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Giustizia Militare

a cura del Dott. Giuseppe Scandurra Magistrato Militare

Avviso di richiesta di archiviazione del P.M. - Mancata notifica alla persona offesa - Nullità assoluta.

(C.p.p., art. 408, comma 2)

Corte di Cassazione, Reg. Gen. 014321/2008, Sez. I, Sent. del 25 settembre 2008, n. 2415, Pres. Chieffi, Est. Siotto, P.G. Garino, concl. conf.; imp. ric. decr. GIP del T.M. di Torino (annulla senza rinvio).

In violazione di quanto stabilito dall’art. 408, comma 2, C.p.p., integra pacificamente una nullità assoluta, per violazione del contraddittorio e di difesa della parte, la mancata notifica alla persona offesa, che abbia fatto espressa dichiarazione di voler essere informata, dell’avviso della richiesta di archiviazione presentata dal P.M. (1).

(1) In senso conforme, nella medesima udienza, sentenza n. 2417/08, Rel. Piraccini, con richiamo al precedente, C. Cass., Sez. II, 9 gennaio 1998, n. 120.




Cause estranee al servizio.

(C.p.m.p. art. 199)

Corte di Cassazione, Reg. Gen. 24414/08, Sez. I, Sent. del 28 maggio 2008, n. 937, Pres. Silvestri, Est. Vecchio, P.G. Garino, concl. conf.; imp. ric. da sent. della C.M.A. Sez. distacc. di Napoli (rigetta).

Va esclusa l’ipotesi dell’esimente delle cause estranee al servizio ed alla disciplina militare di cui all’art. 199 C.p.m.p. in una insubordinazione con minaccia ed ingiuria, costituita da una illecita reazione ad un richiamo disciplinare, doveroso e legittimo, del superiore di porre termine ad un comportamento privato lesivo del prestigio delle Forze Armate (1).

(1) Fattispecie caratterizzata da una reazione con ingiuria e minaccia opposta da un militare dell’Arma alla richiesta del Comandante della Stazione di troncare una relazione adulterina che l’inferiore, coniugato, intratteneva con una donna del luogo, pure essa sposata.
L’intervento del superiore è stato ritenuto pertinente al servizio ed alla disciplina, consistendo appunto nel richiamo del superiore alla osservanza da parte del giudicabile della (fondamentale) norma di comportamento di cui all’art. 36 del Regolamento di disciplina militare, approvato con D.P.R. 18 luglio 1986, n. 545, che prescrive al militare di tenere “in ogni circostanza …condotta esemplare a salvaguardia del prestigio delle Forze armate”, laddove la relazione extraconiugale dell’imputato, di pubblico dominio nel territorio della Stazione, arrecava evidente disdoro all’Arma benemerita.





Divieto di testimonianza su voci correnti del pubblico.

(C.p.p., art. 194, comma 3)

Corte di Cassazione, Reg. Gen. 45327/08, Sez. I, Sent. del 11 novembre 2008, n. 1320, Pres. Fazioli, Est. Giordano, P.G. Rosin, concl. conf.; imp. ric. da sent. della C.M.A. di Roma (rigetta).

Il divieto di testimoniare sulle voci correnti nel pubblico previsto dall’art. 194, comma terzo, C.p.p. non opera, quando in realtà vengono riferite da appartenenti ad una cerchia ben determinata e individuabile di persone (1) notizie circolate all’interno di tale limitato gruppo, da ritenersi utilizzabili, ancorché provenienti da altri componenti dello stesso che non sia stato possibile identificare e rintracciare.

(1) Quale è, specifica ancora la sentenza, un non grande reparto militare, come la compagnia.





Giudizio in contumacia - Omessa deliberazione della relativa ordinanza - Non è causa di nullità.

(C.p.p., artt. 177 e 178, comma 1, lett. c, 179)

Corte di Cassazione, Reg. Gen. N. 24415/08, Sez. I, Sent. del 28 maggio 2008, n. 943, Pres. Silvestri, Est. Vecchio, P.G. Garino, conclude per l’inammissibilità; imp. ric. da sent. della C.M.A. Sez. distacc. di Napoli (rigetta).

