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Libri

Giuseppe Novero
Soveria Mannelli

Mussolini e il Generale.
Pietro Gazzera, ministro della
Guerra lungo le tragedie
del Novecento

Rubettino Editore,
2009, pagg. 191,
euro 14,00

Giuseppe Novero è un giornalista professionista con un curriculum di tutto rispetto percorso nell’editoria, nei quotidiani e nell’informazione televisiva.
Con il volume dedicato a Pietro Gazzera, l’autore ricostruisce le vicende personali di un ufficiale di carriera, intessendo la vita privata con quella pubblica di uno dei pochi uomini che, nel corso del ventennio fascista, ricoprì l’incarico di ministro della Guerra.
Gazzera rappresenta un personaggio tipico tra gli ufficiali dell’epoca: ricalca coerentemente il cliché degli ufficiali che vissero nel corso dell’età liberale e poi del fascismo.
Piemontese di Bene Vagienna, vi nacque nel 1879 da famiglia borghese, Gazzera abbraccia la carriera militare e inizia il suo percorso in uniforme con l’ingresso nell’Accademia di Artiglieria e Genio, uscendone ufficiale d’artiglieria.
Nell’arma dotta, l’ufficiale percorre una parte della sua carriera; nel 1905 è ammesso alla frequenza del corso di stato maggiore alla Scuola di Guerra di Torino, divenendo ufficiale di Stato Maggiore. È restituito all’artiglieria presso il 5° Reggimento di Artiglieria da Campagna con il quale partecipa alle operazioni in Libia nel corso della guerra Italo-turca, guadagnando una Medaglia d’Argento al Valore Militare. Terminata tale esperienza, Gazzera ritorna in Italia, ove svolse servizio presso l’Intendenza della 6ª Armata dopo aver assolto l’incarico di Insegnante Aggiunto di Logistica presso la Scuola di Guerra. Si specializza progressivamente nel settore logistico, assume l’incarico di capo sezione addestramento del Comando Supremo nel 1916, ritorna alla 6ª Armata ove si distingue nello Stato Maggiore; è richiamato al Comando Supremo nel 1917 ove, promosso colonnello, diventa capo ufficio segreteria del Comando.
Per Gazzera si trattò di un periodo fondamentale per la propria vita professionale, poiché ebbe l’opportunità di potersi confrontare con alcuni dei nomi più significativi delle Forze Armate di quel periodo.
Al termine del conflitto mondiale, fu destinato a vari incarichi compreso quello, difficilissimo, di sostituire il generale Tellini dopo l’eccidio della commissione italiana incaricata di sovrintendere alla definizione dei confini albanesi con i Paesi vicini.
Si trattò di un’altra prova brillantemente superata da Gazzera che continuò ad essere apprezzato per le sue indubbie capacità tanto da essere destinato, quale comandante, alla Scuola di Guerra una volta rientrato nel Regno. Così, Gazzera, nel 1929, dopo altre brevi esperienze al comando di unità dell’Esercito, fu nominato Ministro della Guerra da Mussolini.
Il rapporto interpersonale che Novero descrive è complesso: Mussolini sembra infastidito dalla precisione con cui il suo Ministro della Guerra gli riferisce dei numerosi problemi relativi all’ammodernamento e addestramento dell’Esercito.
Le innovazioni sono necessarie per rendere lo strumento militare adeguato all’evoluzione tecnologica degli altri Paesi. Gazzera è un uomo preciso e scrupoloso e riesce a imporre la sua azione a tutta la macchina amministrativa militare che dipendeva dal suo ministero ma ciò, lentamente, lo aliena dalle simpatie di Mussolini che lo liquida, com’era uso fare nella sua azione politica, sostituendogli un altro ufficiale ben più vicino al Regime.
Così Gazzera fu messo a disposizione senza incarico. Il generale patì molto questa situazione nella quale volutamente fu lasciato dal capo del governo sino al momento in cui ebbe finalmente un incarico. Nel 1938 fu nominato governatore del territorio dei Galla e Sidama, in Africa Orientale Italiana, annesso dopo la guerra Italo-etiopica. L’esperienza in Africa si mostra ricca di soddisfazioni personali e professionali, ma limitata nel tempo a causa del Secondo conflitto mondiale e del repentino crollo dell’Impero italiano.
Dopo la prigionia e con la cobelligeranza nel 1943 è rimpatriato in Italia ed è nominato Alto Commissario per i prigionieri di guerra.
È l’ultimo incarico di rilievo per chi, come lui, aveva percorso tutta la carriera in uniforme.
Nel 1945 Gazzera è collocato a riposo. Dedicò il tempo che gli rimase in parte ai suoi studi in Agraria quale membro dell’Accademia di Agricoltura fin dai tempi dell’AOI e in parte alla stesura delle memorie sulla sua esperienza africana. Morì a Cirié nel 1953 a 74 anni. Così terminò l’esperienza di un servitore di uno stato che nel frattempo era scomparso.

