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Corte di Cassazione


Detenzione di sostanze stupefacenti a fini di spaccio - Principio attivo ed effetto drogante - Pericolosità e punibilità della condotta - Plurioffensività del reato - Principio di offensività.Corte di Cassazione, Sezione VI penale, sentenza 23 aprile 2009 n. 17266.

In tema di stupefacenti, l’accertamento della qualità di sostanza drogante appartenente alla tipologia espressamente individuata dal legislatore è atto di per sé idoneo a consentire la verifica, a priori, della potenziale messa in pericolo del bene tutelato dalla norma incriminatrice. Siffatta situazione di pericolo in astratto comporta il divieto di ogni condotta che consente ed agevola la circolazione non autorizzata di determinate sostanze normativamente identificate, rimanendo nella esclusiva competenza del giudice verificare, di volta in volta, se la condotta contestata all’agente risulti in concreto inoffensiva, tale dovendosi ritenere solo quella che non leda o metta in pericolo, anche in minimo grado, il bene tutelato.

1. Con sentenza del 13.3.2006 la Corte d’appello di Firenze confermava la condanna di …omissis... alla pena di giustizia irrogatagli dal Tribunale di Pisa il precedente 17.6.2003 per la detenzione a fini di spaccio di 36 gr. di hashish, confezionato in singole dosi. Il Tribunale aveva applicato l’attenuante del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, perché le analisi chimiche avevano attestato un principio attivo complessivamente pari a gr. 1,615. Il Giudice di appello disattendeva l’unico motivo dedotto dall’appellante -di insussistenza della rilevanza penale della condotta per inidoneità della sostanza a produrre effetto drogante, previa parziale rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per acquisire una consulenza tecnica tossicologica di parte- richiamandosi ai principi insegnati da S.U. sent. 9993 del 1998, e ritenendo quindi irrilevante l’ipotesi -sostenuta dalla difesa- che il principio attivo contenuto nelle singole dosi dell’hashish destinato allo spaccio e sequestrate all’imputato fosse inferiore alla soglia drogante, una volta che fosse stato già accertato - come in questo caso- che comunque si trattava effettivamente di hashish, il che era sufficiente essendo quella di stupefacente una nozione legale e non farmacologica.
2. Il difensore ha proposto ricorso per Cassazione con unico motivo denunciando violazione, erronea e falsa applicazione della legge penale, con riferimento al disposto dell’art. 49 c.p. in relazione all’ipotesi D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73. Pur dando atto dell’insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte, ricordato ed applicato dai giudici del merito, il ricorrente deduce in primo luogo che la questione della punibilità nei casi di accertata insufficienza del principio attivo sarebbe tutt’altro che pacifica, richiamando la giurisprudenza di merito e altre sentenze di questa Corte, nonché dottrina e giurisprudenza sul reato impossibile e sul principio di offensività. Afferma poi che nel caso concreto la Corte d’appello avrebbe ammesso in motivazione che la sostanza sequestrata non poteva esplicare effetti droganti e che pertanto avrebbe dovuto applicare il capoverso dell’art. 49 c.p., assolvendo l’imputato perché il fatto non costituisce reato.
3. Il ricorso è infondato. La Corte distrettuale, differentemente da quanto dedotto nel ricorso, non ha affatto ammesso che la sostanza sequestrata non potesse esplicare effetti droganti, bensì ha ritenuto sufficiente al fine del decidere il fatto che, in ogni caso, fosse stata accertata la qualità di hashish di tale sostanza, giudicando ciò idoneo ad integrare la nozione legale di stupefacente alla luce della giurisprudenza delle Sezioni Unite 1998, Kremi. Tale conclusione va condivisa, con le precisazioni che seguono.
3.1 Il positivo accertamento, come nella fattispecie, della natura stupefacente di una determinata sostanza, nella specie verificata come hashish non in ragione di una mera descrizione naturalistica esteriore, ma in esito a specifica analisi chimica, inserisce innanzitutto le condotte relative a tale sostanza nell’ambito del circuito della circolazione illecita della stessa -se non pacificamente destinata all’esclusivo uso personale-. Ciò determina la concretizzazione di quella situazione di pericolo e pregiudizio per la salute, l’ordine e la sicurezza pubblici, e per la stessa salvaguardia delle giovani generazioni, tutti beni giuridici coinvolti passivamente dal mercato della droga con le sue più diverse ma proprie implicazioni (dallo stato di salute dei cittadini, ai fenomeni legati alla tossicodipendenza, alle condotte illecite indotte sia dall’uso che dalla necessità o volontà di procurarsi le risorse per gli acquisti ulteriori). Situazione di pericolo, per più ragioni concorrenti appunto, che spiega il divieto di ogni condotta che consente ed agevola la circolazione non autorizzata di determinate sostanze, normativamente identificate. Che tali siano i beni oggetto della tutela penale fornita dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, sicché l’incremento del mercato degli stupefacenti costituisce causa di turbativa per l’ordine pubblico e di allarme sociale è stato appena autorevolmente confermato da S.U. sent. 28605 del 24.4 - 10.7.2008 in proc. Di Salvia, in materia di coltivazione di piante di cannabis indica. Sotto tale profilo, pertanto, l’accertata qualità di sostanza appartenente alla tipologia considerata espressamente dal legislatore impedisce, per sé sola, di escludere la potenziale messa in pericolo dei beni tutelati dalla norma incriminatrice, e quindi la sussistenza della cosiddetta offensività in astratto.
3.2 Al giudice spetta poi "verificare se la condotta, di volta in volta contestata all’agente ed accertata, sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto, risultando in concreto inoffensiva". E "inoffensiva" deve intendersi solo la condotta che non leda o metta in pericolo il bene tutelato anche in grado minimo (S.U. Di Salvia citata). Nel caso concreto, appare assorbente la considerazione che il principio attivo indicato nell’impugnata sentenza -con quantificazione non contraddetta dagli atti di impugnazione- è di gr. 1,615 e, pertanto, comunque notevolmente superiore al dato quantitativo considerato dalle voci 40 e 41 del sopravvenuto D.M. Salute 11 aprile 2006, che ha fissato in 25 mg la dose media singola per la sostanza di cui si tratta, "intesa come la quantità di principio attivo per singola assunzione idonea a produrre in un soggetto tollerante e dipendente un effetto stupefacente e psicotropo". Va qui rilevato che il confronto tra i due dati numerici non è apprezzamento di merito, precluso a questa Corte, essendo gli stessi certi e riconducibili alla sentenza impugnata ed a norma positiva

P.Q.M.



Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.



Detenzione sostanze stupefacenti
a fini di spaccio

La vicenda processuale

La Corte di Cassazione affronta nella sentenza in esame il ricorso proposto dall’imputato, sorpreso a detenere a fini di spaccio 36 grammi di hashish confezionato in singole dosi, condannato in primo e in secondo grado per violazione e falsa applicazione della legge penale con riferimento al disposto dell’art. 49 c.p. in relazione all’art 73 D.P.R. 309/1990. La questione della punibilità nei casi di accertata insufficienza del principio attivo è a tutt’oggi oggetto di ampio e serrato dibattito in dottrina ed in giurisprudenza, con il risultato ultimo di suscitare forti perplessità nell’applicazione della normativa vigente.
La tesi difensiva prospettata al giudice del diritto trova fondamento nella presunta conclamata impossibilità che ciascuna delle singole dosi detenute dall’imputato abbia effetti droganti per l’esiguità del principio attivo ivi contenuto. Quanto premesso dovrebbe comportare, secondo la difesa, l’assoluzione dell’imputato perché il fatto non costituisce reato. Diversamente ha ritenuto di dover concludere la Suprema Corte che, dopo alcune brevi considerazioni preliminari circa il concetto di pericolosità della condotta e della sua verifica (di cui si dirà più approfonditamente nella sezione che segue), ha rigettato il ricorso in considerazione del mero ed incontestabile dato di merito, ritenuto "...assorbente..." che il quantitativo di principio attivo effettivamente detenuto dall’imputato era notevolmente superiore al dato (quantitativo) indicato nel decreto del Ministero della Salute dell’11 aprile 2006(1).
La Cassazione, chiamata ad intervenire ancora una volta in tema di reati contro la diffusione di sostanze stupefacenti(2), afferma nella sentenza in commento il principio secondo il quale la offensività in astratto della condotta di coltivazione di piante, da cui è ricavabile la sostanza stupefacente, deve poi essere necessariamente oggetto di esame nel concreto da parte del giudice di merito attraverso la verifica della sussistenza dell’offensività specifica della singola condotta in concreto accertata. L’azione del giudice, una volta preso atto dell’avvenuta coltivazione e produzione di sostanze stupefacenti, non può e non deve, dunque, limitarsi alla mera verifica della sussistenza, o meno, della rispondenza quali/quantitativa della sostanza stupefacente con quelle di cui al D.P.R. precitato, ma essere improntata all’accertamento dell’inoffensività della condotta dell’autore, intendendosi per tale solo quella che "...non leda o metta in pericolo il bene tutelato anche in grado minimo...".