L’omessa deliberazione della formale ordinanza dichiarativa della contumacia, non è causa di alcuna nullità (1).
Siffatta omissione non è, infatti, sanzionata a pena di nullità da veruna norma; né è riconducibile ad alcuna delle previsioni di nullità generale contemplate dall’art. 178, comma 1, lettera c), c.p.p., né, tampoco, di quelle assolute, previste dall’art. 179, comma 1, c.p.p., in quanto il provvedimento, meramente dichiarativo del controllo della ritualità della citazione e della mancanza di cause di legittimo impedimento dell’imputato non comparso, non influisce né sulla citazione, né sulla possibilità di intervento del giudicabile al dibattimento.

(1) Giurisprudenza costante.




Insubordinazione con ingiuria.

(C.p.m.p., art. 199)

Corte di Cassazione, Reg. Gen. 1429/09, Sez. I, Sent. del 17 dicembre 2008, n. 1514, Pres. Chieffi, Est. Giordano, P.G. Gentile, concl. parz. conf.; imp. ric. da sent. della C.M.A. di Roma (rigetta).

Nella particolare situazione di un imputato militare che profferisca in una udienza dinanzi al tribunale militare una frase ingiuriosa all’indirizzo di un testimone, pur esso militare a lui superiore in grado, ricorrono tutti gli estremi della causa di esclusione del reato di insubordinazione con ingiuria, non intercorrendo tra i protagonisti dell’episodio alcun specifico rapporto gerarchico o di servizio, essendo entrambi rivestiti di qualifiche tipicamente e puramente processuali con connessi diritti e doveri definiti in via generale dell’ordinamento, del tutto avulse dal contesto militare e non suscettibili di subire condizionamenti da questo derivanti.
In considerazione della ratio dell’art. 199 C.p.m.p. e della estraneità della situazione processuale in cui è stato commesso il fatto rispetto alle norme poste a tutela della disciplina e del rapporto gerarchico militare, deve, parimenti, escludersi che siano “riuniti per servizio”, ai sensi della citata norma, i militari presenti in aula come ausiliari per la riproduzione fonografica delle attività di udienza e per assistenza, trattandosi di compiti differenti e tra loro autonomi, svolti alle dipendenze del personale civile di cancelleria e non per le tipiche finalità proprie delle Forze Armate.




Partecipazione italiana alle Missioni internazionali - Normativa applicabile.

(C.p.m.g., art. 9)

Corte di Cassazione, Reg. Gen. 26316/08, Sez. I, Sent. del 27 maggio 2008, n. 921, Pres. Chieffi, Est. Siotto, P.G. Gentile, concl. conf.; imp. ric. da sent. della C.M.A. di Roma (annulla senza rinvio limitatamente all’aggravante dell’art. 47, comma 1, ultima parte, C.P.M.G. che elimina; rigetta nel resto il ricorso).

La normativa concernente la partecipazione italiana alle missioni internazionali, fra esse compresa quella in Iraq, rientra senz’altro nella categoria delle leggi temporanee, essendosi con essa previste disposizioni aventi vigenza per periodi di tempo prestabiliti.
Né può, in ragione del disposto di cui all’art. 9 C.P.M.G. (per il quale sono soggetti alla legge penale militare di guerra, ancorché in tempo di pace, i corpi di spedizione all’estero per operazioni militari armate) e della disposizione di cui all’art. 16, D.L. 10 luglio 2003 n. 165 - convertito in legge 1° agosto 2003, n. 219 - (che ha previsto l’applicabilità della legge penale militare di guerra alla spedizione in Iraq) ricomprendersi tale normativa nella categoria delle leggi eccezionali (1).