Ten. Col. Flavio Carbone




Michele Di Martino

Lussorio Cau - L’eroe di Morgogliai

Biblioteca della Nuova Sardegna/Mondadori
2009, pagg. 152,
euro 5,90

Arruolatosi nell’Arma a vent’anni, nel 1887, Lussorio Cau fu destinato presso la ostile compagine del nuorese, ove si infiltrò in una delle bande che infestavano la provincia, facendo vita comune con i briganti, condividendone abitudini ed usanze, studiandone il modus operandi, unendosi a loro anche nei faticosi spostamenti messi in atto per sfuggire alle forze dell’ordine.
La nuova edizione di quest’opera editoriale (nel 2006 era uscita con il sottotitolo "Due isole per un eroe", per i tipi della PuntoA, di Cagliari), offre il pretesto di parlare nuovamente di quest’uomo eccezionale il cui operato rese possibile l’annientamento completo di certo brigantaggio sardo di fini ottocento. Il suo lavoro di infiltrazione - culminante nel famoso scontro a fuoco denominato "la battaglia di Morgogliai" (che dà il titolo all’attuale edizione editoriale) - gli valse la Medaglia d’Oro al Valor Militare, che così recita: «Con gravissimo rischio della propria vita si recò da solo per ben due volte a riconoscere i rifugi di alcuni famigerati banditi, che avevano sparso la costernazione ed il terrore nel circondario di Nuoro giungendo tra le balze ed i cespugli di una località quasi inaccessibile fino a poca distanza da essi; quindi prese parte all’azione diretta a catturare i banditi e si distinse fra gli altri per coraggio e sangue freddo, esponendo più volte la vita; ebbe forato l’abito da palla avversaria e nell’inseguimento dei malfattori uccise il più pericoloso di essi». La vicenda, peraltro, fu raffigurata in uno splendido quadro riprodotto in uno dei primi numeri della Domenica del Corriere, indimenticato settimanale del ‘900, puntualmente riprodotta dall’autore nelle pagine interne, oggi considerata uno dei cimeli più preziosi nell’ambito del collezionismo di militaria, in particolare dell’Arma.
Ma l’operato di Cau valicò i confini, seppur estesi, della lotta al brigantaggio, giacché egli operò - divenuto sottufficiale prima, ufficiale successivamente - anche presso Castelbuono, in provincia di Palermo, nonché in zona bellica, nel corso della 1ª Guerra Mondiale, ove meritò un ulteriore riconoscimento al Valor Militare (Medaglia d’Argento), nonché la promozione al grado di Maggiore per meriti di guerra.
La sua vita fu costellata anche da vicende tetre e spiacevoli, alla cui narrazione l’autore, da buon biografo, non si è voluto sottrarre.
Passato in ausiliaria nel 1920, sette anni dopo fu richiamato con decreto del Ministero della Guerra e nominato, suo malgrado, Giudice del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato. Qui, fece parte del collegio giudicante che, nel 1929, condannò Alessandro Pertini a più di 10 anni di reclusione e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Tra le varie sentenze co-firmate dall’ufficiale, va ricordata quella di morte emessa nei confronti dell’anarchico Michele Schirru, ritenuto responsabile di avere progettato l’uccisione di Benito Mussolini. In seguito, con la caduta del fascismo, la drammatica vicenda della condanna e della fucilazione di Schirru, che in precedenza era passata quasi sotto silenzio, fu enfatizzata da una parte della stampa e l’anarchico, certamente vittima del fascismo, fu considerato un martire della libertà.
Nel dicembre 1944, l’Alto Commissario per le sanzioni contro il fascismo già emetteva a carico dei giudici che si erano avvicendati dal 1927 sino al 1943 presso il Tribunale Speciale - tra questi anche Cau - un ordine di cattura "per aver contribuito con atti rilevanti a mantenere in vigore il regime Fascista".
A causa del suo precario stato di salute (aveva 77 anni e soffriva di cuore), gli furono concessi gli arresti domiciliari presso l’abitazione sita a Castelbuono dove, ironia della sorte, erano proprio i carabinieri della locale Tenenza ad espletare nei suoi confronti il servizio di vigilanza e controllo.
