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La mezzaluna sciita in Medio Oriente

Mito, realtà o confronto geopolitico



Marco De Marchi
Tenente Colonnello,
Ufficiale a disposizione.
Dottorando di ricerca Geopolitica, Geostrategia e Geoeconomia all’Università di Trieste.


1. Introduzione

L’intervento statunitense in Iraq, nel 2003, col successivo abbattimento del regime di Saddam Hussein, ha modificato lo scenario mediorientale, non nel modo, però, che gli strateghi ed i Think Tank conservatori e neocon di Washington avevano previsto e pianificato.
La diffusione della democrazia, effetto della caduta del regime di Saddam Hussein, era stata uno degli obiettivi dichiarati, all’inizio del conflitto, mentre il regime change conseguente avrebbe dovuto essere il segnale per un cambiamento della regione, con maggiore libertà per le popolazioni dell’Iraq e del resto dell’area.
In realtà, le speranze di democrazia e di libertà si sono scontrate con lo scatenarsi di lotte fra le parti sunnite e sciite della popolazione irachena, con la resistenza insurrezionale sunnita, dovuta alla perdita del potere, e la reazione sciita, motivata da voglia di rivalsa e sete di vendetta. A livello regionale, poi, si è intensificata la competizione fra gli Stati dell’area, Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Iran e Siria, principalmente rivolta ad una ridefinizione degli equilibri di potere.
Le elezioni irachene, evento storico nel Medio Oriente(1), hanno provocato, infatti, uno spostamento di potere dall’élite sunnita alla maggioranza della popolazione sciita, con riflessi e reazioni ben di là dello stretto ambito iracheno. La consultazione elettorale ha evidenziato il forte radicamento nella società irachena dei legami tribali e religiosi, rendendo difficile la transizione alla democrazia ed il raggiungimento di un certo grado di sicurezza.
L’ipotesi di base dell’Amministrazione Bush, in merito al processo di democratizzazione, sconta un errore sostanziale circa l’essenza della politica, definita come insieme di relazioni fra individuo e Stato. Nel contesto iracheno, e mediorientale in genere, le specificità etniche e religiose contano moltissimo.
I popoli del Medio Oriente, in special modo quelli dell’area sunnita (Giordania, Arabia Saudita, Siria ed Iraq), intendono ancora la politica come un bilanciamento di potere e di interessi fra comunità ed individuo, fra titolare di diritti/doveri e affiliazione a tribù e clan, prima ancora che cittadinanza di uno Stato specifico. La conseguenza del trapasso di poteri fra comunità è stata molto più importante di quanto immaginato; si è determinato un risveglio degli sciiti in tutta la regione, una rinascita che ha già alterato i rapporti e gli equilibri confessionali in Iraq e sembra estendere i suoi effetti a tutto il Medio Oriente.
Agli occhi del mondo occidentale, agnostico e globalizzato, la divisione religiosa fra le due fazioni mussulmane (quella sciita e quella sunnita) non sembra avere un impatto così rilevante, reputata un fattore di poco conto ed un contrasto religioso fuori del tempo.
In realtà, la conflittualità e lo scontro ancora oggi esistenti nell’Islam, sono tali da influenzare ed essere influenzate dalle politiche e dalle percezioni geopolitiche dei vari Stati mediorientali.
La frattura fra i due gruppi islamici risale al VII secolo e trae spunto dall’originario disaccordo in merito alla persona che doveva succedere al profeta Maometto ed alla modalità di designazione.
Il dissidio, lungo il corso dei secoli, è divenuto frattura e distacco, assumendo sempre più rilievo nella storia islamica; ha dato luogo a concezioni diverse delle leggi e delle pratiche religiose, rompendo per sempre l’unità mussulmana. La separazione della comunità maomettana ha plasmato la storia del vicino Oriente, con una maggioranza sunnita detentrice, da sempre, del potere ed una minoranza relativa sciita posta ai margini.
Gli sciiti, pur formando il 15% di tutti i mussulmani, per distribuzione geografica occupano i punti chiave dello scacchiere mediorientale e centroasiatico; è sciita il 90% della popolazione iraniana, il 70% degli abitanti gli Stati del Golfo Persico e, soprattutto, sono sciiti metà degli abitanti dell’arco che va dal Libano al Pakistan.
