L’etica della prossimità nella vita militare(*)





Vincenzo Pelvi

Arcivescovo,
Ordinario Militare per l'Italia




 
1. Presentazione

In questo tempo di globalizzazione è urgente dimostrare, a livello di pensiero e comportamento, che non solo i tradizionali principi dell’etica, quali la trasparenza, l’onestà e la responsabilità non possono essere trascurati o attenuati, ma anche che il principio di gratuità e la logica del dono, come espressione della fraternità, possono e devono trovare posto nel vissuto quotidiano. Si tratta di un’esigenza della carità(1), per costruire una società, fondata sulla verità, sulla libertà, sulla giustizia e sull’amore, i quattro grandi pilastri della casa della pace, secondo la Pacem in terris del beato Giovanni XXIII.
I problemi che si pongono, oggi, hanno una dimensione planetaria, poiché lo sviluppo delle tecniche di comunicazione favorisce una crescente interazione tra le persone, le società e le culture.
Un avvenimento locale può avere una risonanza mondiale quasi immediata. Emerge ormai la consapevolezza di una solidarietà globale, che trova il suo ultimo fondamento nell’unità del genere umano.
Questa si traduce in una responsabilità mondiale, che comporta la ricerca di valori comuni, radicati su una chiamata interiore a compiere il bene. Il che richiama la complementarietà che promuove un agire responsabile e quindi etico.
La complementarietà, come riconoscimento dell’interdipendenza reciproca, consente una visione nuova dei rapporti interpersonali, rivaluta la tradizione legame imprescindibile con il passato e presupposto di un agire responsabile nei confronti delle generazioni future rendendo gli individui consapevoli di appartenere a un tessuto sociale fatto di relazioni interpersonali e intergenerazionali.
Complementarietà e interdipendenza fanno emergere il senso di una nuova etica della responsabilità che non si limita ai contemporanei o al proprio gruppo, ma si estende alle persone appartenenti a generazioni diverse. (Pensiamo, ad esempio, alle risorse che si ricevono in eredità dalle generazioni passate e devono essere trasmesse a quelle future tramite una gestione oculata; ciò rappresenta la condizione di sopravvivenza comune a tutte le generazioni). Il soggetto di questa etica della responsabilità non è più l’uomo singolo, ma l’umanità tutta. Perciò, la dimensione di riferimento che spesso definiamo coscienza non è quella individuale, bensì collettiva.
Che cosa significa allora destare le coscienze sulle questioni nazionali e internazionali se non far sì che gli uomini assieme si rendano conto dei problemi suscitati dalle migrazioni, dalla povertà, dalla caduta dei regimi dittatoriali come in Africa o in altri continenti, dalla crisi finanziaria, alimentare e ambientale, dalla trasformazione della democrazia in senso populista? Di qui l’esigenza di una educazione alla mondialità dei nostri militari.

 
2. Emergenza educativa e professione militare

L’opera educativa nella professione militare riguarda l’ideale dell’autonomia e l’orizzonte ampio dentro cui collocare il suo valore educativo. L’avventura educativa nasce da un incontro, che svela un senso, genera una compagnia, attiva un cammino, e non è autentico se tende a mantenere l’altro in uno stato di dipendenza permanente. Educare non è fare, ma stimolare. Una persona non si fabbrica con l’addestramento. è necessario, perciò, nella relazione educativa ricercare un equilibrio continuo fra i passi indietro che l’educatore deve compiere nella sfera della crescita e i passi avanti dell’educando nell’esaltante cammino della libertà. Questo cammino implica un diritto di ricevere e insieme un dovere di restituire, che oltrepassa il rapporto diretto con il maestro e investe l’intero arco delle relazioni sociali che egli sarà chiamato a vivere.
Ne consegue che una interpretazione egoistica dell’autonomia rischia, se intesa in senso improprio come autoaffermazione, di generare soltanto perdita del senso dei legami, delle norme, delle identità. In questa direzione il soggetto umano è pensato come originato da se stesso e abbandonato a una solitudine narcisistica, alla lusinga dell’immediato, al tentativo continuo di liberarsi dagli oneri della memoria e dalle fatiche del futuro.