Pericolosità ed offensività della condotta di detenzione di sostanze stupefacenti

Dottrina e giurisprudenza(3) hanno, nel tempo, assunto posizioni diverse in materia di uso e detenzione di sostanze stupefacenti argomentando in maniera differente, talvolta completamente contrapposta, circa la punibilità nei casi di accertata insufficienza del principio attivo(4).
A riguardo giova preliminarmente segnalare come la posizione della giurisprudenza più recente, in ossequio alle istanze di sicurezza che oggi si fanno pressanti, appare votata sicuramente ad una interpretazione più rigida della norma.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale che potremmo definire tradizionale(5), ormai superato dalle tesi dottrinali più recenti, "...la cessione di sostanze stupefacenti contenenti un quantitativo di principio attivo tale da escludere del tutto l’efficacia drogante non configura reato per l’inidoneità dell’azione ad offendere l’interesse protetto, ossia la salute psico-fisica di chi assume determinate sostanze....".
Secondo l’orientamento più recente(6) la fattispecie de qua deve essere, invece, interpretata in chiave plurioffensiva. La norma incriminatrice tutela, infatti, non solo il bene giuridico della salute individuale, ma anche quello collettivo della salute pubblica, della sicurezza e dell’ordine pubblico, della salvaguardia delle nuove generazioni, beni che risultano lesi anche per effetto della sola cessione di sostanze che, se pur prive di efficacia drogante, trovano illecito mercato nella compravendita effettuata da soggetti alla ricerca di condizioni psicofisiche alterate (il c.d. sballo - n.d.a.). E tutto ciò che ruota intorno a tale "mercato" rappresenta un pericolo attuale per la collettività nel suo insieme.
Tale impostazione trova il proprio fondamento su una nozione, elaborata da una dottrina sicuramente "intransigente", legale e non farmacologica del concetto di stupefacente che chiama l’operatore giudiziario alla semplice verifica del fatto che la sostanza ceduta rientri tra quelle indicate nelle tabelle ministeriali(7).
Altra parte della dottrina, nella preliminare considerazione che ogni interpretazione repressiva di tipo automatico che non comporta la concreta verifica della capacità drogante del principio attivo appare in acclarato contrasto con i superiori principi di cui agli artt. 3 e 25 Cost., afferma che "...se è innegabile che l’assoluta inidoneità dell’offensività specifica della singola condotta, in concreto accertata, a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato fa venir meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta, in quanto la indispensabile connotazione di offensività in generale di quest’ultima implica di riflesso la necessità che anche in concreto la offensività sia ravvisabile almeno in grado minimo nella singola condotta dell’agente (in difetto di ciò venendo la fattispecie a rifluire nella figura del reato impossibile)...."(8) non può comunque escludersi in senso assoluto, ovvero senza una verifica di merito, che in concreto siano lesi altri beni giuridici tutelati in via mediata dalla norma.
Secondo tale orientamento, dunque, la condotta di cessione di un definito ed isolato quantitativo di droga recante principio attivo in misura talmente esigua da essere sicuramente insufficiente, ove assunto, a determinare un apprezzabile stato stupefacente, non è dato idoneo di per sé a consentire di escludere l’offensività concreta dell’azione e, quindi, insussistente la responsabilità penale a carico dell’agente.
Tale tesi, che trova fondamento su una interpretazione in chiave plurioffensiva della norma(9), ha, a parere di chi scrive, l’indubbio vantaggio di consentire ai giudici di merito di reputare esistente il reato per il verificarsi della lesione di uno degli interessi tutelati anche solo incidentalmente dalla norma, incrementando l’azione di contrasto ai fenomeni criminali connessi alla diffusione del consumo delle sostanze stupefacenti, ma, per contro, ha il difetto di fare affidamento su una interpretazione quantomeno articolata della norma medesima (nei casi limite alla ricerca di beni giuridici la cui tutela può apparire essere stata solo incidentalmente nelle intenzioni del legislatore).
Nel caso di specie l’accertamento dell’offensività della condotta determina diversi dubbi in relazione alla soglia non drogante di ciascuna dose, alimentati dal riferimento a nuovi presunti beni meritevoli di tutela penale, elaborati dalla dottrina come accade, ad esempio, nel caso della "salvaguardia delle giovani generazioni".
E, proprio relativamente a tali nuovi beni giuridici, molte volte di creazione pretoria e quindi poco consolidati in giurisprudenza, tale ultima tesi appare criticabile(10).
Il principio di offensività è, infatti, strettamente collegato con quello di legalità, nel senso che l’interesse offeso deve costituire un elemento tipico del reato e non deve essere un dato esterno ricavabile soggettivamente dal giudice sulla base di considerazioni sociali o morali (come talvolta avviene sull’onda della risonanza mediatica che ciclicamente hanno talune particolari fattispecie penali).
Appare, dunque, ben più semplice, e meno forzato, fare riferimento unicamente al tradizionale principio della offensività in forza del quale non è concepibile un reato senza offesa (nullum crimen sine iniura).
Siffatto principio, secondo consolidata giurisprudenza costituzionale, opera su due piani ben distinti: quello della previsione normativa, sotto forma di precetto rivolto al legislatore di prevedere fattispecie che esprimano in astratto un contenuto lesivo o comunque la messa in pericolo di un bene o interesse oggetto di tutela penale (offensività in astratto), e quello della applicazione giurisprudenziale (offensività in concreto), quale criterio interpretativo-applicativo affidato al giudice, tenuto ad accertare che il fatto reato abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l’interesse tutelato(11).
Compito del giudice del merito rimane, dunque, quello di verificare se la condotta, volta per volta contestata all’agente ed accertata, sia assolutamente inidonea a mettere in pericolo il bene giuridico protetto, ossia che risulti inoffensiva in senso assoluto in riferimento al bene giuridico protetto sotteso alla singola fattispecie penale.
Nella sentenza in esame è dato, comunque, registrare come la Corte medesima adotti un doppio binario interpretativo, sintomo di dubbi e perplessità persistenti, laddove, come nel caso di specie, interviene confrontando i dati numerici del principio attivo indicati nella impugnata sentenza con il dato quantitativo considerato dal decreto ministeriale e concludendo per il superamento della soglia drogante, ossia compiendo un’indagine sulla quantità che, ove si desse per asseverata la tesi di plurioffensività della fattispecie penale (de qua)(12), sarebbe risultato del tutto superflua ai fini della individuazione della responsabilità penale dell’agente.