Quanto sopra sembrerebbe gettare un’ombra di disonore nella vita del militare, il cui substrato morale, fino a quel momento, fu assolutamente indubitabile. Sennonché, un’attenta opera di consultazione di documenti e raccolta di testimonianze, restituisce oggi dignità ed onore a quest’uomo straordinario. L’autore, infatti, dimostra che la sua presenza in seno all’Organo Giudicante non fu da egli accolta benevolmente, talché cercò anche di sottrarsi all’incarico, accampando obblighi relativi alla direzione di una clinica in Sicilia (ai quali, nonostante tutto, non si sottrasse affatto). Quanto al suo apporto decisionale nelle sentenze sopra citate, non si è in grado oggi di dimostrare che egli fosse effettivamente favorevole alla condanna a morte di Schirru. Tuttaltro: testimoni siciliani riferirono che egli manifestò fin da subito l’intento di salvare l’anarchico, cercandolo di sottrarlo a quella che gli sembrava una fine già annunciata. Ma egli non riuscì, purtroppo, a difendersi compiutamente dalle accuse di servo del partito fascista. Come noto, infatti, le riunioni dei giudici in Camera di consiglio non erano all’epoca accompagnate dalla redazione di verbali integrali delle sedute, in modo da consacrare per iscritto l’atteggiamento di ognuno dei componenti del Collegio. Se così fosse stato, sarebbe stato facile per Lussorio Cau dimostrare che, nella maggioranza dei casi, la sua opinione era rimasta in isolata minoranza. A testimoniare quello che egli sosteneva, anni dopo, a proposito della sua indipendenza e della sua correttezza, c’è un solo un dato oggettivo: nel 1933, ad appena 6 anni dalla sua nomina, Cau fu messo da parte dal partito, "senza ricevere alcuna poltrona, né una prebenda, né una di quelle greppie che solevano essere assicurate ai gerarchi, all’atto del loro collocamento a riposo". La considerazione dell’autore non è peregrina ma dimostra, senza ombra di dubbio, che l’ufficiale non era affatto animato da simpatie di partito: era semplicemente un militare, i cui numerosi riconoscimenti, il passato onorevole, l’oggettivo spessore morale e di carattere, permisero alla cuspide fascista di donare maggior prestigio al Tribunale Speciale. La sua fuoriuscita da quest’ultimo senza riconoscimenti, materiali o morali, fu dettata, verosimilmente, dal suo comportamento imparziale, in seno all’organo giudicante, ove egli aveva certamente portato una nota di equilibrio e di scrupolosa obiettività, evidentemente scontentando il regime.
Il destino continuò ad accanirsi contro l’ufficiale: nello stesso periodo in cui tutto ciò si verificava, egli si vide revocare la pensione e, poiché non poteva provvedere al proprio sostentamento, senza peraltro avere la possibilità di poter pagare le cure mediche di cui aveva assoluta necessità, dovette necessariamente porsi a carico dei figli Eraldo e Maria Elia, tutt’altro che abbienti.
La pensione fu restituita a Cau cinque anni dopo, nell’aprile del 1949. Per ottenerla, fu essenziale l’apporto dell’allora segretario particolare del Ministro della Difesa, il quale, pur essendo stato condannato nel 1931 a dieci anni di reclusione dal collegio giudicante di cui faceva parte Lussorio Cau, così scrisse alla moglie dell’ufficiale: "ho subito preso a cuore il Suo esposto in data 2 c.m. sottoponendolo all’esame del Signor Ministro dal quale ottenni l’autorizzazione di curarne personalmente lo sviluppo. Oggi ho il piacere di informarla che, giusta comunicazione dell’Ispettorato Pensioni in data 13 c.m. n. 3471 ‘4 5, per determinazione del Signor Ministro è stato autorizzato il Distretto di Palermo a corrispondere a Suo marito, con tutta urgenza, la somma di L. 100.000 a titolo di anticipazione su arretrati di pensione spettategli". Una testimonianza importante, quest’ultima, che conferma, senza dubbio alcuno, come Cau abbia sempre agito con correttezza, ispirandosi a parametri di giustizia ed imparzialità, anche nell’espletare incarichi poco piacevoli quale quello ricoperto in seno al tribunale speciale.
Degna delle più articolate e avvincenti trame cinematografiche, la vita di quest’uomo è stata puntualmente ricostruita con passione e dedizione, cristallizzata in un volume prezioso che si legge con interesse e trasporto crescenti. L’autore, anch’egli carabiniere (Tenente Colonnello, attuale Comandante Provinciale di Enna), persegue la dichiarata finalità di recuperare l’onorabilità di un uomo in possesso di qualità morali indiscutibili, la cui vita eccezionale, vissuta con coscienza e rispetto, presenta le medesime caratteristiche di un’avvincente trama cinematografica. Del resto, ci sarà pure un motivo se quest’opera - un prodotto lontano dagli stilemi del best seller, a causa dei contenuti di natura compilativa e di una tiratura assai limitata - si trova oggi già alla seconda edizione, peraltro edita da un colosso come Mondadori.