 
3. Il bene comune

Se la vita delle persone si muove nel vuoto esistenziale, cosa potrà mai accomunarci, di là da interessate e occasionali convergenze? Allora ci vuole un impegno comune in vista del bene comune (munus: dono e compito), che custodisce e armonizza il pubblico e il privato. Al contrario, assistiamo a uno scollamento tra pubblico e privato, a cui segue lo sdoppiamento dell’idea di bene comune: per un verso identificato con una somma aritmetica di beni materiali, meritevoli di tutela pubblica solo perché utilitaristicamente indispensabili alla vita di tutti (come i beni ambientali) o comunque ritenuti irrinunciabili dinanzi alla libera fruizione individuale (come i beni culturali e artistici); per altro verso, ridotto a una cornice vuota di condizioni e regolamentazioni che comportano tensione e competizione.
Il bene comune diventa, così, problematico: altro è raccontare una società originariamente pacifica e figlia della partecipazione, altro lo stile del sospetto, che mette in guardia contro una società figlia della guerra e del conflitto, in cui guadagnare convenienza e dove la giustizia è ridotta a difesa degli egoismi privati. E, così, la politica, già indebolita nell’elaborare progetti alti e unificanti, asseconda di volta in volta, ora il populismo di campagne moralizzatrici, ora un’apparente mentalità al di sopra delle parti. In realtà, il difficile bilanciamento fra l’autonomia della persona e il bene comune domanda una cultura della partecipazione, che motiva una forma di reciprocità aperta, dilatando la rete delle appartenenze, dall’ambito primario della famiglia a quello della società civile, fino a comprendere l’intera famiglia umana, aprendo le frontiere dell’inclusione, in una sana dialettica di amore e giustizia, che è credibile se non identifica sempre l’altro con l’estraneo o il nemico. La motivazione del commune non è il successo ma il bene, un bene che è tanto più autentico quanto più è condiviso, e che non consiste prima di tutto nell’avere o nel potere ma nell’essere.

 
4. L’etica del militare

Al nostro Paese, sedotto da messaggi e da modelli che ostentano l’idolatria del benessere individuale, che guarda con disaffezione alla stanchezza e omologazione della politica, la famiglia militare risponde con l’impegno culturale, la passione civile e una vita virtuosa, investendo su valori che non passano e non si negoziano.
Penso al dovere, alla disciplina, all’onore, alla lealtà, all’esempio, alla famiglia dell’Arma; come pure alla correttezza, alla trasparenza e alla prudenza, alla dignità del militare in funzione della specificità dei fini istituzionali, alla titolarità di una responsabilità che richiede appropriata sensibilità professionale. Tutti questi aspetti sono fondamentali importanti per la crescita del bene di tutti. Ne deriva un comportamento rispettoso di norme e procedure, attuato in modo non formale ma con linearità e coerenza, che esclude nella vita del Carabiniere ogni irregolarità e deviazione dai compiti professionali, contribuendo alla costruzione di una società eticamente sana e corretta.
Comprendiamo, allora, come nella professione militare una gratificazione esaustiva circa la coerenza e la rettitudine di vita non può essere fornita soltanto dalla remunerazione economica e dagli sviluppi di carriera, ma è appagamento morale che si percepisce per la propria credibilità in un’organizzazione gerarchica al servizio del bene comune.
La concezione della vita professionale intesa come attività programmata (etica della professione) si apre al vissuto della professione (etica nella professione), dettata dall’appartenenza istituzionale, fattore morale che, dosato dal buon senso e dall’equilibrio, può dare risultati importantissimi, di formazione alla solidarietà e alla coesione sociale. Ma, anche detto che l’apparato disciplinare vige non solo nell’attività militare ma anche nella sfera privata, il Carabiniere è posto non solo dinanzi ai doveri ma anche a responsabilità personali, specie per quanto concerne quelle qualità capaci di procurare la stima degli altri, a cui ispirare il principio dell’autorità, l’etica dell’obbedienza, la consapevolezza della propria dignità, i modelli di condotta, esaltati dallo spirito di sacrificio e dalla simbologia di gruppo(2).

