Il nuovo contenzioso negli Appalti Pubblici

Dallo stand-still al nuovo Codice del processo Amministrativo

Francesco Quarta

Francesco Quarta
Capitano,
Capo Sezione Gestione Finanziaria del Servizio Amministrativo  e Insegnante Aggiunto della Cattedra di Amministrazione e Commissariato della Scuola Ufficiali Carabinieri.

1. Premessa

Uno degli ambiti del diritto dove si intersecano in modo del tutto unico il diritto privato ed il diritto amministrativo è indubbiamente la materia degli appalti pubblici. In particolar modo quello degli appalti pubblici è l’ambito in cui fisiologicamente le regole amministrative della fase di scelta del contraente proseguono nel loro naturale sbocco ossia le regole privatistiche della conclusione ed esecuzione del contratto.
Leggendo alcuni manuali di qualche hanno fa era facile imbattersi nella citata bipartizione, quasi dogmatica, delle vicende dei contratti pubblici. Impostazione questa forse troppo pragmatica ma che evidenziava lo sforzo teso a tenere distinti due ambiti del diritto che, nella loro zona di confine rappresentata dalla stipula del contratto di appalto con l’aggiudicatario o preteso tale, ha manifestato tutti i problemi di tenuta degli istituti giuridici conosciuti, della ripartizione giurisdizionale, nonché dei rimedi interpretativi da adottare in caso di patologia.
Anche in altri ambiti dove il diritto amministrativo si è incrociato con vicende privatistiche i risultati sono stati analoghi, basti pensare all’annoso problema della pregiudiziale amministrativa dove, la possibilità di risarcire un danno provocato da un atto amministrativo illegittimo, si è scontrata con le ferree regole decadenziali della disciplina processual-amministrativa giungendo addirittura ad uno scontro tra Consiglio di Stato e Corte di Cassazione sul punto. Esempi questi forse frutto di formalismi in cui la tendenza a trincerarsi dietro interpretazioni di carattere formale, ha dato l’impressione che fossero più le vicende della vita a dover seguire le regole e ad essere al servizio di esse che il contrario. Quello che si vuol dire è che dietro le elucubrazioni dottrinarie e giurisprudenziali vi è la soluzione di problemi della vita che non devono rimanere sullo sfondo quale mero presupposto per soddisfare la regola scritta.
Ecco allora che riversato questo discorso nell’ambito dei contratti pubblici risulta facile capire quali problematiche si dovevano risolvere.
In particolare, un procedimento amministrativo (la gara d’appalto) finalizzato a far esprimere validamente la volontà di Pubblica Amministrazione in ordine alla scelta del contraente può, a causa di vizi o illegittimità, avere come risultato l’annullabilità di quella volontà ormai espressa ossia l’aggiudicazione della gara ad un prossimo imminente contraente. Cosa accade se quella volontà, invalidamente espressa, sfocia nella conclusione di un contratto di appalto? - Il contraente pretermesso ha interesse a far valere questa sua lesione al fine di essere lui l’aggiudicatario valido e quindi il contraente o gli sarebbe sufficiente ambire al risarcimento del danno? - E il contratto nelle more stipulato con l’aggiudicatario, diciamo così "frutto" della procedura errata, che ha avuto nel frattempo esecuzione o inizio di esecuzione, che destino potrà avere? - Ovvero in che termini l’annullamento dell’aggiudicazione è opponibile al contraente?
Sono questi gli ambiti della questione che non devono procurare sbandamento dogmatico, come di fatto è avvenuto, ma devono essere affrontati con la consapevolezza che, la tradizionale distinzione tra diritto amministrativo e diritto privato (che passava per la inderogabilità delle regole amministrative poiché dettate nell’interesse generale e la derogabilità delle regole del diritto privato poiché nella disponibilità degli interesse di parte), nell’ambito della disciplina degli appalti non può trovare spazio. Tanto sulla base del fatto che la contrattualistica pubblica è una delle principali modalità di intervento degli Stati nell’economia, con cui gli stessi distribuiscono risorse pubbliche quantificabili, a livello europeo, in un terzo del PIL e che di conseguenza, permea il "pubblico interesse" in un modo talmente profondo da far divenire la correttezza delle procedure e la certezza della tutela in fase contenziosa una prerogativa per la coerenza di tutto il sistema.