A causa della disgregazione dal regime saddamita, si sono rinsaldati i legami culturali, economici e politici fra le comunità sciite mediorientali, prima impediti dalla dittatura baathista sunnita irachena. Dal 2003, migliaia di pellegrini hanno visitato Najaf(2) (ove è situato il mausoleo di Ali) e gli altri luoghi santi in Iraq, con la conseguente nascita di un network di seminari, moschee e legami religiosi che collegano gli sciiti iracheni con tutte le altre comunità dell’area, ed in special modo con l’Iran, asserita potenza tutelare(3).
Il riaccendersi di tali rapporti sta preoccupando le leadership sunnite, le immagini della suprema autorità religiosa iraniana, l’Ayatollah Ali Khamenei, e del religioso libanese Muhammad Hussein Fadlallah, ritenuto la guida spirituale di Hezbollah, sono apparse nel Bahrein, quasi a delineare e ricordare che il Medio Oriente scaturito dalla Seconda Guerra del Golfo, non è maggiormente democratico ma sicuramente è maggiormente sciita.
La reazione dei sunniti non si è fatta attendere: oltre agli scontri ed agli attentati quotidiani fra le due confessioni, in molti Stati islamici si sono avuti gravi incidenti, specialmente in Pakistan. Lo spettro di un più ampio confronto fra i due gruppi religiosi, che potrebbe minacciare la stabilità ed incendiare la regione, è stato prospettato dal re Abdullah di Giordania(4); il sovrano hashemita ha avvertito che una nuova mezzaluna sciita, estesa da Beirut a Teheran, potrebbe modificare e perturbare il Medio Oriente. In una ovvia analogia con il termine geografico "mezzaluna fertile", alludeva alla minaccia di una mezzaluna sciita che dall’Iran, attraverso l’Iraq, si estendeva attraverso gli Stati del Golfo, sino a giungere al Libano, mezzaluna il cui cuore era l’Iran ed i cui satelliti erano le quinte colonne sciite nei vari paesi arabi (quale ad esempio Hizbullah in Libano)(5).
Mezzaluna sciita e distribuzione percentuale degli sciiti nell'area. Fonte: Wikipedia.en
La teoria della "mezzaluna sciita" ovvero dell’emergenza di una sfera religiosamente omogenea, sotto gli auspici della leadership iraniana, nuovo insieme geoculturale occupante un’area chiave della mappa Eurasiatica e nuovo fattore regionale ed internazionale di instabilità(6), sembra raccogliere consensi fra i governanti sunniti che utilizzano lo spettro sciita come strumento per compattare un’opinione pubblica interna divisa e "sovente" ostile.
Secondo i fautori della teoria, gli avvenimenti e le vicende che coinvolgono l’espansionismo iraniano, anche attraverso la minoranza sciita presente nei vari paesi arabi, potrebbero acuire ulteriormente la frattura fra comunità islamiche o, ancora peggio, innescare un conflitto interreligioso, similare alla Guerra dei 30 anni(7) che sconvolse l’Europa nel XVII secolo (dal 1618 al 1648), fra le potenze tutelari delle due fazioni. Gli eventi politici connessi con la "crisi nucleare" iraniana e con il destino ancora non risolto dell’Iraq rinnovano pertanto l’interesse verso la dimensione sciita dell’Islam.
Con il presente lavoro cercheremo di rilevare gli effetti e le reazioni derivanti dalla crescita politica degli sciiti e dell’Iran nello scacchiere mediorientale.
Esamineremo, dapprima, i fondamenti principali della religione islamica, come orientamento e base da cui partire per evidenziare le principali differenze fra l’Islam sunnita e quello sciita.
In secondo luogo, analizzeremo alcuni eventi storici determinanti nella contesa fra confessioni, andando ad analizzare la "teoria della mezzaluna sciita", intesa nelle varie accezioni di espansionismo religioso, di spinta geopolitica iraniana ovvero di lotta per l’acquisizione di diritti in precedenza negati.
L’affermazione della teoria pare funzionale alle esigenze interne degli Stati sunniti ed è connessa con le tensioni geopolitiche nella regione, alimentate dal contrasto saudita-iraniano. L’argomento settario serve per riaffermare la leadership sunnita ma corre il rischio, come profezia autoavverante, di innescare realmente un conflitto regionale.
In tal senso solo l’intervento di un attore esterno, gli Stati Uniti, può concorrere a disinnescare un possibile flash point ben più grave del conflitto israelo-palestinese.