 
5. La questione del prossimo è la questione militare

Il termine prossimità richiama immediatamente l’esperienza di una vicinanza fra due o più persone, che non implica necessariamente una vicinanza fisica. Chi di noi non ha sperimentato vicinanze fisiche in un ambiente di profonde lontananze spirituali? Le persone sono vicine quando il rapporto di prossimità fa “uscire da sé”. La verità della prossimità non ha solo un significato teorico (ci dice chi è l’uomo), ma anche uno normativo (ci dice che cosa deve l’uomo all’altro uomo). Ne consegue che l’essere uno prossimo dell’altro esige riconoscere l’altro in se stesso e per se stesso.
Partiamo da una costatazione molto semplice. Presso ogni cultura, come nella nostra esperienza quotidiana, amare è sintomo di volere il bene della persona amata e non il proprio bene.
Se, infatti, voglio il bene dell’altro in quanto è il mio bene, in realtà non voglio il suo, ma il mio bene: amo me stesso e non l’altro. Che cosa è il bene dell’altro? Il bene dell’altro, della persona umana, è il suo stesso essere persona umana. Volere il bene della persona umana, dell’altro in quanto è il suo bene, è volere che l’altro sia ciò che è. Il prossimo è l’uguale, non è l’amato, neppure l’amico. Il prossimo è ogni uomo.
Di fronte all’inumano che si manifesta in mille forme, la professione militare desidera difendere la dignità di ogni uomo e di tutto l’uomo. Prossimità è, infatti, disponibilità a farsi vicino, a muoversi da dove si è, è un’azione.
Il prossimo non esiste già prossimo, lo diventa non colui che ha già con me dei rapporti di sangue, di razza, di affari, di affinità psicologica. Prossimo divento io stesso nell’atto in cui, davanti a un uomo, anche forestiero e nemico, decido di fare un passo che mi avvicina, mi approssima.
La questione del prossimo conduce all’attenzione: radicale ai diritti dell’uomo: dai diritti dell’uomo, all’uomo che di tali diritti è titolare, in virtù del suo essere uomo. Potremmo dire che i diritti sono dei segni di un bene degno di rispetto che è “l’umanità della persona umana”.
Dinanzi al principio di umanità, il Carabiniere impara a riconoscere e disconoscere le tante forme di inumanità, radicate sull’umiliazione, che estromette, di fatto, dalla condizione umana.
L’essenza dell’umiliazione è l’indifferenza che riduce le persone a “casi” da affrontare: un numero in lista, una firma liberatoria, una richiesta di ammissione, un modulo da compilare, un corpo da sottoporre a indagini. Restare senza volto indica la riduzione di un uomo allo status di non persona, per cui la persona si sente congelata, immobile, pietrificata. Il disprezzo riesce, così, a cambiare l’interlocutore umano in un nulla. L’umanità non è un dato nella professione militare ma un compito. Farsi prossimo equivale a farsi umano, a decidere di essere uomo e di esserlo nella modalità della relazione, della generosità, del fare di sé un dono per gli altri; ciò costituisce il DNA della famiglia dell’Arma.
Agire nel quotidiano, sporcarsi le mani con chi è in difficoltà, progettare le risposte e riflettere sul senso di quello che si fa, di che cosa cambia nella vita della gente, sono dimensioni che aiutano a percorrere la via della prossimità, del servizio e del dono di sé.
In una società segnata da concorrenza, disgregazione, opposizione, nella quale non siamo nemmeno più capaci di parlarci senza ricorrere ai toni dell’offesa, la professione militare, così controcorrente rispetto alla cultura dominante, è un cammino serio di responsabilità più che di competenze. L’umanità, infatti, è una, e ogni essere umano o si colloca in una comunità, in relazione con altri, e allora si umanizza, oppure sperimenta quell’individualismo che ha come unico esito possibile la violenza. Solo la fraternità ricevuta e donata è per ogni persona l’esperienza dalla quale nasce la speranza nella vita(3).
Questa porta a proporre stili di vita alternativi alle mode correnti: l’attenzione ai deboli, il senso e la dignità dell’altro, l’accoglienza e il rispetto della diversità, le forme di condivisione dei beni, il rifiuto dello spirito di cosificazione e litigiosità, le azioni di dialogo e di riconciliazione nelle situazioni di vita ordinaria: gli altri non sono concorrenti da cui difenderci, ma fratelli e sorelle con cui essere solidali; sono da amare per se stessi; ci arricchiscono con la loro presenza(4).
Il Carabiniere ha l’arte della mediazione e della pacificazione.