Il principio di offensività

A conclusione della presente nota, per completezza di indagine, è necessario approfondire rapidamente i contenuti del c.d. principio di offensività, sintetizzato nel citato brocardo latino nullum crimen sine iniuria, che è uno degli elementi fondanti del diritto penale moderno.
Tale principio è fondato sul presupposto che non possa esservi reato in assenza di una lesione del bene giuridico che la norma tende a tutelare, con la conseguenza che il fatto materiale deve ledere o porre in pericolo il bene protetto.
Secondo parte della dottrina, che fornisce una lettura più rigida della norma, il reato è una semplice inosservanza di precetti fissati dalla legge; della concezione che considera il reato come offesa non si troverebbe, infatti, traccia alcuna in nessun passaggio del disposto costituzionale che si limita ad individuare unitamente il c.d. principio di legalità formale (di cui tratta l’articolo 25 Cost., secondo comma). Affiancare a tale ultimo principio quello ben più articolato di offensività, che secondo la dottrina maggioritaria è elemento essenziale del reato assieme alla condotta, all’evento ed al nesso causale, avrebbe, secondo tale interpretazione, l’aberrante conseguenza che la mancanza di un’offesa al bene giuridico protetto determinerebbe l’assenza di ogni responsabilità a carico dell’agente (concezione c.d. sostanzialistica).
Altra parte della dottrina, nel confermare la sussistenza dell’offensività quale principio del diritto penale, afferma che esso stesso svolge, all’interno del principio di legalità, una funzione garantista, facendo sì che l’offesa non coincida con la realizzazione del fatto tipico ma consenta di salvaguardare la realtà dell’oggetto giuridico e la concretezza della sua aggressione.
Tale assunto si risolve nella c.d. concezione realistica del reato secondo la quale il reato, in concreto, è un fatto umano conforme ad un modello descritto dall’ordinamento e lesivo di un interesse penalmente protetto. Dunque, senza la lesione ovvero almeno la messa in pericolo dello specifico interesse tutelato dalla norma incriminatrice, il reato non sussiste(13).
Ciò comporta che un fatto che riproduca le note descrittive proprie di una figura criminosa, possedendone i connotati formali tipici, si deve presentare, anche nel caso concreto, e non unicamente in astratto, carico di quel disvalore proprio per evitare il quale il legislatore ha determinato una fattispecie produttiva di conseguenze giuridiche(14).
In tal senso il disposto di cui all’art. 49 comma 2 c.p.(15) prevede l’obbligo per il legislatore di ricorrere alla sanzione penale solo quando vi sia la necessità di tutelare un bene giuridico unitamente al dovere per il giudice di verificare se la condotta concreta non solo corrisponda alla fattispecie astratta, prevista dalla norma incriminatrice, ma comporti l’offesa (lesione o messa in pericolo) dell’interesse tutelato, rappresenta l’elemento normativo portante di tale concezione che impone una duplice valutazione del fatto: in primo luogo, sulla sua conformità al tipo di reato; in secondo luogo, sulla sua capacità lesiva del bene o interesse protetto dalla norma.
In materia giurisprudenza e dottrina, preso atto del fatto che accettando la concezione realistica del reato si determina che un’azione, astrattamente e formalmente tipica, possa essere inidonea a ledere l’interesse protetto, si è fatta strada la tesi che la nozione di evento (che, come detto, è elemento essenziale del reato) debba essere ancorata all’offesa dell’interesse protetto. Con indubbie ripercussioni sulla tematica inerente all’elemento soggettivo del reato.
È noto come, infatti, in sede di interpretazione del disposto dell’art. 43 c.p.(16) , si sia a lungo dibattuto se il legislatore in relazione al concetto di evento abbia voluto fare riferimento a quello inteso in senso naturalistico ovvero giuridico. Evento naturalistico è la modificazione del mondo esterno per effetto della condotta, rilevante per il diritto, mentre evento in senso giuridico è la lesione o la messa in pericolo dell’interesse protetto.
La tesi in favore dell’evento giuridico è, a parere di chi scrive, sicuramente più solida. Basti considerare che il nostro ordinamento giuridico conosce ipotesi di figure di reato prive di evento in senso naturalistico quali i reati di pura condotta (a titolo esemplificativo i c.d. reati omissivi propri) nella cui fattispecie non è dato, appunto, rinvenire alcun riferimento ad un risultato dell’azione od omissione da cui la legge faccia dipendere l’esistenza del delitto. Argomentando a contrario, in caso si ritenesse di aderire alla tesi dell’evento inteso in senso naturalistico non risulterebbero mai integrate le relative fattispecie di reato per difetto di imputabilità del non-agente.
Risultato ultimo di tale tesi è che la responsabilità penale del soggetto dovrà, dunque, essere ancorata alla consapevolezza di offendere con la propria condotta l’interesse protetto dalla norma(17).
Le medesime S.S.U.U.(18) si sono più volte richiamate al principio affermato dalla giurisprudenza costituzionale(19) secondo il quale ove la singola condotta sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio i beni giuridici tutelati, viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta poiché le indispensabili connotazioni di offensività di quest’ultima, implicano, di riflesso, la necessità che anche in concreto l’offensività sia ravvisabile, almeno in grado minimo, nella singola condotta dell’agente. In difetto di ciò la fattispecie verrebbe a refluire nella figura del reato impossibile.
Si deve, comunque, dare atto della presenza di altra tesi, opposta a quella sin qui argomentata, secondo la quale il principio di offensività sarebbe del tutto estraneo al nostro ordinamento giuridico(20).
L’obiezione alla teoria realistica nasce dalla semplice considerazione che la non punibilità dei fatti inoffensivi conformi alla fattispecie penale richiederebbe il ricorso, da parte del giudice di merito, a criteri di valutazione extralegislativi ossia estranei alla fattispecie legale, rendendolo arbitro della responsabilità penale dell’agente in spregio di quel principio di legalità che è esso stesso, in forza di espressa previsione costituzionale, elemento strutturale del diritto penale(21).
E la critica si fa assai aspra nel caso in cui l’offensività diviene elemento strutturale non soltanto nel caso di reati di danno e di pericolo concreto (costruiti già in astratto dal legislatore in termini di necessaria offensività), ma anche nei reati di pericolo astratto o presunto e nei reati di scopo.
Mentre l’aggiunta dell’offesa all’interno di un reato costituito già astrattamente rende espresso ciò che è implicito, ponendosi però in perfetta sintonia con gli scopi di tutela perseguiti dal legislatore, al contrario l’aggiunta dell’offesa in un reato già in astratto inoffensivo incide sulla struttura legislativa della fattispecie, inserendo ex novo un elemento addirittura del tutto estraneo alla norma, con la conseguenza che l’attività del giudice finisce per sostituirsi a quella del legislatore, operando in pratica sul piano delle fonti.
Altra obiezione alla tesi maggioritaria è quella che ritiene che la concezione realistica, ove accolta, si porrebbe in contrasto anche con il principio di determinatezza e tassatività della norma (derivati dal principio di legalità) esistendo ampi spazi di discrezionalità nella individuazione del bene giuridico tutelato che, come si è detto nelle sezioni precedenti, vengono riempiti da decisioni prese nel corso dei primi gradi di giudizio sull’onda emotiva e mediatica del fatto di reato.
A sostegno della tesi in esame si pone anche un recente intervento della Suprema Corte la quale, ponendosi in contrasto con una giurisprudenza pressoché costante, afferma che "nel nostro ordinamento penale non vige alcuna norma che consacri il cosiddetto principio di offensività, alla stregua del quale non sussisterebbe il reato se la condotta sia insuscettibile di ledere il bene protetto dalla norma incriminatrice"(22).
Secondo tale tesi, dunque, il principio di offensività deve essere inteso più semplicemente come spinta per il legislatore a costruire fattispecie penali modulate in modo da assicurare che alla loro realizzazione corrisponda sempre la lesione o la messa in pericolo dell’interesse protetto, e come obbligo per l’interprete di ricercare l’offensività della condotta solo laddove richiesto dalla fattispecie astratta(23).
Altra dottrina, sicuramente minoritaria, si pone a metà strada tra le due precitate negando la possibilità di ammettere l’esistenza di uno scarto fra tipicità ed offesa, a causa delle conseguenze nefaste che ne deriverebbero (violazione del principio di legalità, indeterminatezza nell’interpretazione delle fattispecie e incertezza nei criteri di valutazione dello scarto fra tipicità ed offesa) ma, per contro ammettendo che sia, invece, configurabile uno scarto fra "tipicità reale" e "tipicità apparente"(24).
Si parla di tipicità apparente per i casi in cui un fatto non può seriamente essere considerato conforme alla fattispecie perché manifestamente privo dell’idoneità a pregiudicare gli interessi tutelati.
In altri termini, con una operazione più che altro linguistica, si cerca di eliminare il problema dell’offensività spostandolo sulla tipicità, introducendo la categoria del fatto "apparentemente tipico" senza specificare quale debba essere il criterio in base al quale il fatto si può considerare realmente tipico o soltanto apparentemente tale. La non punibilità interverrebbe in relazione ad una non meglio precisata nozione di tipicità "apparente"(25).
Si vorrebbe, in ossequio a questa tesi, introdurre una nozione, quale quella di reato o tipicità apparente, che non trova alcun riscontro normativo, ritenendola preferibile ad una costruzione dottrinale che fissa in modo rigoroso le situazioni di conformità al fatto (azione inidonea), ma non lesive dell’interesse tutelato (impossibilità dell’evento dannoso o pericoloso)(26).


