Il tema della “qualità” è sempre più presente nel dibattito politico-culturale ed economico italiano, non più come elemento tecnico, sia pure importante, tra i tanti, ma come idea centrale e fondante delle dinamiche nazionali. È diventato anche da noi un vero paradigma attorno al quale costruire il futuro. Il clima è cambiato radicalmente, pure in certi ambienti prima molto chiusi e attardati in vecchi ideologismi, tipici degli anni settanta. A questo proposito è importante avere la consapevolezza che queste “rivoluzioni” terminologiche e di significato non avvengono in modo settoriale, ma sono il frutto di cambiamenti trasversali, perfino in ambiti apparentemente lontani: siamo in presenza di processi assai complessi e interdipendenti, che vanno compresi per poterli governare in modo efficiente e organico[1]. In cosa si è modificato, alle radici, il clima culturale e perfino psicologico in Italia? In questo: è definitivamente crollata, sotto il peso dei suoi fallimenti pratici e della sua inconsistenza teorica, la mentalità egualitaria e livellatrice, ossessionata dalla ridistribuzione slegata dalle capacità delle persone. Questa visione è stata prevalente, in modo radicale, negli anni settanta, fino a parte degli anni ottanta, e poi ha iniziato a regredire, ma per lunghi anni risultava ancora forte in alcune cittadelle elitarie - quelle che influenzano i comportamenti sociali. Ormai anche gli ultimi combattenti di questa utopia si sono arresi ai fatti: nessuno viene più contestato se sostiene che sia necessario premiare il merito e il talento e che la selezione debba essere reale e non fittizia, nell’interesse di tutti. Oggi, al massimo si può discutere sui contenuti e le procedure, non sui presupposti. Ci sono crescenti segnali in questa direzione nei settori più svariati. Risulta evidente che “merito”, talento”, “selezione” sono fattori legati alla qualità, mentre egualitarismo (da non confondere con eguaglianza dei diritti) e livellamento sono termini riconducibili alla quantità. Nell’orizzonte egualitario e livellatore si concepiscono solo individui, tutti appiattiti su uno standard unico, costituito da entità numeriche anonime (si parlava e straparlava delle “masse”) e, in analogia, nel mondo della produzione si riteneva degno di attenzione soltanto un prodotto standardizzato, purché abbondante. Da qui nasceva l’infatuazione per l’industria pesante e il disprezzo per l’agricoltura, vista con sospetto perché costituita in prevalenza da soggetti differenziati, con tradizioni, radici e cultura, in senso antropologico, e non da individui senza volto. Così si spiega, per esempio, lo scempio compiuto nella piana di Gioia Tauro dove, negli anni settanta, agrumeti e altre coltivazioni furono distrutte per far posto a un allucinante progetto megaindustriale, un centro siderurgico, del tutto fuori dal contesto locale tanto che poi fu definito una “cattedrale nel deserto”, per altro mai condotta a termine. Al massimo, in questa ottica, l’agricoltura sarebbe potuta sopravvivere come area marginale, possibilmente strutturata secondo i parametri tipici dell’industria di tipo fordiano (proletarizzazione, catena di montaggio, produzione di massa). Per contro, se diviene centrale una concezione della vita basata sul merito e sul talento - che, per altro, in Italia non richiama solo un fatto tecnico, ma anche antichi saperi, ben radicati - diviene centrale la persona con la sua identità, le sue caratteristiche e la sua storia, e non più l’individuo-atomo senza volto. Parallelamente nel mondo della produzione riacquista dignità e centralità, almeno nel nostro Paese, il prodotto di qualità, frutto di competenze specifiche, di identità e di radicamento storico-culturale, fattori essenziali che arricchiscono il concetto in esame ed evitano che la sua declinazione avvenga all’interno di un orizzonte di omologazione. È quindi un fenomeno globale, come detto all’inizio, e va sviluppato in termini adeguati. Poste tali premesse, scendiamo ora nello specifico parlando del termine “qualità” in relazione a oggetti o processi di produzione. La prima istintiva definizione di qualità di un prodotto è quella che la identifica con “la mancanza di difetti”. Anche se ciò può non essere sbagliato in senso assoluto, risulta comunque estremamente generico ed inutile ai fini pratici. Molto