 
6. Prossimità e pace

La pace diventa continuo convergere e permanente incontrarsi.
Non c’è solo il linguaggio verbale, bensì anche il linguaggio eloquente dell’empatia e dei gesti. L’apertura e il disarmo degli animi vengono prima di ogni altro passo.
Oltre alla dolcezza dell’ospitalità, c’è la bellezza corroborante della condivisione degli stessi ideali, di una responsabilità universale.
La pace è l’esperienza di una fraternità trascendente, dell’appartenenza alla stessa famiglia umana che cammina unita e che percepisce nel profondo del suo essere una comune origine e un comune traguardo.
La pace è possibile e più che di discussioni, di dibattiti e di negoziazioni, ha bisogno anzitutto dell’amicizia tra i popoli.
Senza Dio l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia. Di fronte agli enormi problemi dello sviluppo dei popoli che quasi ci spingono allo sconforto e alla resa, ci viene in aiuto la parola del Signore Gesù Cristo che ci fa consapevoli: «Senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5) e c’incoraggia: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Di fronte alla vastità del lavoro da compiere, siamo sostenuti dalla fede nella presenza di Dio accanto a coloro che si uniscono nel suo nome e lavorano per la giustizia. L’uomo non è in grado di gestire da solo il proprio progresso, perché non può fondare da sé un vero umanesimo. Solo se pensiamo di essere chiamati in quanto singoli e in quanto comunità a far parte della stessa e unica famiglia umana, saremo anche capaci di produrre un nuovo pensiero e di esprimere nuove energie a servizio di un vero umanesimo integrale.