Ten. Col. Gianluca Livi






Brian Southall

Il pop alla sbarra.
Le grandi battaglie giudiziarie
del mondo della musica

Arcana editore,
2009, pagg. 312,
euro 18.50

Il 26 ottobre 1984, quella che per altri giovani era una semplice ed innocua passione, per John McCollum, problematico adolescente di Riverside, California, si trasformò in una tragedia dalle conseguenze irreparabili: intento ad ascoltare un album della rockstar inglese Ozzy Osbourne, giunto al brano intitolato Suicide Solution, impugnava una pistola sparandosi un colpo alla tempia. Poco più di un anno dopo, la famiglia del giovane adiva la Corte Superiore di Los Angeles, accusando l’artista di istigazione al suicidio. Il cantante - vero nome John Michael Osbourne, già membro del gruppo inglese Black Sabbath, molto noto negli anni settanta e tuttora in attività - aveva avviato con successo un’appagante carriera solista nel 1980, giocando abilmente su due principali elementi: da un lato proponeva heavy metal (letteralmente, metallo pesante), musica grintosa, potente, a tratti dirompente, di cui era stato precursore con il suo precedente gruppo fin dal 1970; dall’altro forgiava di sé stesso l’immagine di artista maledetto, tanto creativo quanto folle, capace di atteggiamenti trasgressivi, spesso gratuitamente eccessivi, che lo esponevano puntualmente all’attenzione di gruppi religiosi o conservatori. "Non furono solo le parole della musica di Ozzy Osbourne a incitare John", sostennero i denuncianti, "ma l’intera figura del cantante. L’atteggiamento del musicista e i brani dell’album dimostrano la sua ossessione per la morte". La causa si dimostrò sin da subito estremamente interessante, se non altro per gli aspetti costituzionali ad essa sottesi: l’artista, infatti, si difese asserendo che nel brano incriminato egli non incitava alcuno alla pratica del suicidio, limitandosi a parlarne, in quanto fenomeno attuale, ancorché deprecabile. In tal senso, i testi del brano erano ampiamente in linea con la previsione normativa di cui al Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, che garantisce, tra le altre cose, la libertà di parola e di stampa. Nel bel mezzo della vertenza, una seconda azione legale fu promossa nei confronti del cantante allorquando un altro giovane, il georgiano Harold Hamilton, si suicidava mentre ascoltava lo stesso identico brano. Nel 1991, il giudice espresse la propria decisione: considerato che il testo del pezzo Suicide Solution analizzava il fenomeno in senso "fìlosofìco" e non mirava ad indurre alcuno a togliersi la vita, l’accusa di istigazione al suicidio. Oltre che essere assolutamente inconsistente, avrebbe certamente negato la tutela riconosciuta dal Primo Emendamento della Carta Costituzionale. L’artista era così scagionato da ogni accusa.
Quello appena descritto è soltanto uno dei ventiquattro casi giudiziari che hanno visto coinvolte star della musica pop e rock, in un range temporale che, giungendo ai giorni nostri, parte addirittura dagli anni ‘50 con Liberace, appariscente entertainer americano che citò la testata giornalistica che lo aveva tratteggiato quale omosessuale.
Orbene, il lettore deve essere avvisato che l’opera in questione riguarda vicende sia civili, sia penali, tutte estranee al diritto italiano, limitandosi l’autore all’analisi di soli casi riguardanti star internazionali chiamate a render conto innanzi alla giustizia britannica o statunitense. L’unico caso che vede implicato un attore italiano, l’azienda Aprilia (che fece causa alla band Spice Girl, le cui componenti, tutte donne, avevano firmato un contratto per la sponsorizzazione dello scooter Spice Sonic, nonostante fossero in procinto di sciogliersi), si è comunque svolto presso l’Alta Corte di Giustizia di Londra, soggiacendo pertanto a regole di diritto britanniche. Va peraltro precisato che alcuni casi potevano