2. Uno sguardo sull’Islam(8)

La religione islamica risulta la seconda religione mondiale, con circa un miliardo di fedeli ed il tasso di crescita più elevato fra tutte le confessioni religiose. L’Islam non è solamente un complesso di principi e credenze religiose: è uno stile di vita che governa ogni aspetto del pensiero e del comportamento del mussulmano.
La diffusione costante di questa religione ha portato alla presenza di fedeli in tutto il mondo; è islamica la maggioranza della popolazione in oltre cinquanta Stati, principalmente nel mondo arabo (dal punto di vista etnico e linguistico) ed in molte altre nazioni non arabe, l’Iran, l’Indonesia (che è il paese islamico più popoloso), il Pakistan, l’India, l’Afghanistan, la Turchia, l’Albania, le repubbliche Centro Asiatiche (ex repubbliche dell’Unione Sovietica) il Bangladesh, il Sudan e la Somalia. In Europa la presenza mussulmana è in continuo aumento, alimentata dagli immigrati di prima generazione, dai loro figli nati nel paese ospite e dai cristiani convertiti.

Stati con popolazione di religione islamica > 10% del totale. Verde scuro: sciiti - Verde chiaro : sunniti. Fonte: Wikipedia.en

Il termine Islam(9) significa sottomissione, deriva dalla stessa radice della parola salaam (pace); è mussulmano, quindi, chi si sottomette a Dio e trova la pace. Maometto, considerato un diretto discendente d’Ismaele, il figlio d’Abramo (Ibrahim), è per i mussulmani l’ultimo ed il più gran profeta di Dio. Nato alla Mecca nel 570 d.c. nella tribù di Quraysh, una delle più influenti ed importanti dell’Arabia preislamica, nel giro di alcuni decenni riuscì ad unificare i vari clan beduini, dando vita ad una nuova religione ed impulso alla creazione di un impero (che, nel massimo del suo splendore, sarebbe arrivato a conquistare la Spagna, estendendosi al Nord Africa ed alle regioni Centro Asiatiche e dell’Asia del Sud-est(10)).
Secondo il racconto islamico, nel 610 d.c. al quarantenne commerciante Maometto fu comandato dall’angelo Gabriele di diffondere la parola di Dio (Allah), poiché l’umanità aveva perso di vista i precedenti messaggi di Dio, riportati dai primi profeti (Adamo, Noè, Salomone, Mosè e Gesù, fra gli altri), necessari affinché gli uomini imparassero a vivere nel rispetto di Dio e si preparassero per il giorno del Giudizio.
Il messaggio affidato a Maometto sarebbe stato l’ultimo giacché, dopo di lui, non vi sarebbe stato nessun altro profeta. L’opera di proselitismo maomettana incontrò subito ostacoli e difficoltà: minacciava i lucrosi traffici gestiti dai mercanti della Mecca; nel 622, infatti, Maometto ed i suoi seguaci, furono scacciati dalla Mecca e fuggirono nella città di Medina. La fuga, il viaggio verso Medina, fu chiamata Egira (hijra - volo). Segna l’inizio del calendario lunare islamico ed è celebrata, ogni anno, col rituale pellegrinaggio (hajj) alla Mecca.
Dopo una serie di battaglie fra le forze dei meccani ed i seguaci di Maometto, con alterni esiti, questi ultimi riuscirono a prevalere nel 630, appena due anni prima della morte di Maometto; conseguentemente, col ritorno alla Mecca, iniziò la fase del consolidamento e dell’espansione della nuova religione.
Morto Maometto, secondo la tradizione beduina, gli anziani delle tribù scelsero, come successore del profeta, Abu Bakr che divenne Califfo (Khalifah "successore del messaggero di Dio"). Il nuovo Califfo unificò le tribù della penisola arabica in breve tempo; alla sua morte, fu nominato Umar ibn al-Khattab. I dieci anni di regno d’Umar segnarono la diffusione dell’Islam in Egitto, in Siria, in Palestina, in Iraq e in parte dell’Iran; l’espansione era inarrestabile: neanche l’uccisione d’Umar, assassinato nel 644, fermò l’ampliamento nelle aree interessate dalla fede islamica. Il successore, il Califfo Uthman ibn Affan estese la nuova religione nell’Africa del Nord, a Cipro, in tutto l’Iran, in Afghanistan, in parte dell’India e del Pakistan.
Nel giro di due secoli, l’Islam si era sviluppato nell’Africa sub-Sahariana, in Spagna, nell’Asia del Sud-Est, in quella Centrale ed in Turchia. In questi anni si consolida la fede islamica, con una progressiva affinazione delle leggi e della teologia. Il contatto con nuove culture e realtà, infatti, avrebbe dato vita al rifiorimento culturale arabo, specialmente dopo l’incontro con la filosofia greca e la cultura indiana. Per quanto attiene lo sviluppo storico, riprenderemo in seguito l’esame delle vicende dinastiche dei Califfi, allorquando esamineremo le divisioni venutesi a creare nell’alveo della fede islamica.