(1) Motivazione.
Così motiva la sentenza: “…attesa la matrice unitaria e l’identità di regolamentazione (in punto di successione di norme) delle due categorie di leggi - eccezionali e temporanee - in quanto entrambe destinate a durare per un certo periodo (corrispondente al persistere delle circostanze eccezionali come guerre, epidemie, calamità pubbliche, etc., oppure definito mediante un termine fissato cronologicamente o in rapporto ad un determinato evento futuro), deve per chiarezza espositiva ribadirsi la riconducibilità alla categoria delle leggi temporanee della normativa di nostro interesse e con la quale si è, via via, inteso regolamentare la partecipazione dell’Italia alle missioni internazionali all’estero, atteso, oltre alla limitazione temporale degli interventi ed alla parimenti circoscritta vigenza temporale delle disposizioni, il sempre sottolineato carattere umanitario e di pace e non già di “operazione militare armata” a tali missioni attribuito e, conseguentemente, l’impossibilità di una loro parificazione alle “situazioni di guerra” normativamente regolate da leggi eccezionali. Ciò premesso, va ricordato, quanto alle disposizioni in materia penale, la differente regolamentazione prevista dalla legge 4/8/2006 n. 247 - e dalle successive (cfr. art. 5 della legge 13 marzo 2008 n. 45) - rispetto a quella prevista dal D.L. 10 luglio 2003 n. 165 e da quelli ad esso successivi, la prima disponendo - per quello che qui interessa - al comma 26 dell’art. 2 l’applicazione al personale militare partecipante a tutte le missioni internazionali in atto (e quindi anche in relazione alla missione in Iraq) il codice penale militare di pace e prevedendo, di contro, il citato decreto-legge e gli altri ad esso successivi per la missione in Iraq “Antica Babilonia” l’applicazione del codice penale militare di guerra. Ebbene, pur tenuto presente che il reato del quale si è affermata la responsabilità dell’imputato Xxxxx è stato da costui commesso nel mentre vigeva la meno favorevole disposizione (per la quale al personale militare partecipante alla missione era applicabile il codice penale militare di guerra) e nonostante la sottolineata riconduzione della normativa alla categoria delle leggi temporanee, ritiene il Collegio che la questione della successione delle norme di differente contenuto quali più sopra richiamate non possa essere risolta così come nella sentenza impugnata e che, nella specie, non trovi applicazione la regola derogatoria di cui al comma 5 dell’art. 2 c.p.
In primo luogo va rilevato, contrariamente a quanto si sostiene nella sentenza impugnata, che l’avere stabilito l’applicazione di una legge certamente eccezionale come il codice penale militare di guerra con riferimento a situazioni che nulla hanno a che vedere con situazioni di guerra non vale - di per sé - a diversamente connotare la normativa che tale applicazione prevede, essa rimanendo riconducibile, per le ragioni già esplicitate alla categoria delle leggi temporanee; inoltre ciò non deve indurre a porre in comparazione la norma di cui al novellato art. 9 C.P.M.G. e le disposizioni in materia penale contenute nella legge 247/2006, di contro dovendosi nella specie porre in comparazione tale legge con la legge 1° agosto 2003 n. 219 (di conversione del citato D.L. n. 165/2003); sicché non sono conferenti buona parte delle considerazioni in merito esposte dalla sentenza impugnata. In secondo luogo, come già affermata da sentenze, sia pure datate, di questa Corte (cfr. sentenza 1° dicembre 41, ric. Longhi; sentenza 1° marzo 43, ric. P.M. c. Micheli; sentenza 5 maggio 54, ric. Montesarchio) e come implicitamente ma chiaramente confermato dalla sopra citata sentenza n. 25811/2007 (pubblicata in Rassegna della Giustizia Militare, Anno XXXII – n. 4-5-6/2007 pagg. 46 e 47, voce n. 52, n.d.r.), peraltro in sintonia con buona parte della dottrina, la regola derogatoria prevista dal comma 5 dell’art. 2 c.p., rispondente alla necessità di salvaguardare l’efficacia general-preventiva delle leggi eccezionali e temporanee, non trova ragione alcuna di applicazione allorquando trattasi di norme parimenti temporanee od eccezionali succedutesi l’una all’altra durante il decorso del termine di vigenza ovvero durante la permanenza della situazione eccezionale, aventi la medesima ratio e dirette ad una migliore messa a punto della normativa destinata a fronteggiare la medesima situazione. In siffatti casi, invero, la norma posteriore, proprio perché emanata durante il perdurare della situazione che aveva imposto la normativa temporanea o eccezionale e proprio perché rispondente alle medesime esigenze temporanee ed eccezionali, non si pone in contrasto con le ragioni sottese alla emanazione della normativa eccezionale o temporanea ma, lungi dall’essere volta al ripristino della legge ordinaria, è di contro tesa ad una più organica regolamentazione della situazione temporanea od eccezionale; in tali casi viene dunque a mancare il pericolo di una preventiva svalutazione della efficacia intimidatoria della legge temporanea od eccezionale e non residua pertanto alcuna ragione per disattendere il principio generale della prevalenza della legge più favorevole.
Alla stregua delle considerazioni sopra esposte si impone dunque l’accoglimento dell’ultimo motivo del gravame. La sentenza impugnata va annullata in parte qua, con esclusione della ipotesi aggravata prevista dall’art. 47, comma 1, ultima parte C.P.M.G. e con conseguente rideterminazione della pena in euro 5700,00 di multa”.