più facile è invece definire la “quantità”, sempre legata ad aspetti, per così dire, numerici, semplici, sommabili e scomponibili. Ciò avviene non perché la “qualità” sia una realtà priva di consistenza, a differenza della quantità, ma perché - come vedremo - esprime una dimensione molto articolata, in certi casi via via arricchitasi di nuovi significati nel tempo. Essa è caratterizzata da aspetti come la complessità e la manifestazione a vari livelli, non è quindi riducibile al tecnicismo, come per molto tempo si è voluto far credere. Per un sistema produttivo moderno qualità e quantità sono parametri essenziali, ma di diverso peso specifico a seconda dei contesti socioeconomici, geografici, culturali e anche psicologici. D’altra parte, notiamo di sfuggita che la preminenza della quantità ha una sottile connotazione primitivistica, mentre la qualità si manifesta sempre come espressione di una concezione avanzata, e per certi versi anche “artistica”, del mondo (il che non significa affatto astratta dalla realtà, tutt’altro!). A questo punto dobbiamo introdurre un’altra puntualizzazione, di carattere generale: a differenza di quella che è l’idea oggi prevalente, non esiste una sola tipologia standard di “progresso”, uguale per tutti, ma varie vie alternative, la cui validità è relativa al contesto socioculturale ed economico di riferimento. A tale proposito va evidenziato che nei progressi di tipo quantitativo (continuo incremento di una produttività massificata, ecc.), che sono lineari, invasivi, omologanti, a standard unico, si tende a trascurare il concetto di “limite”, che invece è ben presente in quelli di tipo qualitativo (basati sul miglioramento delle caratteristiche del prodotto/processo), che privilegiano la dimensione della “profondità”. La qualità di un prodotto o di un servizio non consiste solo in ciò che vi mette il fornitore, ma è data anche da ciò che il cliente ne ricava e per cui è disposto a pagare. Quindi un prodotto non è di qualità unicamente perché è difficile da produrre o perché costa molto, dato che i consumatori preferiscono acquistare ciò che li appaga e fornisce loro un valore. Se focalizziamo la nostra attenzione nell’ambito agroalimentare, ci rendiamo conto che non è una valutazione facile, come è stato osservato da Raynaud, Sauvee e Valceschini. “Per molti prodotti agroalimentari, il consumatore non è sempre consapevole della qualità del prodotto, o dell’accuratezza delle informazioni relative alle sue caratteristiche. Gli economisti [...] hanno dimostrato che l’esperienza e la fiducia sui prodotti (o caratteristiche) sono soggetti a un forte problema di selezione avversa quando il prezzo è l’unica informazione disponibile sulla qualità. L’uso di segnali di qualità può attenuare il problema di selezione avversa. Migliorando l’informazione dei consumatori, la creazione di un segnale di qualità ripristina parte della efficienza del mercato. [...] La qualità del segnale è definito come: (i) un nome distintivo che differenzia un prodotto da un altro, in senso sia verticale che orizzontale, (ii) un nome che fornisce ai consumatori (a volte implicite) informazioni sulle caratteristiche del prodotto, riassunte in un logo o un nome. Da un punto di vista empirico, vi è una diversità di segnali di qualità. Il nome del marchio è probabilmente il più noto. Un secondo tipo, che gioca un ruolo importante nel settore agroalimentare europeo, è la denominazione di origine, sia perché il territorio indica effettivamente differenze significative nelle proprietà sia per il suo contenuto simbolico. In Europa, i marchi DOP e IGP legano i prodotti alla loro origine geografica e forniscono una certificazione ufficiale sugli attributi dei prodotti (ad esempio, i metodi tradizionali di produzione)”[2].
Ancora: secondo la norma ISO 9000 del 2005 la qualità è il “grado in cui un insieme di caratteristiche intrinseche soddisfano i requisiti”, mentre per Newell e Dale la qualità deve essere raggiunta in cinque aree fondamentali: persone, mezzi, metodi, materiali e ambiente per assicurare l’appagamento dei bisogni del cliente. Insomma, vediamo che per qualità s’intende generalmente la capacità delle imprese di fornire prodotti e servizi rispondenti alle aspettative, manifeste e implicite, di acquirenti ed utenti: in sintesi tutto il mercato di riferimento.