a. I cinque pilastri dell’Islam

Per i mussulmani, sciiti o sunniti che siano, il Qur’an (Corano), che significa recitazione o lettura, è il testo sacro più importante: è considerato letteralmente la parola di Dio ed è la principale fonte della legge islamica, la shari’a. Il Corano riporta le rivelazioni fatte a Maometto da Dio, in un periodo di circa 23 anni prima della sua morte, nel 632.
Altra fonte complementare di guida divina sono gli hadith (chiamati anche sunna) che riportano le massime del profeta, ed i racconti delle sue azioni, così come registrate dagli studiosi islamici dell’epoca e dei periodi successivi.
Il Corano indica cinque pilastri (ibadat), fondamenti della fede, a cui un mussulmano deve adempiere per seguire il giusto cammino: testimonianza, preghiera, digiuno durante il Ramadan, fare l’elemosina ed eseguire il pellegrinaggio rituale alla Mecca.
Particolare enfasi è data nella ripetizione e nell’assimilazione di questi atti nella vita pratica, allo scopo di rendere sempre viva la fede del singolo; l’Islam chiede al fedele di essere attivo nella sua professione di fede e di non rimanere solo un semplice ascoltatore od al massimo un divulgatore.
Prerequisito per lo svolgimento di queste attività è, in ogni modo, lo stato di purificazione spirituale e fisica (abluzioni - purificazione rituale).
In breve, il primo pilastro, come visto, è la testimonianza (shahada), che significa essere partecipi e testimoni della singolarità, della centralità e dell’unicità di Allah (Dio) e del suo profeta e messaggero Maometto. La testimonianza totale durante la vita, con la sincera intenzione di voler seguire quanto indicato dal Corano, rappresenta quanto richiesto per essere un buon mussulmano.
Il secondo pilastro è la preghiera (salat); i mussulmani devono recitare le preghiere rituali cinque volte il giorno (alla sveglia, a mezzogiorno, di pomeriggio, al tramonto e prima della notte). Possono pregare da soli o in gruppi, tuttavia, l’unica preghiera comunitaria obbligatoria è quella del Venerdì.
Le preghiere comuni sono dirette da un imam (letteralmente "uno che sta davanti"); questi può essere una persona istruita nella religione (uno degli ulama, o studiosi islamici) od una persona che è più ferrata od è riconosciuta essere particolarmente pia.
Tutti i mussulmani, non importa dove essi vivono, pregano rivolti alla Mecca, dove è situata la Ka’bah, una struttura considerata come un resto del tempio d’Abramo che simbolicamente rappresenta il segno dell’unità fra tutti i fedeli.
La moschea (masjid) è il luogo dove è svolto il culto collettivo ed ove è contenuta la qibla (o nicchia di preghiera che indica la direzione della Mecca); nell’edificio non sono racchiuse immagini di Dio e del Profeta, proibite giacché considerate segno d’idolatria.
Il terzo pilastro, il Saum, è il digiuno durante il mese sacro di Ramadan. In questo periodo, durante il nono mese del calendario lunare islamico, non può essere ingerito nulla (eccetto i farmaci necessari) fra l’alba ed il tramonto.
Le persone ammalate, i viaggiatori (dipende dal mezzo), i deboli per l’età, le donne incinte o chiunque accudisca ad un malato, non è obbligato al digiuno. La pratica si riconduce alla necessità di testare le proprie capacità di rifiutare le tentazioni e di sottomettersi a Dio, oltre che di consentire ai ricchi di sperimentare le privazioni dei poveri.
In questo periodo si dà particolare rilevanza alla pietà, alla riflessione e all’osservanza religiosa.
La Zakat (elemosina) è la tassa religiosa richiesta a tutti i mussulmani: rappresenta il quarto pilastro islamico, ed è uno dei principali doveri imposti dal Corano.
La Zakat è costituita da una percentuale dei propri guadagni da usare per supportare gli abbisognosi e le necessità della comunità; viene pagata alla fine del digiuno del Ramadan.
I non mussulmani (principalmente Ebrei e Cristiani, conosciuti anche come Popoli del Libro dal momento che condividono una parte della rivelazione) che vivono nei territori islamici non sono soggetti alla zakat; pagano un’altra tassa chiamata jizya.
La jizya è imposta a tutti i cittadini non mussulmani, impositivamente capaci, allo scopo di contribuire al benessere dello Stato. In virtù del pagamento di questa tassa, i non mussulmani possono avere diritti come cittadini, sostegno finanziario, protezione dallo Stato, libertà di praticare la loro fede religiosa e lo stesso grado di giustizia dovuto ai mussulmani.
L’ultimo pilastro dell’Islam è l’hajj, o pellegrinaggio alla Mecca durante il dodicesimo mese del calendario lunare islamico. Ogni buon mussulmano deve eseguire l’hajj almeno una volta nella vita adulta, a condizione che ne abbia le capacità fisiche e finanziarie.
L’hajj consiste nell’osservanza di varie pratiche rituali, che durano una settimana e culminano nell’eseguire sette giri attorno alla Ka’bah. Questo rituale enfatizza il pentimento e l’unità fra tutti i mussulmani, tutti gli uomini indossano la stessa veste bianca non interessando la loro posizione sociale.