2. Evoluzione della dottrina sugli effetti dell’annullamento dell’aggiudicazione

Una prima soluzione circa gli effetti dell’annullamento amministrativo dell’aggiudicazione, sugli effetti e sulla validità prodotti dal contratto, era stata data sfruttando l’istituto giuridico civilistico della buona fede. In pratica, ripercorrendo le orme segnate dall’art. 2388 del Codice Civile, quello che bisognava tenere presente era l’opponibilità o meno dell’annullamento del provvedimento di aggiudicazione nei confronti del contraente il cui comportamento doveva essere valutato in termini di buona fede. Tale soluzione, essenzialmente privatistica, poggiava le sue basi su un’attenzione particolare nei confronti del contraente in buona fede che, rispetto ad un’aggiudicazione di una commessa pubblica per quanto illegittima, poteva indubbiamente anche aver modificato, nel breve periodo, le proprie strategie aziendali quali ad esempio: scorte di magazzino, esposizione bancaria, spese di investimento, assunzione di personale e che pertanto doveva essere tutelato proprio in virtù di tale legittimo affidamento. In tal senso la discussione sull’invalidità o inefficacia del contratto, stipulato in seguito ad un’aggiudicazione annullata, assume valore relativo in quanto se essa non dovesse essere opponibile al contraente in buona fede questi eseguirà il contratto che, non cesserà di produrre effetti a fronte di qualsivoglia pronuncia.
In un clima di incertezza caratterizzato dall’attribuzione della giurisdizione esclusiva al Giudice Amministrativo, prima con il D.lgs. 80/1998 e poi con l’art. 7 della L. 205/2000, in relazione alla problematica sulla sorte del contratto d’appalto medio tempore stipulato, rivendicata dal Giudice Ordinario, fu introdotta un’importante regola in materia di appalti pubblici relativi alle infrastrutture strategiche. In pratica per tali tipi di appalti un eventuale annullamento della aggiudicazione non comportava la caducazione del contratto, pertanto l’eventuale tutela del ricorrente poteva sostanziarsi solamente in un risarcimento per equivalente, opzione comunitaria di cui il Legislatore Italiano ha inteso avvalersi con l’art. 14 del D.lgs. 1990/2002.
Orbene, se solo per gli appalti relativi ad insediamenti strategici era stata prevista l’insuscettibilità del contratto ad essere caducato dall’annullamento dell’aggiudicazione, era evidente che in tutti gli altri casi, almeno secondo gli interpreti, il contratto doveva essere travolto. Soluzione questa, tanto intuitiva tanto osteggiata dalla dottrina atteso che, l’interesse pubblico imponeva che il contratto una volta stipulato, dovesse vivere e produrre effetti.
Con la legge n. 205 del 2000, in particolare con gli artt. 6 e 7, i giudici amministrativi hanno sentito sempre più forte la convinzione secondo cui il giudicato amministrativo sull’aggiudicazione dovesse estendere i sui effetti anche sul contratto, di modo che il concorrente terzo, ricorrente non aggiudicatario, potesse ottenere lo scioglimento del vincolo contrattuale sorto nelle more dell’impugnazione. Anche perché, colui che aveva subito una compressione del proprio interesse pretensivo all’aggiudicazione doveva essere naturalmente votato alla tutela in forma specifica, essendo il risarcimento per equivalente una tutela di seconda scelta a fronte degli interessi in gioco. Ecco allora la pronuncia del Consiglio di Stato n. 1218, sez. V, del 5 marzo 2003 secondo cui a fronte dell’annullamento dell’aggiudicazione dell’appalto il contratto medio tempore stipulato non sarebbe annullabile ma bensì radicalmente nullo ex art. 1418 Codice Civile, essendo sorto sulla base di una violazione di norme amministrative imperative. Contigua a tale impostazione vi era quella dei privatisti che affermavano che se di nullità del contratto si doveva parlare essa era da ascriversi più che altro ad un difetto genetico dell’accordo tra P.A. e contraente atteso che, il consenso di questa, non si era validamente formato.
Ma si era detto: un fatto sopravvenuto (l’annullamento dell’aggiudicazione), può mai avere la valenza di un istituto genetico del contratto quale la nullità? - Ed altresì, la teoria della inefficacia del contratto non si riferisce solo ad un dato fattuale (incapacità di produrre effetti) e non ad un dato giuridico?- Non solo, ma considerare nullo il contratto avrebbe significato processualmente rilevabilità d’ufficio oltre che non applicazione dei termini prescrizionali con totale incertezza dei rapporti giuridici. Valutazioni queste che avevano spinto proprio i fautori della teoria della nullità ad una mitigazione dogmatica dei suoi effetti processuali con conseguente creazione di una categoria speciale della nullità totalmente fuori dal diritto e dalla disciplina del codice civile.