Peculato d’uso militare.

(C.p.m.p., art. 215;
Legge 9 dicembre 1941, n. 1383, art. 3, comma 1)

Corte Costituzionale, Sent. del 9 luglio 2008, n. 286, Pres. Bile, Est. Mazzella; questione di legittimità costituzionale sollevata dal GUP Trib. di Termini Imerese (dich. di illegittimità).

è costituzionalmente illegittimo, in riferimento all’art. 3 Cost., l’art. 3, legge 9 dicembre 1941, n. 1383 (Militarizzazione del personale civile e salariato in servizio presso la Regia Guardia di Finanza e disposizioni penali per i militari del suddetto Corpo) nella parte in cui, dopo avere previsto che il militare della Guardia di Finanza il quale “si appropria o comunque distrae, a profitto proprio o di altri, valori o generi di cui egli, per ragioni del suo ufficio o servizio, abbia l’amministrazione o la custodia o su cui esercita la sorveglianza, soggiace alle pene stabiliti dagli articoli 215 e 219 del codice penale militare di pace”, non prevede che “tale disposizione non si applica quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita”.
è costituzionalmente illegittimo, in riferimento all’art. 3 Cost., l’art. 215 del codice penale militare di pace nella parte in cui non prevede che tale disposizione non si applica quando il colpevole abbia agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa e, dopo l’uso momentaneo, l’abbia immediatamente restituita (1) (2).