b. I tre doveri sociali dell’Islam

Tutti i mussulmani devono soddisfare a tre doveri, inerenti alla società che li circonda: la jihad, chiamare gli altri all’Islam e incoraggiare il bene ostacolando il male. Jihad significa lotta o sforzo (sulla strada di Dio) o lavorare per qualcosa con determinazione(11); non significa in alcun modo guerra santa (guerra in arabo è harb ed il combattimento è qital) e non può essere comparata all’equivalente medioevale delle crociate. Pertanto, diversamente dalla parola crociata ("una guerra per la croce"), jihad per i mussulmani ha conservato la sua connotazione di sforzo per arrivare a Dio(12).
Può essere suddivisa(13) in grande jihad, che è la lotta personale, interna (spirituale) per resistere al male e continuare nel cammino verso Dio, tramite la fede e la devozione, e jihad minore, che è l’atto esterno, fisico, di combattere il male e l’ingiustizia. Una jihad minore, secondo gli studiosi islamici, può essere invocata solamente per tre ragioni:
-  difendere se stessi, la propria famiglia, la comunità mussulmana (ummah), il proprio paese e la propria religione dall’oppressione;
-  eliminare una forza malvagia che sta opprimendo il popolo (liberare il popolo dal tiranno);
-  eliminare gli ostacoli alla libertà di religione e credo oppure rimuovere le barriere alla da’wah ovvero la chiamata all’Islam.
Il mujahid (letteralmente "combattente per Dio") è la persona che s’impegna nella jihad.
La morte, nell’assolvimento di questo dovere, lo fa diventare shaheed (martire) e garantisce il rapido e veloce ingresso in Paradiso, con la cancellazione di tutti i peccati terreni. La parola jihad sta acquisendo un uso diffuso, specialmente dopo le ondate d’attentati suicidi contro i civili in Israele ed Iraq e, in particolar modo dopo il giorno 11 settembre 2001. Le frange estreme dell’Islam sostengono che tali atti sono jihad, i loro esecutori martiri per la causa di Dio. Asseriscono che il solo modo effettivo, ed efficace, di resistere all’oppressione od all’occupazione è attraverso la violenza che, pertanto, costituisce un male necessario.
Un secondo dovere nell’Islam è la da’wah o la chiamata degli altri all’Islam; tale aspetto presenta un duplice significato: di sforzo organizzato di gruppi missionari per diffondere la fede e di testimonianza personale di un mussulmano, verso coloro che lo circondano, affinché si uniscano alla vera comunità religiosa. L’ultimo dovere islamico è anche conosciuto come "incoraggiare il bene ed ostacolare il male"; il bene include l’aiuto ai poveri ed agli orfani, la responsabilità nel governo, il trattamento umano degli animali, l’assistenza agli anziani e disabili. Se un mussulmano dovesse osservare il compimento di un atto malvagio, dovrebbe, comunque, cercare di porre rimedio con le sue azioni od il suo dire; l’Islam richiede che il buon fedele sia proattivo, operi e si faccia promotore della difesa della fede e suo promotore.

