Gli antichi Romani erano chiamati, ironicamente, dagli abitanti della Magna Grecia, pultiphagi (o pultiphagonides), ossia alla lettera “mangiapolenta”. Oggi diremmo “polentoni”. E non era un’esagerazione. Anche se lo stesso si sarebbe potuto dire di altre popolazioni, specialmente dell’Italia centrale tirrenica, a cominciare dagli Etruschi.
In realtà, la polenta o, più esattamente, la “polta” (in lat. puls, al plur. pultes), fu per secoli il cibo fondamentale, il vero e proprio piatto-base della cucina romana. Naturalmente, non si trattava di polenta fatta di granturco, che comparve in Europa solo dopo la scoperta dell’America ma di una pappa semiliquida di cereali bolliti e costituiva la forma più antica di utilizzazione dei cereali stessi (frumenta) che, insieme ai legumi, erano le specie primarie dell’alimentazione di tutta l’Italia centrale: quelle che, complessivamente, erano chiamate fruges, donde la “frugalità” diventata proverbiale degli antichi Romani.
Prima di ogni altro, venne usato il farro (o far), un tipo di grano rustico dai chicchi “vestiti”, cioè tenacemente attaccati al loro involucro (la pula), che fu lungamente l’unico cereale coltivato e usato nel Lazio, prima che gli facesse concorrenza il grano duro (proveniente dalla Sicilia e dall’Africa); a chicchi nudi, di lavorazione più semplice e gusto più raffinato (usato, peraltro, soprattutto per la panificazione). Il farro veniva bollito in acqua e sale, con eventuale aggiunta di latte, in uno speciale paiolo di terracotta, detto pultarium, tenuto sospeso sul fuoco per evitare che il contenuto s’attaccasse al recipiente. Poteva essere cotto sia in chicchi interi, dopo essere stato torrefatto e battuto, sia macinato o, piuttosto, grossolanamente frantumato nel mortaio di casa e quindi ridotto, pur con molte scorie, in quella che ancora chiamiamo “farina” (farrina). In tal caso, la polenta di farro era detta farratum, ossia “farinata”. In questa sua versione più semplice ed elementare, la polenta romana – la antiquissima puls, come la chiama Varrone (Lat. 5,105) – non doveva essere molto saporita! Si trovò così il modo di migliorarla aggiungendovi, volta a volta, vari ingredienti: cavoli e cipolle, latte e formaggi, uova, ceci, lenticchie e semi di altre leguminose, e soprattutto fave (nella puls fabata). Ma, tra le ricette di Apicio ce n’è una che la prescrive arricchita con un impasto fatto di cervelli e carne macinata, condito con pepe, levistico, seme di finocchiella, vino e liquamen, la caratteristica salsa di pesce della quale i Romani erano ghiotti. Quando era così arricchita, la “polta” veniva talvolta chiamata col nome di satura (o satira), che equivale a “miscuglio”. Densa e sostanziosa com’era, allora, non è difficile capire come essa potesse condurre facilmente alla saturazione (come diremmo oggi, mentre gli antichi ricorrevano a una perifrasi col verbo saturare). E si capisce pure come lo stesso termine sia stato usato per designare il genere letterario, così tipicamente latino, che ancora chiamiamo “satira”: in origine (e prima della “sistemazione” operata dal poeta Lucilio, nel II secolo a.C.), un componimento recitabile, misto di poesia e prosa, fatto di un “miscuglio” di battute ironiche, di motteggi, di doppi sensi e di allusioni ridanciane, anche pesanti, scurrili e oscene.
La polenta fu a Roma, per molto tempo, il pasto quotidiano di tutti, poveri e ricchi, patrizi e plebei. (è noto che i Romani vivessero a lungo di polenta, non di pane; Plinio il Vecchio, Nat. Hist. XVIII, 83). Lo stesso Plinio e Valerio Massimo, nel I secolo a.C., ricordano come una volta anche i maximi viri, gli uomini illustri, consumassero più frequentemente polta che pane. Poi, proprio con la diffusione del pane, a partire dagli inizi del II secolo a.C. e sempre di più, via via che le conquiste d’oltremare portavano novità ed esotismi anche in cucina, essa abbandonò piuttosto rapidamente la mensa dei ricchi e di coloro che, per mettersi al passo coi tempi, rinnegavano la rusticità e la frugalità degli avi.
La polenta, peraltro, continuò a svolgere un ruolo non secondario nell’alimentazione delle classi inferiori, magari in alternanza o a integrazione, dell’uso del pane. Soprattutto nelle campagne, ma anche a Roma. La parva cenula menzionata da Marziale (V, 78) restava fatta di puls e salsiccia, oltre che di un piatto di fave e di lardo. Ancora al tempo dell’imperatore Aureliano, nella seconda metà del III secolo della nostra, era la razione di cibo che la popolazione dell’Urbe riceveva periodicamente in quelle distribuzioni di viveri che, non a caso, si chiamavano frumentationes. Era di frumento e non di pane, e si può ragionevolmente pensare che nelle case della povera gente continuavano a bollire “le grandi pentole di terracotta fumanti di polenta” (grandes fumabant pultibus ollae) evocate, non senza una punta di nostalgia, da Giovenale..
Si può concludere ricordando come da una lettera di San Paolino da Nola apprendiamo che le pultes di farina di cereali impastata con l’acqua e con l’aggiunta di poche gocce d’olio, fossero il cibo consueto della comunità ascetica che attorno al santo era riunita agli inizi del V secolo, nella declinante antichità.