In realtà, secondo l’impostazione civilistica, l’atto amministrativo adottato nella procedura ad evidenza pubblica, non sarebbe altro che una forma di manifestazione del consenso e, come tale, integrerebbe la volontà di un soggetto non fisico ma giuridico quale la P.A. Pertanto, ove il citato atto dovesse essere viziato e, pertanto annullabile, traslata la questione nel diritto privato, saremmo di fronte ad un consenso non validamente espresso e, pertanto, il contratto sarebbe anch’esso annullabile. Questa soluzione consentirebbe di salvare il contratto restringendo sia in termini temporali, che in termini soggettivi (solo la P.A. il cui consenso è viziato) la possibilità di far valere il vizio. Non solo, ma si radicherebbe anche la competenza in capo al G.O. essendo la questione certamente di diritto privato.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato reagendo a questa conclusione affermò che: l’annullamento dell’eventuale contratto stipulato sulla base di un’illegittima aggiudicazione doveva essere caducabile nell’interesse di tutti e non solo della P.A, inoltre esso aveva un difetto genetico, che gli impedirebbe di produrre effetti in modo automatico, per il solo fatto che l’aggiudicazione sia stata annullata, senza bisogno di pronunce costitutive da parte di chicchessia. In pratica la giurisprudenza amministrativa riteneva che l’annullamento dell’aggiudicazione facesse venire meno un presupposto, un requisito di idoneità del contratto a produrre effetti e ciò avveniva sia che tale meccanismo fosse definito "caducazione automatica", sia "inefficacia sopravvenuta" ovvero ancora quale difetto di legittimazione della P.A. a contrattare per illegittimità di un atto a ciò presupposto. Nuovamente si ritornava sulla categoria "fattuale" del contratto ossia non della sua esistenza giuridica, ma della sua impossibilità a produrre effetti.
è facile capire che tutte queste impostazioni sono un vano tentativo di conciliare l’inconciliabile atteso che anche il voler, ad esempio, riferirsi alla teoria degli atti consequenziali e della caducazione "a catena" di quelli strettamente tra loro connessi, la stessa non può applicarsi al caso di specie. Non tanto perché l’aggiudicazione ed il contratto che ne consegue non siano collegati da un rapporto causa-effetto, quanto perché sia tratta di due atti appartenenti a due mondi giuridici differenti al diritto amministrativo uno ed al diritto privato l’altro. La buona fede del contraente, l’interesse pubblico a vedere l’opera realizzata ed altre giustissime considerazioni, in questa discussione, lasciano il tempo che trovano dovendosi risolvere prima un problema interpretativo-dogmatico di non poco conto.
Appare evidente che, posto nuovamente il problema in questi termini, il parametro di soluzione si arricchisce della vera incognita ossia la competenza giurisdizionale.
In effetti, il fatto che il D.Lgs. 163/2006, nell’art. 244 ridonda il contenuto dall’art. 6 della L. 205/2000 non fa altro che far riaffiorare nuove schermaglie tra la giurisprudenza amministrativa e quella della Cassazione. In effetti la Suprema Corte (sentenza 27169/2007) aveva immediatamente ribadito che la fase relativa all’esecuzione del rapporto contrattuale, riguardante i diritti ed obblighi delle parti, è di competenza del G.O., ribadendo la solita problematica che ove la P.A. cessi di operare con poteri autoritativi si è nel campo di diritti soggettivi. In pratica la stipulazione del contratto, per quanto illegittima, finisce con il segnare la fine della competenza del Giudice Amministrativo. Patologie, inidoneità a produrre effetti, vizi della volontà contrattuale delle parti, sono di esclusiva indagine del Giudice Ordinario, in pratica la tutela del "doppio binario" scongiurata in tema di risarcimento degli interessi legittimi, viene riproposta quasi dieci anni dopo in tema di appalti pubblici. L’anacronismo è evidente.
L’Adunanza Plenaria 9/2008, allora, si affidò alla teoria, la potremmo così definire, dell’ "ovvietà giuridica", in pratica ciò che il Giudice Amministrativo non poteva dichiarare poiché preclusogli dal proprio ambito di competenza, ovvero gli effetti dell’annullamento dell’aggiudicazione sul contratto, rientrava nel campo dell’ovvio, ossia la Pubblica Amministrazione non poteva non prendere atto del fatto che, a fronte di un atto di aggiudicazione annullato, il contratto medio tempore stipulato qualche "problema" sia esso di esistenza, sia esso di efficacia lo doveva per forza avere. Ove il comportamento della P.A., a seguito di una pronuncia del Giudice Amministrativo, non fosse stato a ciò "consequenzialmente ovvio" il privato poteva invocare l’ottemperanza. Al massimo, potremmo aggiungere noi, la ditta pretermessa poteva sperare ad un risarcimento per equivalente ex art. 7 della legge 205/2000 secondo l’unico strumento a disposizione per risolvere le doglianze e cioè il risarcimento in denaro e far dimenticare tutte le questioni giuridiche.