c. Le divisioni interne all’Islam

Riprendendo il filo storico delle vicende islamiche, Uthman ibn Affan fu assassinato nel 656 da soldati che consegnarono il trono di Califfo ad Ali ibn Abu Talib, genero di Maometto. I seguaci di Ali ritenevano che il Profeta lo avesse scelto come successore ed erede ed erano in profondo disaccordo con la scelta d’Abu Bakr, d’Umar ed Uthman, come primi Califfi dopo la scomparsa di Maometto. Il potere di Ali durò ben poco, solo 5 anni; il Califfo, la cui posizione era reclamata da un consanguineo del defunto Uthman, Muawiyah, fu ucciso dai Kharjiti(14).
I sostenitori di Ali (Shiah al-Ali o Shiat Ali, partigiani di Ali, gli Sciiti) credevano che egli fosse il vero Califfo e fosse ispirato divinamente. è questo il punto di rottura nella storia islamica. I figli di Ali, Hassan e Husayn, infatti, seguirono come Califfi sciiti. Hassan morì nel 669/670, verosimilmente per avvelenamento, Husayn, invece, ucciso nel 680 dai soldati del rivale Califfo sunnita Yazid.
La disputa religiosa, quindi, sorse a partire dal califfato di Ali; la catena di successioni dei Califfi divenne occasione di divisione politica, iniziando un progressivo distacco ed allontanamento fra i seguaci di Ali, e dei suoi figli e quelli d’Uthman. Quello che era un problema successorio dinastico, evidenziatosi in seguito alla morte del Profeta Maometto (che non aveva figli maschi e non aveva designato eredi) per la scelta del Califfo, creò, invece, la frattura tra la corrente principale dei sunniti e quella minoritaria, degli Sciiti. All’interno delle correnti sciite e sunnite si vennero a formare successive divisioni. Nel contesto sunnita al giorno d’oggi vi sono i Sufi, un nome che deriva apparentemente dai capi d’abbigliamento in lana indossati, che sono una corrente sviluppata attorno a pratiche mistiche e rivelazioni derivanti dalla trance autoindotta; sono presenti in Turchia, Siria e parti dell’Africa.
Altre sette o gruppi staccatisi dal filone principale sunnita sono i Drusi in Libano, Siria, Giordania ed Israele, gli Ibadhiti o Kharjites in Oman e nell’Africa e gli Ahmadiya in Pakistan. Di particolare rilievo, per l’importanza assunta in questi ultimi anni, è la corrente Wahhabita, che deriva da una concezione strettamente ortodossa (alcuni direbbero puritana), fondata nel diciottesimo secolo da un riformatore saudita. Il Wahhabismo continua a dominare l’Arabia Saudita (e l’Oman) ancora oggi, in ragione della fedeltà al fondatore ed agli intrecci dinastici con la famiglia Al Sa’ud, governante il regno. Muhammad ibn Abd al-Wahhab e Muhammad ibn Sa’ud strinsero, infatti, un accordo in cui al-Wahhab avrebbe operato come autorità religiosa e spirituale mentre Ibn Sa’ud sarebbe stato capo politico e massima autorità terrena.