Approfondimenti
(1) - Pub. su G.U. n. 95 del 24 giugno 2006 recante "Indicazione dei limiti quantitativi massimi delle sostanze stupefacenti e psicotrope, riferibili ad un uso esclusivamente personale delle sostanze elencate nella tabella I del T.U. delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e delle sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, come modificato dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49, ai sensi dell’art. 73, Comma 1-bis".
(2) - C. Cassazione, Sez. VI, n. 28605 del 24 aprile 2008
(3) - C. Cassazione, Sez. IV, n. 3584 del 2000, Fucile; Sez. VI, n. 20938 del 2004 e n. 31412 del 2004.
(4) - Che è l’elemento qualificante le sostanze in argomento in ragione della capacità di alterazione che lo contraddistinguono - n.d.a.
(5) - Vedasi tra le altre, C. Cassazione, Sez. IV, 1 ottobre 1993; C. Cassazione, Sez. VI penale, ordinanza 18 luglio 2007 n. 28661
(6) - C. Cassazione S.S.U.U. 24 giugno 1998 n. 9973.
(7) - Il cui presupposto di fondo è la capacità di quanto inserito in elenco di determinare gli effetti tipici delle sostanze stupefacenti o psicotrope (incidenza sul sistema nervoso centrale con induzione di stati di dipendenza fisica e/o psichica, desumibile dalla previsione di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 14, comma 1, lett. a), n. 4).
(8) - C. Cassazione pen., Sez. VI, 18 luglio 2007, 28661 ordinanza di rimessione alle S.S.U.U.
(9) - Fatta propria dalle S.S.U.U. nella sentenza in commento
(10) - Fiandaca, Note sul principio di offensività e sul ruolo del bene giuridico tra elaborazione dottrinale e prassi giudiziaria, in A.A.V.V., Le discrasie fra dottrina e giurisprudenza in diritto penale, a cura di A. Stile, Napoli, 1991
(11) - Così testualmente la Corte Cost. in Sent. n. 265/05, in materia di possesso ingiustificato di chiavi e grimaldelli, che ha stabilito che: "il principio di offensività opera su due piani, rispettivamente, della previsione normativa sotto forma di precetto rivolto al legislatore di prevedere fattispecie che esprimano in astratto un contenuto lesivo e dell’applicazione giurisprudenziale (offensività in concreto), quale criterio interpretativo-applicativo affidato al giudice, la norma censurata, nell’insieme degli elementi costitutivi che la compongono, vale a dire materialità della condotta incriminata e conseguente possibilità di condurre in sede di applicazione della norma un incisivo controllo circa la sussistenza del requisito dell’offensività in concreto, mira a prevenire, sotto forma di reato di pericolo, la commissione di delitti contro il patrimonio, nel rispetto del principio di materialità e di offensività in astratto", e conformemente in Sent. n. 360/95, n. 263/00, n. 519/00 e n. 354/02.
(12) - Cui espressamente la Cassazione afferma in sentenza di aderire - n.d.a.
(13) - R. Garofoli, Manuale di diritto penale, parte generale, Giuffrè editore.
(14) - Palazzo, Meriti e limiti dell’offensività come principio di ricodificazione, in Atti, Prospettive di riforma del Codice penale e valori costituzionali, Milano, 1994.
(15) - Reato supposto erroneamente e reato impossibile, che recita "Non è punibile chi commette un fatto non costituente reato, nella supposizione erronea che esso costituisca reato. La punibilità è altresì esclusa quando, per la inidoneità dell’azione o per l’inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso. Nei casi preveduti dalle disposizioni precedenti, se concorrono nel fatto gli elementi costitutivi di un reato diverso, si applica la pena stabilita per il reato effettivamente commesso. Nel caso indicato nel primo capoverso, il giudice può ordinare che l’imputato prosciolto sia sottoposto a misura di sicurezza"
(16) - Elemento psicologico del reato, che prevede "Il delitto: è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione; è preterintenzionale, o oltre l’intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente; è colposo, o contro l’intenzione quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.
La distinzione tra reato doloso e reato colposo, stabilita da questo articolo per i delitti, si applica altresì alle contravvenzioni, ogni qualvolta per queste la legge penale faccia dipendere da tale distinzione un qualsiasi effetto giuridico".
(17) - Indubbiamente ciò implica notevoli difficoltà in quei casi in cui tale interesse non sia di agevole individuazione, con le conseguenti problematiche in tema di errore, dovendosi ammettere l’esclusione della punibilità ex art. 47 comma 1 c.p., laddove il reo versi in errore circa le caratteristiche di lesività della propria condotta, ritenendo di tenere una condotta del tutto inoffensiva la quale abbia invece arrecato nocumento al bene o interesse tutelato; vedasi: Riz, Lineamenti di diritto penale, parte generale, Padova, 2005.
(18) - C. Cassazione, S.S.U.U., Sent. n. 12/98; C. Cassazione, Sez. IV, Sent. n. 12210/07; C. Cassazione, Sez. VI, Sent. n. 8142/06; C. Cassazione. Sez. IV, n. 9216/05.
(19) - L’ampio riconoscimento del canone dell’offensività da parte della giurisprudenza ordinaria è stato autorevolmente avallato, nonché stimolato dalla Corte costituzionale, la quale ha ripetutamente preso posizione, negli ultimi venti anni, a favore di una considerazione a livello interpretativo del principio di offensività collegato all’art. 49 comma 2 c.p. Sulla spinta della dottrina più sensibile che ha individuato in particolare nella disciplina dei fatti "tenui" o "esigui" un problema fondamentale sia per l’interprete che per il legislatore, il giudice delle leggi con la leading decision del 1986 ha evidenziato per la prima volta il ruolo dell’esiguità quantitativa come indice di inoffensività del fatto, rimettendo al giudice di merito l’individuazione all’interno dei reati di pericolo astratto della soglia minima di lesività al di sotto della quale le classi comportamentali, per la loro oggettiva tenuità, divengono inidonee ad offendere il bene o i beni tutelati.
(20) - F. Caringella, M. Depalma, F. Della Valle, Manuale di diritto penale, parte generale, DIKE giuridca Roma 2009.
(21) - Antolisei, Manuale di diritto penale, parte generale, Milano, 2003
(22) - Cass. Sent. n. 41462/04; Cass. Sent. n. 44161/01. La stessa Corte costituzionale, in passato, ha affermato che "l’offensività deve ritenersi di norma implicita nella configurazione del fatto e nella sua qualificazione di illecito da parte del legislatore, salvo talune ipotesi marginali ... nelle quali, a causa della necessaria astrattezza della norma, può verificarsi divergenza fra tipicità ed offesa", Corte Cost. Sent. n. 333/91.
(23) - Palazzo, Meriti e limiti dell’offensività come principio di ricodificazione, cit.
(24) - In quest’ottica, l’esempio scolastico del furto d’acino d’uva non sarebbe da considerarsi un fatto tipico non offensivo, bensì dovrebbe essere inteso nel senso di un fatto soltanto apparentemente conforme al tipo legale di furto.
(25) - Fornendo una soluzione certamente meno garantita di quella che aggancia la non punibilità ad un istituto di diritto positivo - n.d.a.
(26) - F. Caringella, M. Depalma, F. Della Valle, Manuale di diritto penale, parte generale, cit.


Maltrattamenti in famiglia - Sussistenza reato e regime separazione - Misure cautelari - Stalking.

Corte di Cassazione, Sez. VI penale, Sentenza 17 aprile 2009, n. 16658

La fattispecie criminosa dei maltrattamenti in famiglia si determina anche in regime di separazione, allorché la condotta del soggetto agente realizzi gli elementi strutturali tipici di cui all’art. 572 c.p. attraverso plurime manifestazioni di offensività e di aggressività in danno del coniuge separato.
A riguardo risulta legittima la misura cautelare dell’allontanamento definitivo dalla casa familiare nei confronti di chi, pur avendo cessato di convivere con il coniuge, continua a sottoporlo a "stalking". Detta misura cautelare può trovare applicazione in concreto in ragione della valutazione del giudice di merito che è sicuramente di portata più ampia rispetto di quella alla base del provvedimento presidenziale di separazione giacché includente i rapporti e le relazioni interpersonali del soggetto passivo anche al di fuori dalle mura domestiche della casa familiare (1).

