Rivista tecnico-scientifica ambientale dell'Arma dei Carabinieri                                                            ISSN 2532-7828

AGRICOLTURA E ALIMENTAZIONE
La tutela della biodiversità d’interesse agricolo e alimentare in Italia
03/11/2021
di Claudia Del Brocco - Mar.Ord. Com. Sez. Add. e Corsi Scuola Forestale CC. Ceva(CN)

Strumenti di salvaguardia presente e future prospettive di valorizzazione. Il caso dei vitigni rari piemontesi.

Foto1Tra le cause che concorrono alla diminuzione di agrobiodiversità in Italia vi è la modernizzazione dell’agricoltura, ma anche, specialmente nel settore viti-vinicolo, la vincolante normativa di settore. Tuttavia con l’emanazione della Legge 194/2015 il legislatore ha inteso fornire alle Regioni gli strumenti necessari per la tutela della biodiversità agricola e per la valorizzazione e il rilancio degli ecotipi locali, come accade per alcuni vitigni autoctoni rari del Piemonte: varietà dall’alto valore genetico che, seppur minori, sono in grado di trovare buon riscontro sul mercato grazie alle loro notevoli attitudini produttive.

Agricultural modernization, as well as binding specific legislation notably affecting vinicultural sector, numbers among the main causes of agrobiodiversity decline.
Nevertheless, by issuing Law 194/2015, the legislator aimed to provide Regions with essential tools pursuing the safeguard of agricultural biodiversity, the enhancement and relaunch of landraces, such as occurring with some rare local grape varieties in Piedmont. Those varieties show high genetic qualities and, though minor, can meet a positive market response due to their impressive productive aptitude.