3. La riforma

Il Parlamento Europeo unitamente al Consiglio della Comunità Europea nel dicembre del 2007 approvano una nuova direttiva destinata a modificare le precedenti direttive 89/665/CEE e 92/13/CEE al fine di migliorare le procedure di ricorso in materia di aggiudicazione di appalti pubblici.
La citata direttiva entrata in vigore nel gennaio del 2008 esplicitava, già dalle sue premesse, la propria finalità, ovvero superare le "carenze della vigente disciplina". In pratica la finalità della direttiva era forse l’unica eseguibile, ovvero risolvere ogni questione relativa all’effetto dell’annullamento dell’aggiudicazione sul contratto prima che si potesse parlare appunto di contratto. In pratica la partita del contenzioso si deve chiudere prima che il contratto venisse ad esistenza.
La controprova che proprio questo è il punto centrale di tutta la vicenda, sia ha nel momento in cui si notava, almeno fino a poco tempo fa, che le Amministrazioni aggiudicatrici, per paura che il loro operato avesse potuto "urtare la suscettibilità" di qualche partecipante pretermesso, intanto concludevano il contratto con il preteso legittimo aggiudicatario (c.d. corsa al contratto) e utilizzavano i tempi della giustizia, poi, come qualcosa che metteva d’accordo tutti: da un lato il ricorrente che poteva aspirare al suo risarcimento danni in denaro e dall’altro la P.A. che ormai poteva procedere con l’esecuzione del contratto e soddisfare, diciamo così, l’esigenza pubblica.
Altro che organizzare la propria impresa per l’esecuzione del lavoro ormai sfumato anzi, in questo modo si poteva contare su una molto più comoda "cassa liquida" rappresentata dal risarcimento, senza il benché minimo sforzo operativo.
La direttiva, nel ribadire la libertà degli Stati di individuare essi stessi gli effetti dell’annullamento dell’aggiudicazione sul contratto, pone un limite in relazione ai casi di "gravi violazioni del diritto comunitario" .
Prima di tutto si introduce un termine sospensivo obbligatorio di 10 giorni tra l’aggiudicazione e la stipulazione del contratto. Orbene, se è vero che già il nostro Codice degli appalti aveva previsto un termine analogo di 30 giorni all’art. 11 comma 10 tuttavia era anche vero che, la norma si apprestava a dire: "salvo ragioni di particolare urgenza", un po’ come dire alle Amministrazioni "se tale termine non lo volete rispettare almeno motivatelo con delle ragioni (pretese?) di urgenza". Il diritto comunitario, invece, non ammette tale deroga per la maggior parte delle procedure di aggiudicazione (aperte, ristrette, negoziate con bando).
Non solo, ma la Direttiva prevede che se è vero che le "procedure di ricorso non devono avere degli effetti sospensivi automatici", aggiunge anche che in caso di ricorso ad un Giudice indipendente in relazione all’aggiudicazione di un appalto, l’Amministrazione aggiudicatrice non possa stipulare il contratto prima che l’organo di ricorso abbia preso una decisione sulla domanda cautelare o nel merito.
L’effetto di tale disposizione è una novità assoluta, primo perché introduce una nuova forma di atto amministrativo (il provvedimento di aggiudicazione) ad efficacia condizionata (l’esito del ricorso), poi perché si blocca la possibilità di concludere il contratto, perché quello che finalmente viene preso in considerazione, quale bene della vita per il ricorrente pretermesso, non è più il risarcimento per equivalente, ma la stipula del contratto. Per coerenza viene prevista la sanzione giuridica per l’inottemperanza e cioè il contratto "viene considerato privo di effetti".
La direttiva inoltre individua due livelli di violazione in relazione al loro riflesso di gravità per il diritto comunitario, arrivando a prevedere un termine per ricorrere di 6 mesi decorrenti dalla data di stipula del contratto.