(1) Sul tema, vedi, in dottrina, Massimo Nunziata, “Le conseguenze della sentenza n. 286/2008 della Corte Costituzionale sulla punibilità del “Peculato di militare della Guardia di Finanza” (art. 3 L. n. 1383/1941) a titolo di “Peculato d’uso”, in Rivista Penale n. 12/2008, pag. 1299 e seguenti.
(2) Così motiva la sentenza: “(Omissis ...).
1. - Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Termini Imerese dubita, con riferimento all’art. 3 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge 9 dicembre 1941, n. 1383 (Militarizzazione del personale civile e salariato in servizio presso la Regia Guardia di Finanza e disposizioni penali per i militari del suddetto Corpo) nella parte in cui, dopo avere previsto che il militare della Guardia di Finanza il quale “si appropria o comunque distrae, a profitto proprio o di altri, valori o generi di cui egli, per ragioni del suo ufficio o servizio, abbia l’amministrazione o la custodia o su cui esercita la sorveglianza, soggiace alle pene stabilite dagli articoli 215 e 219 del codice penale militare di pace”, non prevede che “tale disposizione non si applica quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita”.
Il rimettente dubita, inoltre, sempre con riferimento all’art. 3 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 215 del codice penale militare di pace nella parte in cui non prevede che “tale disposizione non si applica quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita”.
Egli ritiene infatti che, considerando la natura appropriativa della condotta di chi abbia agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa e l’abbia poi restituita, la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 3 della legge n. 1383 del 1941, nella parte in cui si riferisce a tale fattispecie, comporterebbe l’attrazione di essa nell’ambito di applicazione dell’art. 215 cod. pen. mil. pace, così come ancora oggi vigente a seguito della dichiarazione di parziale incostituzionalità operata con la sentenza n. 448 del 1991 di questa Corte.
2. - In origine, in entrambi gli ordinamenti penali, quello militare e quello comune, le norme incriminatici del peculato abbracciavano tanto le ipotesi di peculato appropiativo vero e proprio, quanto le ipotesi del peculato per distrazione - ossia quelle caratterizzate dalla utilizzazione della cosa da parte dell’agente in modo difforme dalle finalità per le quali era stata affidata alla sua disponibilità -, sia infine le ipotesi di peculato d’uso, caratterizzate dalla temporanea utilizzazione della cosa da parte dell’agente e della sua immediata restituzione. La riforma dei reati contro la pubblica amministrazione, introdotta dalla legge 26 aprile 1990, n. 86 (Modifiche in tema di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione), nel ridisegnare la disciplina del peculato comune senza apportare le stesse modifiche alla disciplina del peculato militare, ha determinato una alterazione dell’originario equilibrio, realizzando un’oggettiva disparità di trattamento tra le due tipologie di reati, la cui disciplina era in precedenza sostanzialmente omogenea.
Per effetto della legge, infatti, le ipotesi di peculato comune per distrazione sono state espunte dalla sfera di applicazione dell’art. 314 cod. pen., con conseguente parziale riconduzione delle stesse nell’alveo della norma di cui all’art. 323 cod. pen.
Contestualmente, è stata attribuita autonoma rilevanza penale al peculato d’uso, disciplinato ora nel secondo comma dell’art. 314 cod. pen., che per tale condotta commina la pena, sensibilmente più mite rispetto a quella prevista per le ipotesi di peculato di cui al primo comma, della reclusione da sei mesi a tre anni.
In tal modo, in ambito di diritto comune, si è riconosciuto un più benevolo trattamento sanzionatorio ad una condotta appropriativa che, per il suo carattere temporaneo, è caratterizzata da un minore grado di offensività rispetto alle ipotesi di appropriazione definitiva. Un’analoga differenziazione non è stata riprodotta nell’ambito dei reati militari oggetto delle odierne censure, per i quali la pena comminata, per tutte le forme di peculato, continua ad essere quella unica della reclusione da due a dieci anni.
Questa Corte, pur senza intervenire sulle norme censurate, per effetto dell’inammissibilità delle questioni sollevate, ha avuto modo più volte di sottolineare la mancanza di ragioni giustificative di una disparità di trattamento, a causa dell’insussistenza di significativi elementi di differenziazione tra il peculato militare, disciplinato dall’art. 215 cod. pen. mil. pace, e il peculato comune.
Con la sentenza n. 4 del 1974 ha affermato che tra i due delitti di peculato sopra indicati sussiste una sostanziale identità, riscontrabile nello stesso testo dei rispettivi articoli, avendo essi in comune l’elemento materiale e l’elemento psicologico ed identici essendo sia il loro contenuto (in entrambi offensivo dello stesso bene che si è voluto proteggere: denaro o cose mobili appartenenti allo Stato), sia l’azione tipica delle due azioni criminose (concretantesi nell’appropriazione o distrazione di beni da parte di soggetti attivi aventi una specifica qualifica).
La successiva sentenza n. 473 del 1990 è intervenuta su una questione di costituzionalità riguardante lo stesso art. 215 cod. pen. mil. pace, con la quale il rimettente, censurando l’intera disciplina sanzionatoria dettata da tale norma, aveva sollecitato l’estensione al peculato militare della pena comminata per il peculato comune. In tale occasione questa Corte ha ribadito la sostanziale omogeneità tra le due fattispecie di peculato, militare e comune, evidenziando la mancanza di peculiarità attinenti alle specifiche esigenze dell’amministrazione militare tali da giustificare la persistente disparità di trattamento. La questione venne tuttavia dichiarata inammissibile, perché l’intervento richiesto in quella circostanza avrebbe determinato una reformatio in peius del peculato militare per le fattispecie diverse da quelle di uso temporaneo, visto che la pena dettata dall’art. 314 cod. pen. è superiore nel minimo rispetto a quella dettata dall’art. 215 cod. pen. mil. pace e avrebbe, inoltre, comportato una grave manipolazione della norma.