1. L’agrobiodiversità
Il concetto di agrobiodiversità (o biodiversità agricola) trova le sue fondamenta nell’insieme di tutte quelle risorse genetiche (vegetali, animali e microbiche) considerate di interesse agrario e che sostengono struttura e processi degli ecosistemi agricoli. Riferendosi ad un contesto artificiale, creato a partire da fattori naturali addomesticati, oggigiorno, assume, al di là dell’indiscussa importanza sociale, per lo più una valenza economica, essendo prioritariamente finalizzato all’ottenimento di un profitto. 
Questo patrimonio si è costituito nel corso della naturale evoluzione dei sistemi agricoli, dalla loro creazione, circa 10.000 anni fa, fino ad oggi, grazie all’alternarsi di generazioni di agricoltori e allevatori che hanno selezionato e trasferito, da e per aree geografiche differenti, varietà vegetali e razze animali di interesse alimentare. Alla luce di ciò, appare evidente come siano parte integrante del concetto di biodiversità agricola anche le risorse naturali e paesaggistiche che fungono da substrato, le tecniche di gestione di tali risorse e il bagaglio di cultura ed esperienze delle comunità locali che da sempre si occupano di questa ricchezza.
C’è da dire purtroppo che da svariati decenni sono in atto, a livello globale, anche nelle più remote zone rurali, condizioni che mettono a serio rischio di estinzione innumerevoli varietà e razze di interesse agrario.
Come formalizzato anche dalle “Linee guida per la conservazione e la caratterizzazione della biodiversità vegetale di interesse per l’agricoltura”  (2013), stilate a cura del Governo Italiano e del Ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali (Mipaaf), fenomeni di erosione genetica stanno determinando una cospicua perdita di biodiversità delle specie coltivate e allevate su tre diversi livelli:
1. A livello di sistema colturale, con la perdita assoluta di colture o razze locali;
2. A livello di specie, con la perdita di richness delle varietà coltivate o allevate;
3. A livello genetico, con l’impoverimento della tipologia di alleli presenti nel pool genetico considerato.
Per quel che riguarda in particolare le risorse genetiche vegetali (RGV), l’effettiva evidenza di erosione genetica è stata confermata da numerosi lavori, già a partire dagli anni 90. Uno studio, a titolo esemplificativo, condotto sugli alberi da frutto, analizzando le varietà incluse nei cataloghi vivaistici (Avanzato e Raparelli, 2005) ha evidenziato una perdita varietale complessiva di circa il 75%, con picchi massimi per albicocco e pero del 88%. 
È nei numerosi e complessi aspetti della modernizzazione dell’agricoltura che vanno ricercate le cause di tale erosione genetica. Uno dei principali, a livello mondiale, è senza dubbio stata, insieme alla spiccata e diffusa meccanizzazione dei sistemi agricoli, la sostituzione delle varietà locali di specie agricole (landraces), con le varietà moderne, cultivar migliorate, tese a massimizzare la produzione e quindi i profitti. Tutto ciò si è accompagnato alla perdita di conoscenza sugli usi e le cure tradizionali di queste colture. Come suggerisce Soster (2019), parlando del nostro contesto nazionale, si passa quindi dal concetto di agrobiodiversità della prima metà del ‘900 a quello di agrouniformità dal secondo dopoguerra in avanti. A questo aspetto si uniscono poi altri fattori che concorrono e spesso, specialmente a livello locale, possono essere decisivi. Non si può, infatti, ignorare la rilevante importanza e l’influenza che esercitano sugli ecosistemi agrari fattori ecologici quali i cambiamenti climatici, la perdita o la modifica dei suoli e degli habitat, la contaminazione ambientale, l’aumento delle fitopatie o dei parassiti, spesso legato ad introduzione di specie esotiche. Senza dimenticare anche alcuni fattori agronomici che possono esporre le varietà a notevoli rischi di completa perdita della propria identità a seguito di fenomeni di inquinamento genetico. In aggiunta a tutto questo risulta, infine, importante ricordare come, in alcune colture, come la vite, che sarà oggetto di particolare interesse nel proseguo della presente trattazione, vi sono ulteriori fattori di disturbo: culturali, legati per esempio alle mode del bere e all’evoluzione dei gusti dei consumatori, ma soprattutto fattori legislativi. È il caso della normativa comunitaria che, a partire dagli anni 70, con il Regolamento (CEE) 1388/70, perseguendo nel tempo il nobile scopo di orientare la scelta dei viticoltori verso produzioni che fossero in grado di difendere la qualità dei vini, si è dimostrata insidiosa per la sopravvivenza delle varietà locali. Tali riferimenti di legge, infatti, comportando l’obbligatorietà di coltivazione, propagazione e commercializzazione solo delle cultivar, ritenute di qualità, inserite in elenchi legati ai vari ambiti territoriali, determinano l’abbandono di quelle varietà qualitativamente interessanti ma non (ancora) incluse nei precisati elenchi. Ancora più stringente risulta la legge nazionale, che, nelle sue varie declinazioni, prima fra tutte la Legge 12 dicembre 2016 n. 238, che disciplina la coltivazione della vite e della produzione e del commercio del vino nel nostro paese, senza dimenticare il recentissimo D. Lgs. 2 febbraio 2021 n. 16 per quel che riguarda il complesso argomento della produzione e della commercializzazione dei materiali di propagazione della vite, ribadisce come possano essere impiantate, reimpiantate, innestate per la produzione dei prodotti vitivinicoli, propagate e commercializzate solo le varietà di uva da vino iscritte nel Registro Nazionale delle Varietà di Vite. Come precisato da Schneider (2021), questa regolamentazione, assolutamente necessaria nella complessità italiana, ma che pone così forti vincoli su quali siano le varietà da coltivare, potrebbe,  assieme ai lunghi tempi amministrativi e burocratici per gli eventuali cambiamenti, essere di forte ostacolo allo sviluppo produttivo del settore e alla salvaguardia delle varietà minori, considerando anche che i Paesi terzi non sono affatto soggetti a tali vincoli.