4. La disciplina nello specifico

Come già anticipato l’art. 11 comma 10 del D.lgs. 163/2006 già prevedeva un termine dilatorio per la stipulazione del contratto dopo l’aggiudicazione, solo che tale termine doveva essere rispettato, da parte della P.A. procedente, salvo "particolari ragioni di urgenza". Tale clausola di chiusura, da un lato confermava la voglia di essere normativamente all’avanguardia e, dall’altro mitigava il tutto con la scappatoia normativa per le Pubbliche Amministrazioni che, per un verso o per l’altro, avendo "qualcosa da farsi perdonare", intanto stipulavano chiudendo così ogni questione pratica sulla procedura.
Era evidente che, un assetto normativo come questo, non poteva assolutamente dirsi risolutivo del problema evidenziato innanzi, ossia quello rappresentato dall’effetto dell’annullamento dell’aggiudicazione sul contratto medio tempore stipulato, dunque occorreva affrontare la questione in modo più risoluto.
A complicare però il tutto c’è stata la stratificazione degli interventi normativi successivi ossia il D.lgs. 53/2010 prima e subito dopo il Codice del processo amministrativo che non hanno dato, agli addetti ai lavori, nemmeno il tempo di metabolizzare le novità.
In ogni caso all’art. 1 lett. c) del D.lgs. 53/2010 si conferma il termine dilatorio di trentacinque giorni, decorrente dall’ invio dell’ultima delle comunicazioni del provvedimento di aggiudicazione definitiva ai sensi dell’art. 79 del D.lgs. 163/2006 (non occorre che l’Amministrazioni provi la ricezione della citata comunicazione), per la stipula del contratto e che "l’esecuzione d’urgenza", vero punto dolente, durante il predetto termine dilatorio, non può assolutamente avvenire salvo due eccezioni:
1) che la procedura utilizzata non preveda la pubblicazione del bando;
2) che non vi siano ragioni di contingente interesse pubblico (ivi compresa la perdita di finanziamenti comunitari).
Appare chiaro che queste due eccezioni confermano lo spirito della norma, ovvero la tutela della pubblicità e par condicio dei partecipanti alla procedura in tutte le sue fasi.
Elementi questi da controbilanciare, poi, con "l’interesse pubblico".
Espressione questa, il cui contenuto dovrà essere dato dalla giurisprudenza in un’ottica nuova rispetto al passato e certamente più restrittiva per non vanificare il correttivo comunitario a ciò che già il Legislatore italiano aveva previsto nel codice dei Contratti.
In effetti, tale espressione dell’"interesse pubblico" non è piaciuta al Consiglio di Stato, parere 1 febbraio 2010, n. 368, in quanto è sembrata un’espressione troppo generica e non in linea con la direttiva comunitaria ai sensi della quale devono essere indicate con chiarezza le tassative e d eccezionali situazioni cui può derogarsi il termine dilatorio.
Il termine di trentacinque giorni è stato interpretato in due diversi modi. In particolare il termine di trenta giorni è stato letto quale termine speculare al termine per proporre ricorso. Quello che ha mosso gli interrogativi, a tal proposito, è stato il periodo suppletivo di cinque giorni. Al riguardo una parte della dottrina, maggiormente legata agli ambienti processuali, ha affermato che tale periodo suppletivo si è reso necessario al fine di rendere la disciplina coerente con il caso, tutt’altro che improbabile, che il ricorso venga notificato il trentesimo giorno e la Pubblica Amministrazione, vedendo spirare i 30 giorni si affretti a stipulare il contratto. In pratica i cinque giorni sono stati visti come termine tecnico, minimo e sufficiente per l’arrivo di un’eventuale notifica di un ricorso. Un’altra corrente, maggiormente legata alle innovazioni del Codice degli Appalti, ha inteso l’incremento del termine di sospensione della stipula, quale periodo speculare ai tempi tecnici connessi agli obblighi di informativa imposti dall’art. 79 del Codice (cinque giorni), quindi motivandolo con l’esigenza di far sì che la notizia non sia successiva alla data a partire della quale è possibile stipulare il contratto.
Fuori dall’ipotesi del comma 9 dell’art. 11 del Codice degli Appalti, che riporta l’unico caso di urgenza nella stipula del contratto e consente la deroga al termine di sospensione, il comma 10-bis del citato articolo prescinde dall’urgenza ma disciplina casi specifici in cui il termine di sospensione non si applica quali:
-  la presenza o l’ammissione di una sola offerta e non sono state proposte impugnazioni del bando o della lettera di invito oppure le eventuali impugnazioni siano state già respinte con decisione definitiva;
-  appalto basato su un accordo quadro (ex art. 59) o basato su un sistema dinamico di acquisizione (ex art. 60).
AI sensi del comma 10-ter dell’art. 11 del Codice dei Contratti, come modificato dal D.lgs. 2 luglio 2010 n. 104, allegato 4, art. 3 comma, 19 lettera a), a tale termine di sospensione di 35 giorni se ne aggiunge un altro di 20 giorni nel caso in cui sia proposto ricorso con contestuale domanda cautelare ed a condizione che, entro tale termine, intervenga:
-  il provvedimento cautelare di primo grado;
-  la pubblicazione del dispositivo della sentenza di primo grado in caso di decisione di merito all’udienza cautelare;
-  ovvero fino alla pronuncia di quest’ultimo provvedimento qualora successivo.
L’effetto sospensivo sulla stipula del contratto cessa quando in sede di esame della domanda cautelare il Giudice:
-  si dichiara incompetente ex art. 14 comma 4 del codice del processo amministrativo;
-  fissa, con ordinanza, la data di discussione del merito senza concessione di misura cautelare;
-  rinvia al giudizio di merito l’esame della pronuncia cautelare con il consenso delle parti.
Tale effetto sospensivo è dunque automatico alla proposizione del ricorso contenente istanza cautelare e di fatto vanifica l’istituto della domanda cautelare ante causam, o del decreto presidenziale inaudita altera parte. Come si può facilmente intendere, si è intervenuto in modo mirato nella fase topica della procedura di individuazione della controparte contrattura le della Pubblica Amministrazione, ovvero la stipula del contratto. In pratica tutta la problematica esposta in premessa viene meno, in quanto si elimina alla base il concetto di "contratto medio tempore stipulato". Tutto ciò permette di fare due considerazioni: la prima relativa allo spirito pragmatico della disciplina comunitaria, già peraltro anticipato dal Codice dei Contratti in modo blando, che è andato al cuore del problema, la seconda che un contratto stipulato da una Pubblica Amministrazione sulla base di un provvedimento amministrativo tipico illegittimo, espressione di una volontà contrattuale della stessa, è un problema giuridico di difficile soluzione che ha come unico modo di superamento dell’incertezza quello di non affrontarlo.
Nel caso di mancata pubblicazione del bando, ossia del presupposto della concorrenza, Il comma 2 dell’art. 245 recava identico contenuto rispetto all’attuale comma 2 dell’art. 120 del D.lgs. 104/2010 (Codice del processo amministrativo) relativamente al termine di impugnazione.
In particolare: o trova pubblicazione l’avviso di aggiudicazione definitiva e motivata, ed allora l’impugnazione andrà proposta nei trenta giorni successivi, ovvero nel caso tale avviso di aggiudicazione sia stato omesso o sia stata omessa la motivazione, il termine di impugnazione diventa semestrale e decorre dalla data di stipulazione del contratto. In pratica il fatto di allungare il termine di precarietà del contratto, mediante un termine semestrale, appare un monito nei confronti della Pubblica Amministrazione al fine di indurla al rispetto degli adempimenti notiziali di cui agli artt. 65 e 225 del Codice degli Appalti.