Con sentenza n. 448 del 1991, questa Corte, investita della questione di legittimità dell’art. 215 cod. pen. mil. pace, nella parte in cui si riferiva al peculato per distrazione, ne ha dichiarato l’illegittimità parziale, in tal modo sottraendo le condotte distrattive dal raggio di applicazione dell’art. 215 e determinando, in forza del disposto dell’art. 16 cod. pen., l’automatica sussunzione delle condotte medesime nell’ambito del diritto penale comune, con conseguente attribuzione di quelle fattispecie alla giurisdizione ordinaria.
Gli ostacoli che hanno impedito a questa Corte di intervenire nel 1990 sulla citata norma del codice penale militare di pace non insorgono nel caso in esame.
In primo luogo, perché le norme incriminatici sono censurate solo nella parte in cui si riferiscono al peculato d’uso. Non è ipotizzabile in conseguenza alcun effetto di reformatio in peius.
In secondo luogo, perché la pronuncia invocata dall’odierno rimettente non tende, inammissibilmente, ad ottenere la trasposizione di una sanzione dalla norma incriminatrice di diritto comune, indicata come tertium comparationis, alle due norme applicabili nell’ambito militare, ma mira alla caducazione parziale di due norme incriminatici speciali.
Entrambe le questioni sono rilevanti per la decisione del giudizio a quo.
La prima questione riguarda la norma incriminatrice delle condotte di peculato della Guardia di Finanza, immediatamente applicabile al giudizio a quo in forza del principio di specialità. La rimozione di tale norma determinerebbe l’inquadramento della fattispecie nell’ambito della previsione generale dell’art. 215 cod. pen. mil. pace, riguardante il peculato militare. Secondo l’interpretazione non implausibile adottata dal rimettente, infatti, con la citata sentenza n. 448 del 1991, relativa al peculato militare per distrazione, questa Corte non avrebbe determinato l’eliminazione del peculato d’uso dalla sfera di operatività della norma, in quanto la condotta tipica di tale ultima figura di reato non sarebbe caratterizzata dalla mera distrazione della cosa dalle finalità per le quali era stata affidata alla disponibilità dell’agente, ma da una vera e propria appropriazione, sia pur temporanea, della stessa. Pertanto, solo la declaratoria di incostituzionalità di entrambe le norme censurate determinerebbe l’invocata applicazione alla fattispecie del più mite trattamento sanzionatorio di cui all’art. 314, cpv., cod. pen. e la conseguente devoluzione della cognizione del reato alla giurisdizione del giudice ordinario.
3.- Nel merito, le sollevate questioni di costituzionalità sono fondate.
Le due norme censurate si riferiscono al peculato d’uso militare e assoggettano tale reato alla stessa pena dettata per il peculato (reclusione da due a dieci anni).
La disparità di trattamento rispetto alla disciplina dettata, dopo la legge n. 86 del 1990, per il peculato d’uso comune, di cui all’art. 314, secondo comma, cod. pen., è evidente, perché la riforma ha attribuito a tale condotta autonoma rilevanza penale e l’ha assoggettata a una pena sensibilmente più mite (reclusione da sei mesi a tre anni).
Come già evidenziato da questa Corte nelle sentenze emesse in relazione al reato di cui all’art. 215 cod. pen. mil. pace, ma riferibili, per effetto della loro motivazione, anche al peculato commesso da agente della Guardia di Finanza, la descritta disparità di trattamento deve ritenersi priva di ragionevolezza. Le situazioni regolate dalle normative a raffronto, infatti, sono in tutto simili, differenziandosi tra loro unicamente per la qualifica soggettiva del colpevole, ossia l’appartenenza dello stesso all’amministrazione militare.
Orbene, quanto a quest’ultima condizione, non risulta che essa inerisca alle rationes delle norme incriminatici speciali. Non sussistono, cioè, peculiarità relative alle specifiche esigenze dell’amministrazione militare, in grado di giustificare un maggior rigore nel trattamento sanzionatorio del peculato d’uso commesso in ambito militare rispetto all’analoga condotta commessa in altri rami della pubblica amministrazione.
Pertanto, le norme censurate, nel comminare un’unica sanzione penale per tutte le forme di peculato, senza attribuire un autonomo rilievo alla fattispecie del peculato d’uso, che anche in ambito militare presenta, rispetto al peculato vero e proprio, un grado di offensività sensibilmente minore, devono considerarsi entrambe lesive del principio di uguaglianza, di cui all’art. 3 della Costituzione.
Per armonizzare la disciplina del peculato d’uso militare rispetto a quello comune è dunque necessario dichiarare l’illegittimità delle norme censurate nella parte in cui si riferiscono anche al peculato d’uso, secondo la definizione che di tale autonomo reato dà l’art. 314, secondo comma, cod. pen..
La sottrazione di autonoma condotta di reato dal raggio di applicazione delle norme speciali censurate e dalla indifferenziata disciplina sanzionatoria delle diverse forme di peculato da esse dettata determina, in forza del principio di cui all’art. 16 cod. pen., l’attrazione della stessa condotta nell’ambito di applicazione della norma incriminatrice generale di cui all’art. 314, secondo comma, cod. pen., con conseguente eliminazione dell’irragionevole disparità di trattamento.
Ogni altra censura resta assorbita.
Per questi motivi
la Corte Costituzionale
- dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 della legge 9 dicembre 1941, n. 1383, nella parte in cui si riferisce al militare della Guardia di Finanza che abbia agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa e, dopo l’uso momentaneo, l’abbia immediatamente restituita;
- dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 215 del codice penale militare di pace nella parte in cui si riferisce anche al militare che abbia agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa e, dopo l’uso momentaneo, l’abbia immediatamente restituita”.