essere ignorati: leggendo l’opera, infatti, si ha l’impressione che l’autore, Brian Southall, giornalista musicale e consulente nell’industria discografica, abbia prescelto certi episodi per il potenziale scandalistico da essi rivestito, piuttosto che per il loro interesse in termini di diritto. La narrazione dello stesso caso Liberace, poco sopra citato, piuttosto che concentrarsi sulle connotazioni giuridiche di stampo diffamatorio, che pure sono innegabilmente presenti, sembra voler portare il lettore a chiedersi morbosamente se effettivamente l’artista fosse omosessuale o meno, circostanza assai poco rilevante ai fini di un’analisi giuridica dell’episodio. Una manciata di altri resoconti, purtroppo, conserva lo stesso deludente approccio narrativo: il diritto degli U2 a riavere abiti di scena da una delle proprie collaboratrici, ad esempio, o quello di alcuni membri degli Spandau Ballet o dei Procul Harum a vedersi riconosciuti i diritti d’autore su brani musicali di successo, hanno ben poco da offrire al lettore che desiderasse approfondire tematiche legate a controversie giuridiche nel music business.
Nondimeno, fortunatamente, gli altri casi sono stati selezionati tenendo presente la preminente valenza giuridica di ciascuna vicenda. Promossi con un titolo ad effetto (in inglese Pop goes to court), molti episodi si rilevano estremamente interessanti, sebbene l’autore non proponga alcun istituto di diritto in maniera esaustiva e completa, limitandosi a fornire un semplice punto di partenza da cui muovere per futuri eventuali approfondimenti. Ne è un esempio il caso dedicato allo scioglimento - e alla conseguente ripartizione degli ingenti utili economici acquisiti - del complesso musicale più influente della storia musicale, i Beatles; o quello concernente l’eredità economica della star rock and roll più autorevole, Elvis Presley. Non meno interessanti, passando ad argomenti più attuali, i due episodi concernenti violazioni della normativa sulla proprietà industriale e sulla pirateria informatica. Il primo vede ancora protagonisti i Beatles, i quali furono costretti ad intentare le vie legali contro Steve Jobs e Steve Wozniak, entrambi a capo di una società, oggi colosso informatico, che, senza alcuna autorizzazione, si era battezzata "Apple" saccheggiando la paternità di un marchio di cui soltanto i 4 musicisti di Liverpool erano legalmente detentori, addirittura fin dalla metà degli anni ‘60.
Più recente e più affascinante, quantomeno per le sue connessioni con il fenomeno dilagante della pirateria informatica, è il c.d. caso Napster. Creato da uno studente americano appena diciannovenne, attivo alla fine degli anni ‘90, Napster era un programma peer-to-peer che permetteva a chiunque di scaricare gratuitamente file di ogni tipo, compresi brani musicali. Il sistema funzionava grazie ad una rete paritaria di computer, tutti equivalenti (peer, per l’appunto), ove, cioè, erano completamente assenti nodi gerarchizzati (come i client o i server). In parole più semplici, ogni utente era client e server di se stesso, potendo scaricare i file presenti in un altro computer, magari collocato all’altro capo del mondo, o far scaricare ad altri i file presenti sul suo computer. La cosa non piacque ad alcuni artisti di fama mondiale, tra i quali i Metallica, il gruppo heavy metal più conosciuto al mondo, che intentarono causa contro l’azienda fondata dal giovane americano.
Ci sarà verosimilmente un capitolo secondo, avendo l’autore inspiegabilmente ignorato altri importanti casi giudiziari: è appena il caso di citare la causa intentata contro i Led Zeppelin dal bluesman Willie Dixon quale co-autore del famosissimo brano musicale Whole Lotta Love; la disputa legale in seno ai Pink Floyd per la paternità del nome; l’omicidio di Nancy Spungen fidanzata di Sid Vicious, della compagine Sex Pistols.