5. Le comunicazioni ex art. 79 dopo le modifiche di cui al D.lgs. 53/2010

Una delle novità, anzi potremmo dire precisazioni, del D.lgs. 53/2010 è senza dubbio quella contenuta nell’art. 2 comma 1 lett. b) riguardo all’oggetto della comunicazione d’ufficio ad opera dell’Amministrazione in relazione all’esito della procedura di gara e cioè: l’aggiudicazione definitiva. L’aggettivo "definitiva" specifica quello che nella prima versione dell’art. 79 comma 5, lett. a) era genericamente indicato quale "aggiudicazione", dando luogo ad incertezze circa l’identificazione di essa. In pratica prima della modifica normativa non si comprendeva se si trattasse dell’aggiudicazione provvisoria (art. 11, comma 4, d.lgs. 163/2006), oppure di quella definitiva (art. 11 comma 5), ovvero di quella definitiva ed efficace (art. 11 comma 8). La qualificazione del tipo di aggiudicazione era importante poiché incide sull’elemento temporale a partire dal quale decorre il termine di cinque giorni utili per diramare le comunicazioni.
Lo stesso Legislatore, ha quindi provveduto a qualificare il tipo di "aggiudicazione" precisando senza più alcun dubbio la decorrenza dei cinque giorni citati.
Ulteriore novità è quella di cui all’art. 2 comma 1, lett. c) secondo cui si deve comunicare "la data di avvenuta stipulazione del contratto con l’aggiudicatario tempestivamente e comunque entro un termine non superiore a cinque giorni". Tale comunicazione deve avvenire nei confronti di tutti i soggetti destinatari della comunicazione dell’aggiudicazione definitiva.
In pratica si tratta di soggetti (l’aggiudicatario, il concorrente che segue nella graduatoria, tutti i candidati che hanno presentato un’offerta ammessa in gara, a coloro la cui candidatura o offerta siano state escluse se hanno proposto impugnazione avverso l’esclusione, coloro che hanno impugnato il bando o lettera di invito) i quali sono tutti a conoscenza di una procedura selettiva indetta dall’Amministrazione e, che, comunque sono stati informati dell’aggiudicazione precedente la stipula.
Nel caso in cui fossimo stati di fronte a soggetti estranei alla procedura, poiché non informati per mancata pubblicazione del bando, questi avrebbero avuto quale termine per l’impugnazione il già visto termine semestrale per l’impugnazione decorrente dalla data di stipula del contratto. Orbene, tale norma di chiusura impone necessariamente alla parte pretermessa l’acquisizione di elementi conoscitivi in ordine alla procedura non pubblicizzata e dunque al contratto stipulato, in quanto il citato termine semestrale non decorre dalla scoperta della conclusione del contratto stesso. Dunque si è voluto dare un termine lungo di precarietà del contratto "occultato", ma non troppo (cfr. Politi).

6. La competenza giurisdizionale

Nell’affrontare la problematica relativa alla competenza giurisdizionale in materia di contratti pubblici, occorre fare una ricostruzione normativa che, dal Codice dei contratti pubblici è giunta al Codice del processo amministrativo entrato in vigore il 16 settembre del 2010 passando per il D.lgs. 53 del 2010. Un stratificazione normativa che, nel giro di pochi mesi, qualche problema di inquadramento lo ha creato e lo crea senza dubbio non fosse altro per il fatto che per ricostruirla occorre aprire ben tre testi normativi. In particolare una delle idee che ha animato il Legislatore del Codice del processo amministrativo è stata quella di inserire il rito speciale degli appalti all’interno di esso, al pari degli altri riti speciali amministrativi, per evitare la frammentazione della disciplina degli stessi all’interno di altre fonti ed impedire così la nascita di microsistemi procedurali che mal si conciliavano con la creazione codicistica di una procedura amministrativa.
In effetti nel D.lgs. 163/2006 l’art. 244 comma 1, delineava la competenza esclusiva del Giudice Amministrativo, in modo per la verità pleonastico, statuendo che "sono devolute alla giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo tutte le controversie, ivi incluse quelle risarcitorie, relative a procedure di affidamento di lavori, servizi, forniture svolte da soggetti comunque tenuti, nella scelta del contraente o del socio, all’applicazione della normativa comunitaria ovvero al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale".
Occorre precisare che, nel frattempo, l’art. 7 del D.lgs. 53/2010 aveva aggiunto al suesposto comma il seguente periodo: "la giurisdizione esclusiva si estende alla dichiarazione di inefficacia del contratto a seguito di annullamento dell’aggiudicazione e alle sanzioni alternative".
Bene, l’all. 4 art. 3, comma 19, del Codice del Processo Amministrativo, recita che l’art. 244 (come modificato dal D.lgs. 53/2010 n.d.r.) è sostituito dal seguente: "Il codice del processo amministrativo individua le controversie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di contratti pubblici" cioè l’art. 133, comma 1, lett. e) - 1, che ripercorre il 244, nel disegnare la competenza esclusiva del Giudice Amministrativo, ma non si coordina affatto con l’art. 120 del Citato codice del processo amministrativo relativamente al rito abbreviato.
In effetti nel Codice del processo amministrativo, Titolo V "riti abbreviati relativi a speciali controversie", l’art. 119, comma 1, lett. a), afferma che: "Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano nei giudizi aventi ad oggetto le controversie relative a: a) i provvedimenti concernenti le procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture, salvo quanto previsto dagli articoli 120 e seguenti".
L’art. 120 a sua volta, nel delineare l’ambito del rito abbreviato nella materia della contrattualistica pubblica, recita: "Gli atti delle procedure di affidamento, ivi comprese le procedure di affidamento di incarichi e concorsi di progettazione e di attività tecnico-amministrative ad esse connesse, relativi a pubblici lavori, servizi o forniture, nonché i connessi provvedimenti dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, sono impugnabili unicamente mediante ricorso al tribunale amministrativo regionale competente", e di conseguenza rispetto, all’art. 245 del Codice dei Contratti di cui ne ripercorre la traccia espone un ambito di applicazione differente. In sintesi come già rilevato dal Lipari e dal Politi in materia di rito abbreviato l’art. 120 del D.lgs. 104/2010 propone una disciplina:
-  più ampia, nella parte cui fa riferimento alle procedure contrattuali, senza fare riferimento all’evidenza pubblica da cui le stesse dovrebbero promanare;
-  più ristretta, nella parte in cui non si fa riferimento alle procedure riguardanti la scelta del socio;
-  più ristretta, nella parte in cui non considera quelle procedura relative al risarcimento del danno o quelle riguardanti la dichiarazione di inefficacia del contratto.
Orbene, se giustificata appare l’espunsione della materia del risarcimento del danno dall’ambito del rito abbreviato, in quanto in essa non sarebbero rilevanti le esigenze di accelerazione tipica dei giudizi impugnatori (Lipari), altrettanto non sarebbe per le questioni relative alla dichiarazione di inefficacia del contratto dove le esigenze di accelerazione della procedura sono nei fatti. Ecco allora che potrebbe venire in soccorso l’art. 32, comma 1, del Codice del processo amministrativo secondo cui "se le azioni sono soggette a riti diversi, si applica quello ordinario salvo quanto previsto dai Capi I e II del Titolo V del Libro IV, con attrazione anche delle controversie riguardanti l’inefficacia del contratto nell’ambito applicativo del rito speciale di cui all’art. 120 analizzato.