 
7. Cristo, modello di prossimità

La vita della persona e di un popolo può essere animata e trasformata in tutte le sue dimensioni dal Vangelo, per raggiungere in pienezza il suo fine e la sua verità. È Gesù la chiave che ci apre la porta della sapienza e dell’amore, che spezza la nostra solitudine e tiene accesa la speranza davanti al mistero del male e della morte.
Se viviamo in, con, per Gesù Cristo, possiamo essere fruitori e portatori di un nuovo pensiero circa la famiglia, l’economia, la società. Solo se possediamo i suoi sentimenti, il suo amore per l’umanità, per il vero bene delle persone, possiamo conseguire con determinazione e perseveranza il bene comune.
Vivendo in Gesù, avendo fiducia in Lui, accogliendo la Sua parola, la nostra intelligenza si apre a un sapere più che umano, il sapere di Dio sull’uomo che consente di amare la famiglia, il lavoro, la finanza, l’economia, la politica, lo sviluppo integrale secondo la loro giusta valenza, ossia secondo una corretta scala di beni valori, per cui essi non sono idolatrati, ma nemmeno sottodimensionati.
L’unione della mia mente e del mio cuore a Gesù, Colui al quale riconosco e offro il primo posto, il primato rispetto a tutto il resto, mi consente di non assolutizzare, ad esempio, il profitto, la tecnica (tutto ciò che essa mi consente lo faccio, anche se produco mostruosità...), il potere, ma di viverli subordinati al bene delle persone, al bene di tutti.
La fede in Gesù non è fonte di oscurantismo e di ignoranza, ma origine di una vita morale più corretta, di una vera civiltà. Occorre possedere una vita buona grazie a una antropologia che abbia come suo fondamento Dio. Occorre “globalizzare” Dio, Gesù Cristo. In realtà, in forza della creazione e dell’incarnazione del Verbo, essi lo sono già. I semi del Verbo sono ovunque, in ogni popolo e cultura. Si tratta di indicarli, annunciarli e testimoniarli, superando la separazione tra etica e tecnica, economia e giustizia sociale, etica e famiglia, etica e finanza, etica e politica, etica della vita ed etica sociale.
L’attività tecnica, l’economia, la finanza, la politica sono attività della persona, dalla persona e, pertanto, devono avere come fine la persona, ossia devono servire alla sua crescita umana in pienezza. Tali attività vanno, dunque, organizzate in modo che non si pongano al posto delle persone, strumentalizzandole, riducendole a mezzi, cose, semplici merci. Ciò può avvenire attraverso il possesso di una giusta scala di beni/valori, possibile se si pone alla base della propria condotta il riconoscimento del primato dell’amore a Dio.
Le persone umane sono esseri relazionali. Esse si compiono donandosi mutuamente, disinteressatamente. La finanza, l’economia, la politica sono attività veramente umane se organizzate in termini relazionali, ossia come attività dove si vive fraternamente, secondo il principio del dono e la logica della gratuità.
Cosa significa, in concreto, incrementare la dimensione della fraternità nell’economia, nel mercato e nell’impresa? Significa, innanzitutto, vivere il mercato, l’impresa, non solo quali luoghi in cui si attua il principio dell’equivalenza di valore dei beni scambiati, ma anche quali istituzioni umane in cui le persone si incontrano, stipulano contratti, scambiano beni e servizi, in conformità a una fiducia reciproca generalizzata, gettando lo sguardo oltre la sola dimensione economica, scorgendo. nell’altro un proprio simile, un aiuto, un essere che non mi è necessariamente nemico, che sono chiamato a non ingannare, a non sfruttare, ma a servire con la mia professionalità e il mio comportamento etico, con la passione che pongo nel mio lavoro, con l’orgoglio di offrire sul mercato il miglior prodotto a prezzo accessibile, perché i propri fratelli meritano il massimo.
I protagonisti del mercato non agiscono solo in quanto soggetti economici, ma anche nella loro qualità di persone, inserite in una trama di relazioni sociali più vaste, come la famiglia, la propria Nazione, il mondo.
è naturale che il mercato non può essere più luogo di sopraffazione del forte sul debole o ambiente di rapporti antisociali, bensì sfera dalle relazioni improntate ad amicizia, a solidarietà, a reciprocità(5).
La fraternità non è un vago sentimento, bensì un farsi carico del proprio simile per rispondere alle sue esigenze e alla sua dignità di figlio di Dio.
In tutto questo, la fraternità svolge la funzione di un potente incentivo per la dignità delle persone e le risposte ai bisogni della famiglia, del bene comune, dello sviluppo dei Paesi nel mondo. Sentiamoci e viviamo come un’unica famiglia umana, nella quale la crescita degli uni dipende da quella degli altri. è il futuro della pace.



(*) - Testo della conferenza tenuta alla Scuola Ufficiali Carabinieri (Roma, 21 maggio 2012).
(1) - Cfr. Caritas in ventate, nn. 36 e 67.
(2) - Cfr. Libertini D., Profili di etica militare, in Rassegna dell’Arma dei Carabinieri, 3 (1998).
(3) - Cfr. Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica. Ecclesia in Europa, 28 giugno 2003, nn. 84 85.
(4) - Ibidem 98; 98.
(5) - Cfr. Caritas in Verirate, n. 36.