(1) Si legge quanto appresso in sentenza:
"Nel quadro di indagini preliminari, da plurime denunce - querele di …omissis… nei confronti del marito …omissis… aventi per oggetto i ripetuti gesti di violenza, sopraffazione e assillante invadenza in suo danno dall’uomo dopo la separazione di fatto dei due coniugi avvenuta nell’agosto 2007, il procedente pubblico ministero presso il Tribunale di Livorno chiedeva al G.i.p. del locale Tribunale l’adozione nei confronti dell’indagato …omissis… della misura cautelare di cui all’art. 282 bis cp dell’allontanamento dalla casa familiare e dai luoghi di abituale frequentazione della persona offesa affidataria della figlia più grande della coppia, la figlia più piccola essendo stata affidata al padre dal giudice civile della separazione. Misura da applicarsi in relazione al reato di maltrattamenti ex art. 572 c.p. [1], al …omissis… essendo altresì contestati ulteriori reati di lesioni personali (sette episodi), ingiurie e minacce in pregiudizio della moglie separata.
Il G.i.p. del Tribunale di Livorno con ordinanza del 25 marzo 2008 respingeva la richiesta cautelare del p.m., rilevando - senza entrare sostanzialmente nel merito - che i giudici dell’appello cautelare hanno travisato le ragioni della fuga o trasferimento della …omissis… con entrambe le figlie in Sardegna, individuandole nell’intento di sottrarsi alle violenze e al clima vessatorio instaurato dall’indagato e non valutando che - invece - la …omissis… mirava soltanto a sottrarre tutte e due le figlie al padre e ad impedirgli ogni contatto con loro.
Le accuse di insistenti molestie e violenze (maltrattamenti) nei confronti dell’indagato sono contraddette dal provvedimento presidenziale dell’8 febbraio 2008 con cui, nel giudizio civile di separazione, la figlia minore era stata affidata al …omissis… decisione che presuppone un giudizio di affidabilità dell’uomo in aperto contrasto con la fosca descrizione offertane dalle astiose denunce della …omissis… Ciò a tacere del fatto che la consulenza tecnica disposta dal giudice civile rende inopportuna l’applicata misura cautelare, impedendo ogni tentativo di aiutare i coniugi a recuperare una "normalità di rapporto civile da genitori separati".
Le doglianze enunciate dal ricorrente non possono trovare credito e l’impugnazione deve essere dichiarata inammissibile. Vuoi perché le delineate censure si sviluppano tutte in una dinamica ricostruttiva dei rapporti coniugali incentrata su una rivalutazione meramente fattuale degli eventi che contrassegnano la separazione del …omissis… dalla moglie. Rivalutazione non percorribile nell’odierno giudizio di legittimità, avuto riguardo alla linearità e coerenza con cui l’impugnata decisione del Tribunale di Firenze ha focalizzato gli elementi probatori che, offrendo puntuale dimostrazione dell’esistenza dei plurimi fatti di maltrattamento (stalking) attuati in danno della moglie separata, giustificano l’adozione della misura cautelare nei confronti dell’indagato. Vuoi perché le censure del ricorrente si rivelano, sul piano giuridico, palesemente infondate.
Giova rimarcare che il Tribunale di Firenze non ha affatto acriticamente privilegiato le prospettazioni accusatorie provenienti dalla persona offesa, per altro esplicitamente riscontrate dai referti medici attestanti le lesioni in più casi riportate dalia donna per effetto delle violente aggressioni dei coniuge (è appena il caso di ricordare che il p.m. contesta all’indagato ben sette autonomi episodi di lesioni personali consumati in un periodo di pochi mesi), ma le ha analizzate anche alla luce di un comparativo raffronto con gli assunti difensivi del …omissis… considerati motivatamente incongrui ("l’indagato ha dichiarato che egli in qualche modo era costretto a sfogare questa inaccettabile carica di maltrattamenti a seguito dei torti subiti dalla moglie, che aveva portato via improvvisamente le figlie in Sardegna, quando è stata la donna costretta ad allontanarsi temporaneamente da Livorno per sfuggire alla furia dell’indagato").
Sul piano delle valutazioni di stretto diritto è opportuno ribadire che la fattispecie criminosa dei maltrattamenti infraconiugali può e deve ravvisarsi anche in situazioni di separazione e di sopravvenuta interruzione della convivenza, allorché la condotta del soggetto agente realizzi - come si registra nei caso di specie - gli elementi strutturali tipici della ipotesi criminosa di cui all’art. 572 cp attraverso ripetute e insistite manifestazioni di offensività e aggressività attuate in danno del coniuge separato. Né l’applicata misura cautelare di cui all’art. 282 bis c.p.p. si rende inconciliabile con uno stato di fatto integrato dal già avvenuto abbandono (allontanamento) della casa coniugale da parte del coniuge indagato, atteso che la ratio dei provvedimento cautelare si esprime in uno spettro valutativo di più ampia portata, includente rapporti e relazioni interpersonali del …omissis… dell’accusa mossa al …omissis… che, avendo l’indagato abbandonato il domicilio coniugale, l’invocata misura cautelare si rendeva inattuale e "di fatto inattuabile", le corrispondenti prescrizioni interdittive (divieti di presenza nel luogo di lavoro e negli altri luoghi di quotidiana frequentazione della …omissis… potendo essere assunte soltanto previa adozione della misura (principale) dell’allontanamento dalla casa familiare.
Il pubblico ministero appellava il provvedimento reiettivo del G.i.p -, rimarcandone l’incongruenza giuridica (per la riconosciuta configurabilità del reato di cui all’art. 572 cp in danno di un coniuge anche in caso di intervenuta separazione) e la superficiale valutazione della gravità dello stato di sistematica sopraffazione posto in essere dal …omissis… nei confronti della moglie, protraentesi senza sosta e segnato da un nuovo episodio di aggressione verbale e fisica divenuto oggetto di ulteriore denuncia della … omissis … in data 19.3.2008. Ciò non senza aggiungere che l’indagato continuava a recarsi presso l’abitazione già sede della famiglia e che comunque disponeva di un appartamento in prossimità della stessa.
2. - II Tribunale di Firenze, giudice dell’appello cautelare, con l’ordinanza del 29.4.2008 indicata in epigrafe, ha accolto l’impugnazione del p.m. ed ha applicato ad …omissis… la misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare prescrivendogli di non accedere agli altri luoghi ove abiti o dimori la …omissis… da sola o con le figlie, nonché ai luoghi di abituale frequentazione della donna e di domicilio della sua famiglia di origine e dei suoi prossimi congiunti.
Il Tribunale ha applicato la detta misura cautelare ritenendo suffragati da univoci e gravi indizi di colpevolezza i contegni antigiuridici del …omissis… qualificanti una unitaria e abituale condotta di stalking, caratterizzata da aggressioni di carattere fisico e morale delIa …omissis… tali da dar luogo ad opera dell’indagato (non disposto ad accettare senza virulente reazioni la separazione dalla consorte) ad una vera e propria "sindrome dell’assalitore assillante"; tanto da costringere la …omissis… a farsi accompagnare al lavoro o in altri posti da un agente di sicurezza privato, ciò che non ha impedito in un caso l’aggressione della donna colpita con un pugno dal …omissis… Sul piano cautelare il Tribunale ha considerato palesi e "persino tautologiche" le esigenze di prevenzione (ex art. 274, lett. e, c.p.p.) legittimanti l’applicata misura coercitiva (valutata, tra l’altro, sin troppo mite in rapporto alla gravità del comportamento lesivo del prevenuto).
3. - Avverso tale ordinanza del giudice di appello ha proposto personalmente ricorso per cassazione il …omissis… deducendo unitaria censura di violazione di legge e di carenza di motivazione per travisamento dei fatti, variamente articolata nei termini di seguito riassunti (art. 173 co., 1 disp. att. C.p.p.).
Il Tribunale ha impropriamente valorizzato i postulati accusatori della …omissis… gratificati di piena credibilità sulla base delle numerose denunce-querele della donna (che avrebbero avuto il solo scopo di sottrarre al marito l’affidamento della figlia più piccola), senza tener conto delle denunce presentate anche dal …omissis… corredate da referti medici, a dimostrazione delle aggressioni consumate in suo danno dalla …omissis… Né peculiare peso può attribuirsi alle dichiarazioni (contenute in una sorta di relazione di servizio) dell’agente della sicurezza stipendiato dalla …omissis… in merito ai contegni di petulanza e di molestia attribuiti all’indagato (che, per altro, ha denunciato l’uomo per essere stato dallo stesso malmenato).
Soggetto passivo che - come è palese nel caso oggetto del presente ricorso - trascende la mera quotidianità di vita e di abitudini nel ristretto ambito delle sole mura domestiche della casa familiare.
Alla declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione segue per legge la condanna del …omissis… alla rifusione delle spese processuali ed al versamento di una somma in favore della cassa delle ammende, che stimasi equo determinare in misura di euro 300,00 (trecento). La cancelleria si farà carico degli adempimenti informativi connessi alla definitività del provvedimento cautelare ed alla sua esecuzione (art. 28 reg. esec. C.p.p.).


P. Q. M.

la Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro trecento in favore della cassa delle ammende".