7. Alcune riflessioni sull’"inefficacia del contratto"

L’art. 7 del D.lgs. n. 53 del 2010 affronta e risolve un annoso problema, quello relativo alla sorte del contratto che, medio tempore, sia stato stipulato con i presupposti di legittimità venuti meno a causa dell’annullamento dell’aggiudicazione. Le Sezioni Unite della Cassazione avevano ricordato a tutti, con la sentenza n. 27169 del 2007, che la giurisdizione sui contratti appartiene al Giudice Ordinario in quanto si tratta di vicenda relativa a posizioni riguardanti diritti soggettivi.
L’ultima pronuncia delle Sezioni Unite, prima della riforma, è stata la n. 2906 del 2010, con tale pronuncia la Cassazione affermò che la cognizione della domanda di annullamento dell’aggiudicazione dell’appalto nell’ambito della giurisdizione esclusiva comporta che, lo stesso giudice, ha cognizione anche sulla domanda di annullamento del contratto. Ne consegue che in caso di annullamento dell’aggiudicazione il concorrente pretermesso, ha diritto ad una pronuncia di "inefficacia del contratto" ossia che sia dichiarato privo di effetti e che subentri nell’esecuzione dello stesso. Dichiarazione di inefficacia del contratto, a seguito di annullamento, che ora è di competenza del Giudice Amministrativo come disposto dal comma 1 dell’art. 244 del D.lgs. 163/2006 modificato dal citato art. 7.
Come confermato dall’art. 12 del D.lgs. 53/2010, comma 2, tutto l’impianto relativo alla dichiarazione di inefficacia del contratto è finalizzato alla vera forma che la tutela deve assumere, ossia la tutela in forma specifica, prima preoccupazione del ricorrente pretermesso onde scongiurare la valutazione del comportamento processuale ex art. 1227 del codice civile.
La categoria dell’ "inefficacia" del contratto la si deve cercare nell’ambito del diritto privato, in effetti essa non è una categoria autonoma ma bensì un modo di essere del contratto in tutte quelle ipotesi in cui gli effetti negoziali non si producono (cfr. Gazzoni - Manuale di Diritto Privato pag. 961).
In pratica, l’inefficacia deve esse tenuta ben distinta dalle ipotesi di invalidità, che si articolano nelle due sottocategorie principali di nullità e annullabilità, per essere considerata una sorta di istituto giuridico empirico della dottrina, si potrebbe dire descrittivo.
Quello che si vuol dire è che, il negozio "inefficace" è pur sempre un negozio esistente tanto sul piano storico quanto su quello giuridico e quindi dotato, di fronte al diritto, di una rilevanza ben precisa che non può essere ignorata tanto tra le parti quanto nei confronti dei terzi.
In generale l’inefficacia contrattuale può essere di due tipi, il primo una inefficacia originaria ossia coeva alla nascita del rapporto contrattuale, il secondo una inefficacia sopravvenuta in cui un fatto sopravvenuto alla nascita del rapporto impedisce a questo su un piano funzionale di produrre gli effetti (es. condizione risolutiva).
Nel caso degli Appalti Pubblici è evidente che, sia nel D.lgs. n. 53 del 2010 sia nel successivo D.lgs. n. 104 del 2010, il Legislatore ha fatto largo uso di tale citata categoria privatista dell’inefficacia, inquadrandola quale vera e propria sanzione giuridica, non si capisce quanto minacciosa, prima tassativa e poi discrezionale che il Giudice competente è chiamato ad operare con sentenza costitutiva.
Ma andiamo con ordine.
In passato, quando si parlava degli effetti della pronuncia amministrativa sull’aggiudicazione o, sugli atti prodromici ad una gara di appalto, sul conseguente contratto stipulato, le categorie privatistiche richiamate in merito alla sorte del contratto erano sostanzialmente due: la nullità del contratto se le violazioni erano state talmente tante e gravi da far pensare ad una volontà della Pubblica Amministrazione con difetti genetici, l’annullabilità nel caso di vizi amministrativi tenui che avessero portato ad una volontà viziata che, pertanto, potevano far parlare di contratto annullabile con azione di annullamento in capo alla parte interessata cioè la P.A.
Tuttavia, nella premessa, si è visto come il discorso in questione non era così facilmente risolvibile sul piano dogmatico e l’unico modo di trovare una soluzione relativa agli effetti degli atti amministrativi volitivi su un contratto privatistico era quello di progettare un sistema procedimentale che, attraverso lo "stand still", facesse venire meno ogni discussione di questo tipo. Ossia è come se si fosse detto: "visto che non si è riusciti a capire l’esito degli effetti dell’annullamento dell’aggiudicazione sul contratto medio tempore stipulato, facciamo in modo che non si possa stipulare prima di un certo periodo alcun contratto".