Ricettazione.

(C.p.m.p. art. 237)

Corte di Cassazione, Sez. I, 27 maggio 2008, n. 921, Pres. Chieffi, Est. Siotto, P.G. Gentile, concl. conf.; imp. ric. da sent. della C.M.A. di Roma (annulla senza rinvio limitatamente all’aggravante dell’art. 47, comma 1, ultima parte, C.P.M.G.; rigetta nel resto il ricorso).

La ricettazione è reato istantaneo ad effetti permanenti. La sua consumazione non può che avverarsi nel momento in cui chi riceve od acquista assume una specifica signoria sul bene che anteriormente non esercitava, quella di esercitare la potestà dominicale (lo jus excludendi alios) (1).

(1) Nella specie, era stato effettuato dall’impugnante un caricamento di numerose derrate alimentari su container utilizzato per il carico di materiali di officina e diretto in Italia.
Con l’avvenuta operazione di caricamento - continua ancora la sentenza - “si era già completamente reciso il collegamento dei beni con l’Amministrazione alla quale essi appartenevano”.
“Detti beni non essendo più collocati nelle cucine o nel magazzino derrate ed essendo invece collocati, fuori di ogni controllo e ragione, su un container diretto in Italia nel quale non avrebbero dovuto trovarsi e del quale l’imputato aveva per ragioni di ufficio la disponibilità: ed è proprio con tale atto di caricamento abusivo e clandestino che il titolo della disponibilità delle derrate in capo all’imputato mutò compiutamente, da detenzione per ragioni di ufficio, realizzandosi il possesso proprio del reato riconosciuto”.





Rifiuto del servizio militare.

(C.p.m.p., art. 151;
 L. 230/1998, art. 14, comma 2)

Corte di Cassazione, Reg. Gen. 2480/09, Sez. I, Sent. del 9 gennaio 2009, n. 3, Pres. Silvestri, Est. Canzio, P.G. Gentile, concl. conf.; imp. ric. da ord. del T.M. di La Spezia (dich. inamm.).

In base all’ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale della Corte di Cassazione (1), le innovazioni legislative succedutesi dal 2000 ad oggi, in tema di “sospensione” del servizio militare obbligatorio, non hanno comportato l’abolizione tout court del servizio di leva obbligatorio e il conseguente venir meno delle corrispondenti fattispecie di reato (“rifiuto di prestare il servizio militare, adducendo motivi di coscienza” e “mancata presentazione alla chiamata senza giusto motivo”) di cui, rispettivamente, agli artt. 14, comma 2, Legge n. 230 del 1998 e 151 C.p.m.p., ma ne hanno tuttavia limitato l’operatività a specifiche ed eccezionali situazioni, determinando così la parziale modificazione del contenuto del precetto penale, secondo lo schema delineato per la successione di leggi penali nel tempo dall’art. 2, c.p. (2).

(1) La stessa sentenza cita come precedente, C. Cass., Sez. I, n. 546 del 2maggio 2006, Brusaferri, rv. 233446 (in Rassegna della Giustizia Militare, n. 1-2-3/2007, pag. 42) e numerose altre conformi. Fra le altre decisioni, C. Cass., Sez. I, n. 678 del 18 maggio 2006, Lampedone (ibidem n. 1-2-3/2007, pag. 66).
(2) La sentenza ora massimata afferma ancora: “Alla stregua di tale principio di diritto, sopravvivendo il servizio militare obbligatorio in tempo di pace, sia pure in casi particolari ai sensi dell’art. 2 Legge n. 331/2000, e configurandosi quella parziale continuità normativa che impedisce di considerare totalmente abrogato il reato, ne consegue che, qualora si sia formato il giudicato, non è possibile intervenire ai sensi dell’art. 673 c.p.p.”.