Maltrattamenti in famiglia, Stalking

La vicenda processuale

Nell’ambito delle indagini preliminari avviate a seguito di denunce aventi per oggetto i ripetuti gesti di violenza, sopraffazione e assillante invadenza in danno del coniuge dopo la separazione di fatto, il P.M. presso il Tribunale di Livorno chiedeva al G.i.p. l’adozione nei confronti dell’indagato della misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare(1) e dai luoghi di abituale frequentazione della persona offesa, affidataria della figlia più grande della coppia (la figlia più piccola era stata affidata al padre dal giudice civile della separazione), da applicarsi in relazione al reato di maltrattamenti ex art. 572 c.p.(2).
Il G.i.p. del Tribunale di Livorno con ordinanza del 25 marzo 2008 respingeva la richiesta cautelare rilevando, senza entrare sostanzialmente nel merito, l’erronea valutazione del P.M. istante che avrebbe travisato le ragioni della fuga (o trasferimento) della coniuge con entrambe le figlie in Sardegna, individuandole nell’intento di sottrarsi alle violenze ed al clima vessatorio instaurato dall’indagato e non già nella volontà di sottrarre tutte e due le figlie al padre e ad impedirgli ogni contatto con loro.
Premessa la unanime riconosciuta configurabilità in giurisprudenza del reato di cui all’art. 572 c.p. in danno di un coniuge anche in caso di intervenuta separazione, il P.M. appellava il provvedimento reiettivo evidenziando la superficiale valutazione della gravità dello stato di sistematica sopraffazione posto in essere dal marito nei confronti della moglie, protraentesi senza sosta e segnato da un nuovo episodio di aggressione verbale e fisica divenuto oggetto di ulteriore recente denuncia
A riguardo, la Cassazione nella pronuncia in commento non mancherà di sottolineare come in questo caso il P.M. abbia omesso di aggiungere un elemento decisivo a supporto della propria tesi ossia che l’indagato continuava a recarsi presso l’abitazione già sede della famiglia, disponendo, inoltre, di altra unità immobiliare in prossimità dell’abitazione della coniuge.
II Tribunale di Firenze, giudice dell’appello cautelare, con ordinanza del 29 aprile 2008 accoglieva l’impugnazione del P.M. applicando all’ex marito la misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare con divieto di accedere agli altri luoghi ove abiti o dimori la di lui moglie da sola o con le figlie, nonché ai luoghi di abituale frequentazione della donna e di domicilio della sua famiglia di origine e dei suoi prossimi congiunti.
Avverso tale ordinanza l’indagato ha proposto ricorso per cassazione deducendo unitaria censura di violazione di legge e di carenza di motivazione per travisamento dei fatti.
La Suprema Corte, preso atto di una situazione di fatto caratterizzata dalle azioni dell’indagato che manifestava la c.d. "sindrome dell’assalitore assillante", ha respinto il ricorso dell’imputato confermando la sentenza del Tribunale. Evidenzia la Corte, con medesimo provvedimento di rigetto, che la misura cautelare adottata appare addirittura eccessivamente mite avuto riguardo della gravità del comportamento lesivo messo in atto dall’ex marito, concordando con il P.M. il quale, sul piano delle valutazioni di stretto diritto, aveva premesso che "la fattispecie criminosa dei maltrattamenti infraconiugali può e deve ravvisarsi anche in situazioni di separazione e di sopravvenuta interruzione della convivenza, allorché la condotta del soggetto agente realizzi - come si registra nel caso di specie - gli elementi strutturali tipici della ipotesi criminosa di cui all’art. 572 c.p. attraverso ripetute e insistite manifestazioni di offensività e aggressività attuate in danno del coniuge separato"(3).
Naturale conseguenza di tali puntualizzazioni in fatto ed in diritto deve essere, prosegue la Cassazione, il divieto per l’ex coniuge molestatore di evitare di frequentare non solo la ex casa coniugale, ma anche i luoghi nei quali la ex moglie è solita recarsi da sola o con le figlie, nonché i luoghi di abituale frequentazione della donna e di domicilio della sua famiglia di origine e dei suoi prossimi congiunti(4).
L’importanza della sentenza in commento è che per la prima volta il giudice del diritto interviene in materia di stalking ossia di quel diffuso fenomeno consistente nella persecuzione continua, personale ma anche telefonica, alla quale un soggetto, generalmente un ex respinto, sottopone l’ex partner ovvero l’ex coniuge.
Preso atto della crescente diffusione del fenomeno, che ha spinto il legislatore ad introdurre nel codice penale, accanto alle norme in tema di violenza sessuale, il reato di stalking, la Cassazione assumendo nella sentenza de qua posizioni intransigenti, invita i giudici ad adottare la linea dura nei confronti degli uomini che perseguitano le ex compagne a rapporto concluso, se è necessario inibendo loro, anche prima del processo, l’accesso a tutti i luoghi frequentati dalla vittima.
Per quanto detto l’applicazione della misura cautelare adottata appare, secondo il giudice del merito, condivisibile laddove, introducendo un divieto - quello di frequentare i luoghi frequentati dalla ex - è diretta innanzitutto a prevenire nuove molestie, alle quali gli "assalitori assillanti" (per usare l’efficace espressione contenuta nella sentenza) sono naturalmente portati, tutelando la privacy e la tranquillità della vittima di stalking.
Lo stalking - Cenni introduttivi

Stalking è un termine inglese(5) (letteralmente: perseguitare) che viene comunemente utilizzato per indicare una serie di atteggiamenti/azioni persecutorie, realizzate da un individuo con il fine ultimo di affliggere un’altra persona, ingenerando stati di ansia e paura che possono arrivare a comprometterne il normale svolgimento della quotidianità(6).
La persecuzione, che si realizza attraverso ripetuti tentativi di comunicazione verbale e scritta, appostamenti ed intrusioni nella vita privata, sino ad atti di intimidazione fisica e psichica, nasce generalmente come complicazione di una qualsiasi relazione interpersonale e chiunque può esserne vittima(7). Si tratta, in sintesi, di un modello comportamentale che identifica intrusioni costanti nella vita pubblica e privata di una o più persone, che è ascrivibile anche a soggetti con i quali non si è intrattenuto alcun rapporto di natura sociale.
Lo stalker può, dunque, essere un estraneo, ed in tal caso si tratta di soggetti con problemi di interazione sociale che agiscono con l’intento di stabilire una relazione sentimentale imponendo la propria presenza ed insistendo anche nei casi in cui si sia ricevuta una chiara risposta negativa(8).
Non rientra propriamente nel concetto di stalking l’azione di individui affetti da disturbi mentali, per i quali l’atteggiamento persecutorio nasce da sintomi di perdita del contatto con la realtà dovuta ad un’organizzazione di personalità c.d. borderline(9). Solitamente questi comportamenti si protraggono per mesi od anni, il che mette in luce l’anormalità di questo genere di condotte.
Il reato di "stalking"