2. Tutela normativa dell’agrobiodiversità in Italia
Come appare chiaro da quanto appena detto, l’agrobiodiversità, in tempi moderni, risulta fortemente influenzata dalla politica e dalla sua espressione più forte data dalle leggi e dai regolamenti emanati. Non tutti però determinano paletti limitativi. Fin dalla diffusione, infatti, negli anni 90 del secolo scorso, dei trattati internazionali sulla biodiversità, primo fra tutti la Convenzione di Rio de Janeiro del 1992, si sono sviluppati orientamenti, anche giuridicamente vincolanti, per la produzione di leggi inerenti la tutela della biodiversità di interesse agricolo. In Italia sono state alcune Regioni (con la Toscana quale capofila assoluta) a produrre le prime norme in tal senso, per sostenere i sistemi agricoli locali e per incrementare la produzione dei prodotti tradizionali.  Altre Regioni, come il Piemonte, seppur non avendo concretizzato le azioni di tutela con leggi ad hoc, già da quel periodo, elargivano fondi, propri (ex L.R. 12 ottobre 1978 n. 63 S.M.I. Interventi regionali in materia di agricoltura e foreste)  o comunitari (attraverso il P.S.R.), ad enti operanti nei rispettivi ambiti territoriali, impegnati sul campo, al fine di finanziare progetti di ricerca e di tutela dell’agrobiodiversità, inclusi i libri genealogici delle specie animali in via d’estinzione. Le esperienze maturate in sede regionale hanno condotto nel 2008 alla definizione di un Piano Nazionale della biodiversità di interesse agricolo, che ha trovato la sua espressione applicativa nelle “Linee guida per la conservazione e la caratterizzazione della biodiversità vegetale, animale e microbica di interesse per l’agricoltura” con lo scopo di favorire l’adozione di metodologie comuni standardizzate e, successivamente, all’emanazione della Legge 1 dicembre 2015 n. 194 “Disposizioni per la tutela e la valorizzazione della biodiversità di interesse agricolo e alimentare”, che non solo definisce i concetti fondamentali per uno sviluppo coordinato nella gestione dell’agrobiodiversità su tutto il territorio nazionale, ma consente l’applicazione degli strumenti di tutela anche a tutte quelle Regioni che non si erano ancora dotate di una propria normativa.
Grazie alla copertura normativa e finanziaria della Legge 194/2015 tutte le Regioni oggi sono in grado di applicare l’azione di conservazione sia in situ (ovvero on farm), cioè nei territori di origine delle risorse genetiche, che ex situ, al di fuori cioè dell’ambiente di adattamento.
Le Regioni stanno lavorando molto per caratterizzare e conservare il proprio patrimonio: dall’inserimento delle risorse genetiche vegetali e animali nell’Anagrafe nazionale della biodiversità di interesse agricolo, al potenziamento dei propri centri di conservazione del materiale genetico, dalla ricerca, riscoperta  e studio mirato di nuove varietà sull’orlo dell’oblio, alla verifica della germinabilità dei semi nelle banche del germoplasma, dal riconoscimento e aiuto finanziario  agli agricoltori e allevatori custodi, al potenziamento di progetti per la gestione sostenibile delle risorse naturali e lo sviluppo territoriale che possono avere influssi positivi sulla conservazione della biodiversità agraria e miglioramento della qualità del paesaggio rurale combattendone la semplificazione.
Tutto questo per perseguire lo scopo primario che non è solo quello di invertire la tendenza involutiva che rischia di affossare la nostra agrobiodiversità, ma soprattutto quello di riportare gli ecotipi locali al successo che meritano.  