In realtà ci si rende conto che il sistema dello stand still non è riuscito ad eliminare la problematica citata quando all’ articolo 121 del D.lgs. n. 104 del 2010 si legge: "Il giudice che annulla l’aggiudicazione definitiva dichiara l’inefficacia del contratto nei seguenti casi, precisando in funzione delle deduzioni delle parti e della valutazione della gravità della condotta della stazione appaltante e della situazione di fatto, se la declaratoria di inefficacia è limitata alle prestazioni ancora da eseguire alla data della pubblicazione del dispositivo o opera in via retroattiva".
Una sorta di possibilità di incidere sugli effetti del contratto in modo quasi "sartoriale" modellando la granitica presenza di un negozio giuridico a proprio piacimento. In particolare, nel caso dell’art. 121 il Legislatore fa riferimento a violazioni molto gravi del procedimento amministrativo di evidenza pubblica quali: l’eliminazione della fase della pubblicità quale corollario della concorrenza, la stipula contrattuale in dispregio dei termini di sospensione.
Violazione gravi queste che in passato avrebbero, forse, fatto parlare di contratto nullo con la nullità, ovviamente, dichiarabile d’ufficio. Oggi, invece, la via prescelta è quella della "inefficacia", tertium genus delle impossibilità del contratto di produrre effetti. Tanto però a proposito di un contratto, si badi bene, pienamente valido che è e rimane tale da un punto di vista privatistico. Tant’è vero che nel secondo comma del citato articolo 121 ci si affretta a dire che: "Il contratto resta efficace, anche in presenza delle violazioni di cui al comma 1 qualora venga accertato che il rispetto di esigenze imperative connesse ad un interesse generale imponga che i suoi effetti siano mantenuti.
Tra le esigenze imperative rientrano, fra l’altro, quelle imprescindibili di carattere tecnico o di altro tipo, tali da rendere evidente che i residui obblighi contrattuali possono essere rispettati solo dall’esecutore attuale.
Gli interessi economici possono essere presi in considerazione come esigenze imperative solo in circostanze eccezionali in cui l’inefficacia del contratto conduce a conseguenze sproporzionate, avuto anche riguardo all’eventuale mancata proposizione della domanda di subentro nel contratto nei casi in cui il vizio dell’aggiudicazione non comporta l’obbligo di rinnovare la gara.
Non costituiscono esigenze imperative gli interessi economici legati direttamente al contratto, che comprendono fra l’altro i costi derivanti dal ritardo nell’esecuzione del contratto stesso, dalla necessità di indire una nuova procedura di aggiudicazione, dal cambio dell’operatore economico e dagli obblighi di legge risultanti dalla dichiarazione di inefficacia".
In pratica anche se la violazione è grave (e che in passato avrebbe fatto parlare la dottrina di nullità), il contratto può produrre i suoi effetti (quindi resta efficace) in presenza di esigenze imperative di carattere tecnico o con riferimento ad interessi economici qualora la sanzione della inefficacia appaia sproporzionata.
è evidente come questo secondo comma, sia una marcia indietro rispetto al primo che a sua volta è una marcia indietro rispetto allo stand still o, quanto meno una presa d’atto che lo stand still non può assolutamente conciliare l’inconciliabile cioè unire due mondi: da una parte la fase del procedimento amministrativo e dall’altra la fase di conclusione di un contratto al primo conseguente.
Ai casi tassativi dell’art. 121, 1° comma, tra l’altro derogabili ai sensi dell’art. 121, 2° comma, si aggiunge l’art. 122 seguente che, in ogni caso, apre al Giudice adito la possibilità di valutare se, a seguito dell’annullamento dell’aggiudicazione e fuori dai casi innanzi descritti, dichiarare l’inefficacia del contratto fissando la decorrenza della stessa inefficacia. Ossia ancora una volta un intervento sartoriale in cui il Giudice può utilizzare lo strumento privatistico della inefficacia decidendo se salvare tutto o niente ovvero una parte degli effetti del contratto stabilendone anche la decorrenza temporale.
Tale rilievo critico è solo uno spunto di riflessione per chi, abituato dai canoni del diritto privato a considerare i contratti una cosa seria, si trova di fronte a una diposizione non si comprende quanto confusa o quanto consapevole che, ha demandato alla Giurisprudenza l’onere di decidere volta per volta ciò che fino ad ora non si è riusciti ad inquadrare nella teoria, tra l’altro con una conseguenza giuridica che, da un lato salva l’esistenza del contratto, dall’altro gli impedisce di produrre effetti.