Lo stalking, di cui la decisione in commento, è considerato reato in diversi paesi del mondo(10).
Nell’ambito del dibattito inerente il suo inserimento a livello codicistico, in dottrina si è a lungo discusso circa i contenuti della fattispecie di reato, in particolare sulla natura dei c.d. atti persecutori/molestie insistenti e sulla loro reiterazione al fine di danneggiare una persona causandole stati di paura e di ansia che possano determinarla a radicali e non voluti cambiamenti nelle proprie abitudini di vita.
Il reato in argomento è stato introdotto nel nostro ordinamento giuridico il 23 aprile 2009 con l’approvazione del D.L. 23 febbraio 2009, n. 11, che ha recepito il disegno di legge Carfagna-Alfano "Misure contro gli atti persecutori" approvato dal Consiglio dei Ministri il 18 giugno 2008, attraverso la previsione dell’art. 612 bis c.p. che prevede che: "è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni, salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque reiteratamente, con qualunque mezzo, molesta o minaccia taluno in modo tale da infliggergli un grave disagio psichico ovvero da determinare un giustificato timore per la sicurezza personale propria o di una persona vicina o comunque da pregiudicare in maniera rilevante il suo modo di vivere".
Il reato in oggetto è stato inserito nel capo III del titolo XII, parte II del codice penale, nella sezione relativa ai delitti contro la libertà morale, e si caratterizza per la plurioffensività della condotta; il bene giuridico tutelato dal legislatore si ravvisa, prima facie, nella libertà morale ovvero nella libertà di autodeterminazione dell’individuo. Inoltre, la condotta delittuosa potrebbe ledere, una volta che si realizzi in capo al soggetto passivo quel disagio psichico di cui innanzi, il bene primario della salute, tutelato dall’art. 32 Cost. In questo caso il bene protetto andrebbe individuato nella tutela della incolumità, anche fisica, della persona.
Tre sono gli elementi costituivi del reato di stalking: la condotta tipica dell’autore dell’illecito, che si realizza nella molestia o nella minaccia a taluno; la reiterazione della condotta, ossia un modello comportamentale ripetuto nel tempo, continuato e ormai diventato abituale; l’inflizione di un grave disagio psichico ovvero il timore per l’incolumità propria e dei propri familiari, tale da pregiudicare in maniera rilevante il proprio modo di vivere.
La peculiarità della ripetizione di dette condotte porta una certa parte della dottrina(11) ad affermare che si tratti di reato abituale, mentre, nonostante la presenza nella fattispecie degli atti persecutori tra gli elementi costitutivi di cui all’art. 612 c.p., sembra potersi escluderne la configurabilità quale reato complesso.
Altra parte della dottrina sostiene, invece, che nel caso de quo si configurerebbe la fattispecie del c.d. reato complesso "speciale", scaturente dalla "fusione in posizione paritetica di due reati in altro e differente reato"(12); ancora, altra parte della dottrina osserva, per contro, che, con il termine "molestia", il legislatore pare riferirsi alla condotta in sé considerata e non tanto, sulla falsariga della contravvenzione di cui all’art. 660 c.p. (molestie o disturbo alle persone), al risultato della condotta medesima.
 Ne consegue che, aderendo a quella tesi che esclude dall’ambito dell’art. 84 c.p. i casi di reato complesso "in senso lato" (la cui genesi deriva non già dall’unione di più reati, ma da un modello base a cui si aggiungono ulteriori elementi di per sé non costituenti reato), ne deriva la non riferibilità dell’art. 612 bis a detto istituto.
I comportamenti di minacce e di molestie devono determinare nella persona offesa un "perdurante e grave stato di ansia o di paura", ovvero un fondato timore per la propria incolumità o per quella di persone a lei vicine, oppure costringerla ad alterare le proprie abitudini di vita.
Peraltro, il fatto che le condotte reiterate debbano produrre alternativamente uno degli eventi di cui sopra induce chi scrive a ritenere che ulteriore elemento costitutivo della fattispecie sia dato dal fatto che le molestie o le minacce debbano succedersi in un lasso di tempo non meglio precisato, ma sufficiente perché detti eventi si producano.
La fattispecie mira senza dubbio a tutelare la libertà morale, come facoltà del soggetto di autodeterminarsi. Infatti, tra i vari eventi che la condotta tipica può causare vi è l’alterazione delle proprie abitudini di vita, la quale può essere vista come una particolare ipotesi di violenza privata.
Tuttavia ove minacce o le molestie provochino il detto "perdurante e grave stato di ansia o di paura", inteso nel senso di patologia medicalmente accertabile che determini la lesione del bene salute, viene tutelato l’ulteriore bene giuridico dell’incolumità individuale.
In ordine alla natura giuridica, lo stalking si configura come reato di danno, richiedendosi la lesione effettiva dei beni giuridici protetti, trattandosi secondo la dottrina maggioritaria di reato plurioffensivo.
Non è stata accolta, infatti, la versione della Commissione Giustizia della Camera dei deputati che configurava l’illecito come reato di pericolo concreto, in quanto ciò avrebbe comportato un’eccessiva estensione della sua operatività, con il rischio di incriminare fatti inoffensivi.
In base a quanto detto, pare potersi ritenere il reato di stalking quale reato di evento(13), la cui consumazione avviene all’atto della realizzazione in via alternativa di una delle tre situazioni sopra esposte. Si tratta, secondi i più, di reato di evento a forma libera; benché ad una prima lettura possa sembrare che la fattispecie in questione debba realizzarsi soltanto mediante le condotte di minaccia o molestia, è pur vero che le medesime possono concretarsi in una molteplicità di forme non aprioristicamente individuabili(14).
L’elemento soggettivo richiesto è il dolo generico; poiché lo stalking è, come detto, reato d’evento, il soggetto dovrà anche rappresentarsi e volere uno degli eventi descritti dalla norma.
Dubbi, invero, potrebbero sussistere in ordine alla possibilità di configurare gli atti persecutori in presenza di dolo eventuale, posto che, in tal caso, il soggetto, pur ammettendo che si rappresenti ed accetti la concreta possibilità di realizzare la condotta tipica, pare ostico si configuri altresì il rischio di verificazione di uno degli eventi descritti dalla norma incriminatrice; in altri termini, l’introduzione della locuzione "in modo da cagionare", pare restringa l’operatività del momento soggettivo alla situazione corrispondente ad un’assoluta omogeneità tra il momento rappresentativo e quello volitivo in capo al soggetto(15).
La dottrina è concorde nel ritenere pienamente ammissibile la figura del tentativo, purché possa dimostrarsi che gli atti diretti in modo non equivoco a cagionare il delitto si siano verificati in numero tale da soddisfare il requisito della reiterazione richiesto per la configurazione dello stesso.
L’impianto normativo definito dal legislatore prevede per il reato de quo la procedibilità a querela di parte, da proporre entro sei mesi, invece dei tradizionali 90 giorni previsti per gli altri reati. Prima di ricorrervi la vittima può richiedere al Questore competente per territorio, l’ammonimento orale del molestatore; nel caso in cui lo stalker, nonostante l’intervenuto ammonimento, persegua nella sua condotta illecita, si procederà d’ufficio aggravando la pena di un terzo.
è possibile procedere d’ufficio, invece, nel caso in cui si tratti di minore o di persona diversamente abile.
Da ultimo si segnala che, stante il fatto che per integrarsi il delitto de quo è necessaria una reiterazione delle condotte tale da produrre effetti perduranti nel tempo, le incriminazioni di minaccia, molestia e violenza privata continueranno a sussistere quale autonoma ipotesi di incriminazione per il caso del singolo episodio oppure di più episodi che non diano luogo ad effetti che si protraggono nel tempo, essendo proprio il carattere della serialità elemento fondamentale della fattispecie in esame.
In riferimento all’introduzione del reato di stalking nel nostro ordinamento giuridico devesi cennare brevemente ai rapporti con i reati che con esso possono concorrere.
In relazione al reato di minaccia di cui all’art. 612 c.p., quest’ultimo deve considerarsi assorbito in quello di atti persecutori, venendo a configurare una delle condotte incriminate; diversamente, in relazione a quello di violenza privata di cui all’art. 610 c.p., il concorso va risolto in base al criterio di specialità, posto che l’alterazione delle abitudini di vita è peculiare ipotesi di violenza privata.
Più complesso è il discorso in riferimento alla contravvenzione di cui all’art. 660 c.p., in quanto, esclusa la configurabilità del reato complesso, le molestie individuate nell’art 612 bis costituiscono il genus rispetto a quelle del 660 c.p., per l’integrazione del quale sono richiesti ulteriori requisiti che vengono a restringerne l’ambito applicativo.
Le modifiche al codice di procedura penale

Per quanto concerne le modifiche apportate al codice di procedura penale, si segnalano schematicamente, per le esigenze dell’operatore giudiziario, le seguenti modifiche:
- estensione al reato de quo di quanto prescritto ex art. 266 c.p.p. (l’intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche e di altre forme di telecomunicazione è consentita nei procedimenti relativi al reato di "atti persecutori);
- introduzione con l’art. 282 ter c.p.p. di apposita misura cautelare personale coercitiva consistente nel divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (con il provvedimento che dispone tale divieto il giudice prescrive all’imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati o di mantenere una distanza determinata dai medesimi luoghi o dalla persona offesa. Il giudice, qualora sussistano ulteriori esigenze di tutela, può prescrivere all’imputato di non avvicinarsi a luoghi frequentati da prossimi congiunti della persona offesa, da persone conviventi con questa o legate da relazione affettiva o può prescrivere di mantenere una distanza determinata da tali luoghi o da tali persone);
- quanto di cui al comma 1 bis dell’art. 392 c.p.p. è esteso all’art. 612 bis (il P.M. può chiedere si proceda con incidente probatorio all’assunzione della testimonianza di persona minore di anni sedici);
- nel caso di indagini che riguardano ipotesi di reato previste dagli artt. 600, 600 bis, 600 ter, anche se relativo al materiale pornografico di cui all’art. 600 quater, 600 quinquies, 601, 602, 609 bis, 609 ter, 609 quater, 609 octies e 612 bis del codice penale, il giudice, ove fra le persone interessate all’assunzione della prova vi siano minorenni, con l’ordinanza di cui al comma 2, stabilisce il luogo, il tempo e le modalità particolari attraverso cui procedere all’incidente probatorio, quando le esigenze di tutela delle persone lo rendono necessario od opportuno(16);
- infine, quando si procede per i reati di cui agli articoli 600, 600 bis, 600 ter, 600 quater, 600 quinquies, 601, 602, 609 bis, 609 ter, 609 quater, 609 octies e 612 bis del codice penale, l’esame del minore vittima del reato ovvero del maggiorenne infermo di mente vittima del reato viene effettuato, su richiesta sua o del suo difensore, mediante l’uso di un vetro specchio unitamente ad un impianto citofonico.