3. La riscoperta degli ecotipi locali: il caso dei vitigni rari del Piemonte
Molte varietà e razze locali, che possono oltretutto vantare il loro peculiare adattamento allo specifico territorio, presentano notevoli attitudini produttive e possono trovare buon riscontro sul mercato. Questa può essere considerata la chiave di volta per il rilancio di determinati prodotti, oggi considerati di nicchia. Pur nei limiti dei volumi trattati, infatti, è innegabile che i consumatori contemporanei, sempre più attenti alla salute e sempre più esigenti da un punto di vista qualitativo, siano pronti per la riscoperta degli ecotipi locali, che sempre più possono essere identificati come prodotti elitari grazie alla loro unicità, alla loro tipicità, alle loro peculiari caratteristiche organolettiche, nonché allo stretto legame con le tradizioni gestionali, storiche e culturali. In quest’ottica esempio ammirevole di possibili successi dell’agrobiodiversità sono le produzioni enologiche di pregio basate su vitigni autoctoni rari del Piemonte. Questa regione, a differenza della maggior parte delle altre in Italia, è fortemente orientata alla coltivazione dei vitigni tradizionali locali, lasciando in secondo piano i vitigni internazionali. Il Piemonte, infatti, può vantare, in merito all’assortimento varietale, un indice di similarità pari al 9% (come la Calabria), laddove la Toscana si situa al 19%, il Veneto al 29% e il Friuli al 38% (Anderson e Aryal, 2013). Questo determina, in altri termini, la scarsa propensione del Piemonte a condividere l’assortimento varietale regionale con quello di altre zone vitivinicole del mondo, ovvero ad adottare vitigni internazionali. Un patrimonio che non si limita alle cultivar più coltivate (e famose) quali il Barbera, il Moscato bianco, il Dolcetto o il Nebbiolo, ma che può vantare decine di landraces rare. Varietà locali di pregio, che affondano la loro origine nella notte dei tempi, e che, trovando spazi di valorizzazione, anche se su piccola scala, persino nelle aree dei più rinomati vini piemontesi, rappresentano, non solo un valore genetico impareggiabile, ma anche un valore economico, con la loro discreta redditività, e un valore storico culturale,grazie al fascino dello “story telling” che possono offrire a consumatori e turisti. 
Soffermandoci su questi due ultimi aspetti, vale la pena di citare in particolare due vitigni piemontesi molto rappresentativi.
Innanzitutto parliamo del Baratuciàt, per l’interessante riscontro che trova sul mercato grazie alla creazione, a partire da un antico vitigno della Val di Susa, di un vino nuovo bianco dai sentori fruttati che sempre più spesso negli ultimi anni conquista prestigiosi riconoscimenti e palati raffinati. Il nome, probabilmente derivato dall’espressione popolare piemontese Berla du chat, ovvero testicolo di gatto, indicherebbe la forma fortemente ellissoidale dei suoi acini; le caratteristiche peculiari del vino prodotto sono il colore giallo paglierino e il profumo intenso a maturazione con note di ananas e mela verde. Sono diversi i produttori che ne sono rimasti impressionati e che stanno investendo per la sua rinascita e valorizzazione. Etichette della zona di Almese (TO), con questo sorprendente vino, tra gli anni 2018 e 2020, hanno ottenuto sia la medaglia d’argento al Decanter World Wine Awards di Londra che le quattro stelle tra i “Vini da non perdere” assegnate dalla guida del Touring Club “Vini buoni d’Italia”.  Se indugiamo, invece, sull’emergente arte del raccontare storie quale strategia di comunicazione efficace, non possiamo non citare il Moissan, vitigno nativo del Piemonte, rarissimo, il cui fascino nasce dallo stridente contrasto tra la sua sopravvivenza, legata ad un’unica accessione di 5 piante rimasta presso la collezione ampelografica di Grinzane Cavour (CN), che ne fa uno dei vitigni ad alto rischio di estinzione del nostro paese, e l’essere il genitore di numerosi e famosi vitigni piemontesi, tra i quali, come evidenziato da Raimondi et al. (2020), il dolcetto; citato nei testi fin dal XVII secolo, il Moissan è di fatto un vitigno di cui oggi abbiamo perso le conoscenze, in particolare sulle sue attinenze alla vinificazione, e l’auspicabile esplorazione delle sue potenzialità si infrange  sulla scarsità del materiale disponibile. Il Moissan, insieme ad altri 34 vitigni rari piemontesi, sarà a breve inserito, grazie al Progetto “Germonte 2”, realizzato dalla Regione Piemonte in collaborazione con vari partner istituzionali - tra cui l’Università degli Studi di Torino e il CNR - e finanziato con i fondi elargiti dal Mipaaf ex L. 194/2015, nell’Anagrafe Nazionale della biodiversità di interesse agricolo e alimentare (ANB), al termine dell’istruttoria, prevista per legge, finalizzata alla verifica dell’esistenza di una corretta caratterizzazione e individuazione della risorsa genetica, della sua adeguata conservazione, in questo caso ex situ, e dell’eventuale possibilità di generare materiale di moltiplicazione. 


Bibliografia
• Anderson K., Aryal N. (2013) “Which winegrape varieties are grown where?” University of Adelaide Press, Adelaide.
• Avanzato D., Raparelli E. (2005) “Evaluation of genetic erosion by analysing the fruit varieties listed in the last century nursery catalogues”. Book of Abstract of the 1st Conference on Crop Wild Relatives. Agrigento, September 2005.
• ISPRA (2015) “Frutti dimenticati e biodiversità recuperate – Il germoplasma frutticolo e viticolo delle agricolture tradizionali italiane. Casi studio: Piemonte e Sardegna”. Quaderni Natura e Biodiversità 7/2015.
• Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali e Governo Italiano (2013) “Piano Nazionale sulla biodiversità di interesse agricolo - Linee guida per la conservazione e la caratterizzazione della biodiversità vegetale, animale e microbica di interesse per l’agricoltura”, INEA, Roma.
• Raimondi S., Tumino G., Ruffa P., Boccacci P., Gambino G., Schneider A. (2020)  “DNA-based genealogy reconstruction of Nebbiolo, Barbera and other ancient grapevine cultivars from northwestern Italy”. Sci Rep 10, 15782. doi: 10.1038/s41598-020-72799-6.
• Schneider Anna (2021) “Il Registro Nazionale delle Varietà di Vite - Istruzioni per l’uso”. OICCE Times – Numero 56 – anno XXII – Primavera 2021, pp. 21-25.
• Soster Moreno (2019) “L’Arca e la Cornucopia: percezione e sviluppo dell’agrobiodiversità” Quaderni dell’Agricoltura della Regione Piemonte. On line su https://quaderniagricoltura.regione.piemonte.it/articoli/analisi-e-ricerche/86.