Nel settore del quale intendiamo parlare, la qualità globale incorpora, sia pure in misura diversa e selettiva, quattro differenti tipologie, che afferiscono ad aspetti sia oggettivi che soggettivi. Infatti il concetto “qualità” ha valenza pluridimensionale e può essere osservato sotto molti punti di vista. La qualità orientata al prodotto copre tutti gli aspetti fisici, che insieme forniscono una precisa descrizione del prodotto alimentare specifico. Esempi di qualità di prodotto possono essere la percentuale di grasso e le dimensioni del muscolo della carne, il contenuto di cellule nel latte, di amido nelle patate, e la gradazione alcolica della birra. La qualità orientata al processo riguarda il modo in cui l’alimento è stato prodotto, ad esempio, senza pesticidi, o con metodiche “biologiche”, secondo le norme sul benessere degli animali, ecc. Le descrizioni basate su questi aspetti forniscono informazioni sulla procedura utilizzata per realizzare il prodotto, e questi aspetti non necessariamente hanno effetto sulle sue proprietà fisiche. Il terzo tipo è il controllo di qualità, che noi definiamo come gli standard che un prodotto deve soddisfare per essere approvato per una classe di qualità specifica, ad esempio, lo standard per il peso delle uova di varie dimensioni, la classificazione EUROP delle carni, ecc. I sistemi per la certificazione di qualità come ISO 9000 hanno a che fare principalmente con il controllo di qualità. Quest’ultimo si occupa quindi dell’adesione a norme specifiche per la qualità orientata al prodotto e al processo, indipendentemente dal livello al quale esse sono state definite. Possiamo dire che la qualità orientata al prodotto e al processo riguarda il livello di qualità, mentre il controllo di qualità si occupa della dispersione della qualità intorno a un livello pre-determinato. Infine, la qualità orientata al consumatore è la percezione soggettiva di qualità dal punto di vista del consumatore - finale o intermedio nella catena alimentare, ad esempio, un rivenditore. Si può anche dire che la qualità orientata al prodotto, la qualità orientata al processo e il controllo di qualità costituiscono la qualità oggettiva, in quanto possono essere accertate misurando e documentando gli aspetti del prodotto e il processo di produzione, e numerose misure saranno identiche entro certi limiti di errore. Può dirsi che la qualità orientata al consumatore costituisca la qualità soggettiva, poiché può essere misurata solo al livello del consumatore finale, e può differire per lo stesso prodotto tra i diversi soggetti.
I quattro tipi sono correlati. Specificamente, la qualità orientata al consumatore è influenzata da tutti e tre i tipi di qualità oggettiva. Tuttavia, queste interrelazioni non sono affatto chiare e la qualità orientata al consumatore può anche essere influenzata da fattori che non sono caratteristiche del prodotto stesso, come ad esempio la situazione di acquisto, il tipo di punto vendita, il prezzo, la marca, ecc. Gran parte della discussione sulla qualità nell’industria alimentare riguarda la qualità orientata al prodotto e al processo e il controllo di qualità, mentre il consumatore valuta e paga per la qualità soggettivamente percepita. L’importo che un consumatore è disposto a pagare per un prodotto dipende da questa qualità soggettivamente percepita, che è relativa alla, ma non è la stessa, qualità oggettiva. I miglioramenti nella qualità oggettiva, che non hanno alcun effetto sulla qualità percepita, non avranno alcun effetto commerciale, e quindi nessun effetto positivo sulla competitività del produttore. Queste valutazioni soggettive sulla qualità mutano spesso radicalmente nel tempo e talvolta anche nello spazio, in base all’area geografico-culturale considerata. In chiave soggettiva quindi qualità non è un concetto assoluto ma, al contrario, un giudizio di valore di natura dinamica, in divenire. Comunque anche i “bisogni” mutano nel tempo, quindi la stessa qualità oggettiva deve cambiare. Il livello qualitativo di un prodotto non è mai statico, fisso.