Ten. Col. Gianluca Livi





Vito Tenore
Mario Fantacchiotti
Mario Fresa
Salvatore Vitello

La responsabilità disciplinare
nelle carriere magistratuali

Giuffrè editore,
2010, pagg. 790,
euro 90.00

Il testo è stato presentato dal Presidente Vincenzo Carbone, l’8 aprile u.s., nell’aula magna Corte di Cassazione, in una giornata di studio sull’argomento de quo, con relazioni di alti magistrati e interventi di personalità del mondo giuridico.
Gli autori di questo volume coordinati dal Professor Vito Tenore, autorevole giurista in ambito processualpenalistico, amministrativo e contabile nonché magistrato presso la Corte dei Conti ed esperto in diritto disciplinare, analizzano distintamente la responsabilità disciplinare dei magistrati ordinari, amministrativi, contabili, militari, onorari e degli avvocati dello Stato alla luce della novella apportata dal decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109 (la c.d. legge Castelli), dalla legge 24 ottobre 2006, n. 269 (la c.d. legge Mastella) e dalla legge 30 luglio 2007, n. 111 al sistema punitivo dei magistrati ordinari.
In particolare gli esperti magistrati coautori esaminano, alla luce delle summenzionate modifiche normative, della più recente giurisprudenza e della più autorevole dottrina, la tematica piuttosto complessa del procedimento disciplinare nelle carriere magistratuali.
Non solo per i magistrati ordinari, giudicati dal Consiglio Superiore della Magistratura, ma anche per tutte le restanti magistrature, amministrativa, contabile, militare e onoraria nonché per gli Avvocati dello Stato.
Approfondiscono scientificamente tutte le problematiche gestionali e contenziose, sotto il profilo teorico-pratico molto utile per magistrati, avvocati e studiosi.
Ogni fase dei procedimenti disciplinari riguardanti le varie magistrature viene analizzata tenendo in considerazione la giurisprudenza intervenuta.
Il testo è arricchito da un capitolo sulla responsabilità civile, penale e amministrativo-contabile dei magistrati e corredato, infine, da una completa appendice normativa comprensiva dei codici etici di tutte le magistrature e dell’avvocatura dello Stato.
L’opera, "con un approccio esclusivamente scientifico e con un’attenta e scrupolosa ricognizione delle fonti e della giurisprudenza - afferma il Dottor Vincenzo Carbone Primo Presidente della Corte di Cassazione nel presentarla, auspicando un intervento legislativo che inglobi in un unico testo la responsabilità disciplinare di tutte le magistrature - muove dalla convinzione che proprio attraverso il pronto ed efficace intervento degli organi disciplinari nelle situazioni determinate da gravi cadute di professionalità o, peggio, da scorrettezze o condotte riprovevoli che delegittimano la funzione giudiziaria, si garantisce la tutela della giurisdizione, la quale perde evidentemente credibilità a causa, appunto, dei comportamenti dei suoi stessi protagonisti caratterizzati da disvalore deontologico. Vero è, come pure si desume dalla lettura dell’opera, che le nuove regole sono foriere di un diverso sistema ordinamentale, in via di necessaria e continua evoluzione. L’analisi comparata delle responsabilità disciplinari nelle diverse carriere magistratuali evidenzia, infatti, un comune denominatore, costituito dalla necessità per ogni ordine giudiziario di difendere - con le massime garanzie per gli interessati ma, al contempo, con rigore ed efficacia - il prestigio e la credibilità della giurisdizione da ogni possibile attentato proveniente dai suoi stessi appartenenti".
