identità e competitività, le seconde sono grandi, caratterizzate da ampi spazi e da una storia spesso molto recente oppure da una problematica assenza di storia e/o di memoria, a volte anche derivante da profonde rimozioni e censure di carattere ideologico. È il contrasto fra prodotti personalizzati e prodotti anonimi. Nel caso del nostro Paese, possiamo quindi far sì che “italianità” divenga sinonimo di qualità: impasto di passato e futuro, tradizione e innovazione. È il vestito stesso della creatività, frutto di uno stile al singolare. Nell’epoca della globalizzazione, questo tipo di Paesi possono competere sul mercato mondiale esclusivamente puntando sulla qualità. È un progetto politico-culturale, la cui costruzione passa attraverso la valorizzazione di uno specifico “stile di vita”. Da qui nasce la necessità di contrapporsi alla contraffazione e all’agropirateria, difendendo e proteggendo le produzioni di eccellenza (identico diritto hanno tutte le nazioni: questo impegno dovrebbe veder coalizzate le varie Istituzioni nazionali e sovranazionali). In conclusione la qualità in campo agroalimentare costituisce non solo un elemento di garanzia nei confronti del consumatore, ma anche uno strumento di tutela della specificità e della identità di una nazione, di una regione o di un’area geografica e culturale particolare. Rappresenta un obiettivo irrinunciabile e una priorità per tutte le istituzioni pubbliche in ambito sia locale sia nazionale. Se – come dicevamo all’inizio - meriti e talenti oggi sono tornati al centro del sistema italiano, le eccellenze di qualità di cui siamo storicamente artefici non potranno che premiare la nostra Nazione nella competizione globale, anche in un momento di crisi come quello attuale.

 
  1. 1)  Ibidem,  p. 38.
  2. 2)  Ibidem,  p. 158.
  3. 3)  Wendell Berry, “The Pleasures of Eating” from What are people for? North Point Press, New York 1990.
  4. 4)  Henk Renting, Markus Schermer and Adanella Rossi, Building Food Democracy: Exploring Civic Food Networks and Newly Emerging Forms of Food Citizenship, Int. J. of  Soc. of Agri. & Food, Vol. 19, No. 3, pp. 289–307.