Costituzionalità della norma

Le cronache giornalistiche e televisive, descrivendo una realtà quotidiana densa di numerosi episodi di molestie e di violenza sessuale, hanno di fatto comportato l’intervento urgente del legislatore per sopperire a quel vuoto normativo che non permetteva di sanzionare comportamenti persecutori reiterati quali quelli descritti nelle sezioni che precedono.
I lavori della Commissione Giustizia della Camera sono stati di fatto improntati alla ricerca dell’ideale grado di determinatezza della fattispecie in grado di consentire il rispetto del principio fissato dall’art. 25 Cost. garantendo, nel contempo, il soddisfacimento delle diverse finalità che il legislatore intendeva riscontrare.
Ricerca sicuramente necessaria al fine di mettere al riparo la norma da censure di illegittimità costituzionale ma difficoltosa stante la notevole ampiezza delle condotte di minaccia e di molestia, l’indeterminatezza del concetto di reiterazione della condotta e la tipizzazione degli eventi che si producono in conseguenza della condotta stessa(17).
Nell’ambito della elaborazione della norma la dottrina non ha mancato di far notare come se per le minacce e molestie sussiste una ricca tradizione interpretativa, tale da rendere agevole il compito degli operatori nella prassi applicativa, ciò non può dirsi relativamente alla reiterazione, in merito alla quale non sono stati previsti vincoli temporali entro i quali ricondurre la ripetizione delle condotte tipizzate (probabilmente per perseguire il fine di colmare la detta lacuna di tutela nel nostro ordinamento giuridico - n.d.a.). L’espressione "condotte reiterate" rimanda sin troppo a quella utilizzata in relazione al reato abituale, criticatissima, a causa della mancata indicazione del "numero di episodi necessario per integrare la serie minima" che ne determina un coefficiente di indeterminatezza difficilmente compatibile con quanto previsto dal comma 2 dell’art. 25 Cost.
In riferimento all’ulteriore elemento costitutivo della fattispecie, l’evento, è dato rilevare la sostanziale costituzionalità del riferimento alla "alterazione delle proprie abitudini di vita", alla luce della possibilità di accertare probatoriamente tali alterazioni esterne.
Diverso è il discorso relativamente al "fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva" e, soprattutto, al "perdurante e grave stato di ansia e di paura".
La previsione del fondato timore comporta una valutazione sull’idoneità ex ante della condotta a suscitare ansia/paura in una persona normale. Invero, se siffatta impostazione si conciliava con l’originaria versione della norma (che come detto era vero e proprio reato di pericolo), determina ad oggi la necessità di un accertamento ex post al fine di verificare se l’evento concreto realizzi il pericolo tipicamente o generalmente connesso all’azione delittuosa(18), in modo da evitare l’incriminazione di comportamenti in concreto inidonei ad offendere i beni giuridici tutelati.
In riferimento all’ipotesi di "perdurante e grave stato di ansia e di paura" si palesa una insufficiente tipizzazione della condotta con il rischio concreto di illegittimità della fattispecie.
Secondo la dottrina la costituzionalità della norma si ottiene interpretando la formula predetta come riferita a forme patologiche caratterizzate dallo stress, sussistenti come conseguenza del tipo di comportamenti incriminati, le quali devono trovare riscontro nella letteratura medica.
Si tratterebbe, in definitiva, di un elemento normativo di carattere extragiuridico che prevede l’intervento della scienza medica, la quale sola sarà in grado di dare concretezza di significato ai termini impiegati. A riguardo si segnala che la medicina legale ha da tempo individuato non solo i parametri secondo i quali riconoscere da un punto di vista medico le condotte di stalking, ma anche i possibili danni che in astratto possono essere sofferti dalla vittima di atti persecutori(19).
In conclusione, ed in attesa delle prime pronunce giurisprudenziali in materia, la dottrina maggioritaria conclude, comunque, per la piena costituzionalità della fattispecie de qua.


Approfondimenti
(1) - Art. 282 bis c.p., Allontanamento dalla casa familiare - "1. Con il provvedimento che dispone l’allontanamento il giudice prescrive all’imputato di lasciare immediatamente la casa familiare, ovvero di non farvi rientro, e di non accedervi senza l’autorizzazione del giudice che procede. L’eventuale autorizzazione può prescrivere determinate modalità di visita.
2. Il giudice, qualora sussistano esigenze di tutela dell’incolumità della persona offesa o dei suoi prossimi congiunti, può inoltre prescrivere all’imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa, in particolare il luogo di lavoro, il domicilio della famiglia di origine o dei prossimi congiunti, salvo che la frequentazione sia necessaria per motivi di lavoro. In tale ultimo caso il giudice prescrive le relative modalità e può imporre limitazioni.
3. Il giudice, su richiesta del pubblico ministero, può altresì ingiungere il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi che, per effetto della misura cautelare disposta, rimangano prove di mezzi adeguati. Il giudice determina la misura dell’assegno tenendo conto delle circostanze e dei redditi dell’obbligato e stabilisce le modalità ed i termini del versamento. Può ordinare, se necessario, che l’assegno sia versato direttamente al beneficiario da parte del datore di lavoro dell’obbligato, detraendolo dalla retribuzione a lui spettante. L’ordine di pagamento ha efficacia di titolo esecutivo.
4. I provvedimenti di cui ai commi 2 e 3 possono essere assunti anche successivamente al provvedimento di cui al comma 1, sempre che questo non sia stato revocato o non abbia comunque perduto efficacia. Essi, anche se assunti successivamente, perdono efficacia se è revocato o perde comunque efficacia il provvedimento di cui al comma 1. Il provvedimento di cui al comma 3, se a favore del coniuge o dei figli, perde efficacia, inoltre, qualora sopravvenga l’ordinanza prevista dall’articolo 708 del codice di procedura civile ovvero altro provvedimento del giudice civile in ordine ai rapporti economico-patrimoniali tra i coniugi ovvero al mantenimento dei figli.
5. Il provvedimento di cui al comma 3 può essere modificato se mutano le condizioni dell’obbligato o del beneficiario, e viene revocato se la convivenza riprende.
6. Qualora si proceda per uno dei delitti previsti dagli articoli 570, 571, 600-bis, 600-ter, 600-quater, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies e 609-octies del codice penale, commesso in danno dei prossimi congiunti o del convivente, la misura può essere disposta anche al di fuori dei limiti di pena previsti dall’articolo 280".
(2) - Art. 572 c.p., Maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli - "Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a otto anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a venti anni".
(3) - C. Cassazione, Sez. VI, Sent. n. 26571 del 27.6.2008, Vaienti, rv. 241253.
(4) - C. Cassazione, Sent. n. 18990 del 29.3.2000, Pellerano, rv. 234625; Sez. VI, Sent. n. 28958 del 3.7.2008, Pala, rv. 240664
(5) - Che deriva dal linguaggio gergale della caccia e letteralmente significa "fare la posta" - n.d.a.
(6) - V. ab orgine "The protection from harassment Act 1997".
(7) - Franco Angeli, Donne vittime di stalking. Riconoscimento e modelli di intervento in ambito europeo, a cura di Modena Group on Stalking, Milano, 2005 (Criminologia).
(8)  Massimo Lattanzi, Stalking. Il lato oscuro delle relazioni interpersonali, Ediservice, Roma, 2003.
(9) - AIPC Editore, "Stalking. Aspetti psicologici, sociologici e giuridici", a cura dell’Osservatorio Nazionale sullo Stalking, Roma, 2009
(10) - In alcuni Stati dell’America, tale fenomeno è conosciuto con il termine di "harassment", da "to harass" cioè tormentare e trova disciplina giuridica dal 2008. In Inghilterra è stata introdotta la disciplina anti-stalking con il Protection from harassment act 1997 dal 2001 (le leggi sullo stalking-harassment disciplinano prevalentemente i casi di genitori particolarmente violenti con i loro figli)
(11) - R. Bricchetti, L. Pistorelli, in Guida al Diritto, n. 10 del 7 marzo 2009.
(12) - R. Garofoli, Manuale di diritto penale, parte generale, Giuffrè 2007.
(13) - R. Bricchetti, L. Pistorelli, in Guida al Diritto, cit.
(14) - E. Marzaduri, in Guida al Diritto, n. 10 del 7 marzo 2009.
(15) - R. Garofoli, Manuale di diritto penale, op.cit.
(16) - A tal fine l’udienza può svolgersi anche in luogo diverso dal tribunale, avvalendosi il giudice, ove esistano, di strutture specializzate di assistenza o, in mancanza, presso l’abitazione della persona interessata all’assunzione della prova. Le dichiarazioni testimoniali debbono essere documentate integralmente con mezzi di produzione fonografica o audiovisiva. Quando si verifica una indisponibilità di strumenti di riproduzione o di personale tecnico, si provvede con le forme della perizia ovvero della consulenza tecnica. Dell’interrogatorio è anche redatto verbale in forma riassuntiva. La trascrizione della riproduzione è disposta solo se richiesta dalle parti.
(17) - R. Bricchetti, L. Pistorelli, op. cit.
(18) -  G. Fiandaca, E. Musco, Diritto Penale, parte generale, cit.
(19) - G. Benedetto, M. Zampi, M. Ricci Messori, M. Cingolati, Stalking. Aspetti giuridici e medico-legali, in Riv. it. medicina legale, 2008, 1, 127.