E’ questo il primo testo organico in materia di responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali, che in un momento storico molto particolare con riferimento alle prospettate riforme sulla giustizia, si pone come punto di partenza per un progetto di riavvicinamento delle giurisdizioni presso le quali si ritiene auspicabile la formazione di un unico organo giurisdizionale a carattere rappresentativo, competente all’analisi della responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali in una prospettiva di unità della giurisdizione per la tutela del cittadino.
Il libro rappresenta un aggiornato, unitario e utilissimo ausilio didattico che serve da approfondimento pratico tanto per gli studenti e per gli studiosi appassionati della, fino a ora frammentata disciplina conosciuta attraverso svariati testi e la giurisprudenza, quanto per i magistrati di ogni ordine e per gli avvocati dello Stato che quotidianamente affrontano le problematiche connesse.

Cap. Giovanni Fàngani Nicastro




Camilla Lackberg

La Principessa di ghiaccio

Marsilio Editore,
2010, pagg. 458
Euro 18,50

In questo avvincente romanzo, della collana "Farfalle" di Marsilio Editore, la protagonista Erica Falck, che vive a Stoccolma, ritorna a Fjallbacka, sua città natale e deliziosa località situata sulla costa occidentale della Svezia, dopo il decesso dei propri genitori per occuparsi della loro casa.
La consueta tranquillità di questo splendido centro, abitato da pescatori in inverno ed affollato di turisti in estate, viene turbata dalla scoperta del corpo di Alexandra, sua inseparabile amica d’infanzia, trovata morta, con i polsi tagliati, immersa nella vasca da bagno della sua residenza e creduta inizialmente suicida.
L’episodio stimola Erika, affermata autrice di biografie, a scrivere finalmente una storia personale sulla sua amica e ad indagare sul suo passato, già sconvolto, molti anni prima, da una misteriosa vicenda, nella convinzione che si tratti di uno "strano" suicidio: "erano gli esseri umani e la loro psicologia ad interessarla, ma era proprio questo che nella maggior parte dei gialli finiva per cedere il passo ad omicidi cruenti e brividi gelidi lungo la schiena. Detestava fortemente gli stereotipi e sentiva che ciò di cui desiderava scrivere era qualcosa di autentico. Qualcosa che cercasse di spiegare perché una persona possa commettere il peggiore dei peccati: togliere la vita ad un altro essere umano".
In un susseguirsi di colpi di scena, la giovane Erika con la collaborazione del suo amico poliziotto Patrick Hedstorm, tenta di scoprire cosa si nasconda realmente dietro la morte di una donna che credeva di conoscere.
Sfruttando il suo status di scrittrice la protagonista porta avanti, con tenacia, l’indagine all’interno di una comunità reticente che tenta di tutelare, attraverso menzogne, segreti e false apparenze, il buon nome di molte rispettabili famiglie del luogo.
Il testo, che si dimostra piacevole, scorre con semplicità e riesce a coinvolgere il lettore come coprotagonista delle indagini per la risoluzione dell’intrigato caso.
Camilla Lackberg, considerata dalla critica la nuova Agatha Christie del Nord, tratteggia, con grande abilità, il personaggio di Erika che rispecchia la figura di una persona ancora indecisa sulla svolta da dare alla propria vita nonostante i suoi trentacinque anni. Ella, infatti, pur sembrando l’eroina della vicenda, invincibile e dura, appare come una donna di tutti i giorni, fragile, in lotta con i suoi dubbi, conflitti personali e familiari, la propria figura ed autostima.
In sostanza, questo giallo scandinavo conquista sia per l’intrigante trama che per i risvolti psicologici dei vari personaggi.

Maura Monagheddu




Pier Luigi Porazzi

L’ombra del falco

Marsilio editore,
2010, pagg. 287,
euro17,00

"Quando vedono l’ombra del falco, i piccoli animali che ne sono prede si immobilizzano o scappano terrorizzati. Anche se sono appena nati e non hanno idea di cosa sia un falco, sanno che è un predatore, è un’informazione scritta nel loro dna. E allora possono soltanto fuggire,o immobilizzarsi, sperando di passare inosservati. Prima di colpire anche i predatori umani distendono la loro ombra sulle vittime. Le individuano, poi le studiano, le seguono. Difficile che colpiscano a caso, scegliendo la prima persona che incontrano. Ma, a differenza degli animali, gli esseri umani non hanno più queste informazioni nel loro codice genetico, o forse non prestano ascolto alle loro sensazioni. E non hanno scampo".
Con queste parole, tratte dalle pagine iniziali, si apre il romanzo "L’Ombra del Falco" di Pierluigi Porazzi, esordiente scrittore di thriller. Infatti, l’ombra di un predatore umano sconvolge Udine, tranquilla cittadina del nord-est italiano. In una discarica di rifiuti viene ritrovato il corpo di una giovane ragazza, appartenente ad una delle famiglie più in vista della città, che prima di essere uccisa viene barbaramente seviziata. Alcuni giorni dopo l’assassino recapita alla questura locale una busta contenente un dvd, che riprende le sue "gesta", ed una missiva, con cui sfida la Polizia, ed in particolare un ex agente, Alex Nero, richiamato appositamente in servizio e con il quale sembra avere un conto in sospeso, a scroprirne l’identità.
Questo thriller è ambientato nella provincia friulana dipinta come un "sonnacchioso" capoluogo che nasconde, come spesso accade, vizi e corruzione, dietro un’apparente patina di rispettabilità.
Un complesso intreccio di interessi politici e privati riempiono l’indagine condotta dalle forze di polizia, disegnate come corrotte e scarsamente efficienti. Il percorso che condurrà alla soluzione del caso si dimostrerà lungo e tortuoso e, tra insidie e pericoli, avrà un finale a sorpresa. Il lettore viene facilmente appassionato all’indagine che, densa di colpi di scena, presenta una trama-telefilm.
Il romanzo, infatti, è apparentemente senza filo logico, cambia repentinamente scenario come se una telecamera si spostasse di continuo a riprendere i protagonisti nei propri ambienti. Quest’opera si può sicuramente definire un giallo appassionante e coinvolgente sino all’ultimo che rivela, con l’aiuto di elementi forti e scene taglienti, il disagio di una società malata, popolata da "mostri" anche nella quotidianità reale.

Maura Monagheddu