Il movimento wahhabita è contrario a qualsiasi forma di raffigurazione pittorica o scultorea del Profeta e di Dio, prevedendo la rimozione di qualsiasi traccia d’idolatria. La setta indicata è responsabile la distruzione di moschee, santuari e tombe ritenute troppo decorate ed ornamentali, in cui veniva raffigurato il volto del Profeta (presente in alcune moschee sciite); proibisce, inoltre, la venerazione dei Santi (tipica del Sufismo e dello Sciismo) e richiede uno stretto controllo circa la rigida interpretazione del Corano e degli hadith.
Le idee del filosofo del tredicesimo secolo Ibn Taymiyya sono servite come fonte d’ispirazione al Wahhabismo; da notare come Osama bin Laden, il capo carismatico del network internazionale terrorista definito Al Qaida sia di formazione Wahhabita. Le divisioni interne fra gli sciiti, invece, derivano dalle diverse interpretazioni sulla successione dei discendenti di Ali, denominati Imam.
I Duodecimani o Imamiti sono la maggioranza sciita e predominano in Iran; il loro nome deriva dal convincimento che vi sono stati dodici Imam, l’ultimo dei quali ha lasciato il mondo nel 874 d.c., è ancor ancora vivo ma misteriosamente nascosto (occultazione)(15), e si rivelerà appena prima del giorno del giudizio(16).
Gli Ismailiti riconoscono una catena ereditaria d’Imam, susseguitasi fino ad oggi; la loro adorazione è incentrata sul settimo Imam della linea originale Ismail (che non è riconosciuto dalla maggioranza degli sciiti). Praticano una spiritualità tesa alla ricerca del significato letterale del testo scritto. Sono presenti in Pakistan, Afghanistan ed India, mentre in passato la loro presenza era estesa sino a parte del Nord Africa ove, tra il decimo e dodicesimo secolo, governarono l’Egitto come dinastia regnante conosciuta col termine di Fatimidi.
Esistono poi gli Alawiti (in Siria), considerati quasi più sunniti che sciiti, e gli Zayditi (che similmente ai sunniti ritengono i loro Imam essere più umani e fallibili) presenti nello Yemen.


3. Gli Sciiti

Secondo l’autorevole The World Factbook(17), pubblicato annualmente dalla Central Intelligence Agency (CIA), nell’Islam sono presenti circa il 15 % di sciiti, principalmente "duodecimani".
La maggioranza degli sciiti è concentrata in Iran (circa 90% della popolazione), nella Repubblica dell’Azerbaigian (circa 85%), Iraq (60-65%) ed in Bahrein (75%). In Libano è sciita il 45% della popolazione, gruppo religioso più numeroso del paese; vi sono altresì cospicue minoranze sciite in Qatar (circa il 16%), in Afghanistan (circa il 19%), in Pakistan (circa il 20% della popolazione totale), specialmente nell’area di Lahore, in Tagikistan (circa il 5%) ed in India, nelle regioni d’Oudh (Lucknow) e del Deccan (Hyderabad).
Gruppi minoritari di seguaci di Ali sono presenti in Kashmir (in entrambe le zone occupate dagli indiani e dai pakistani) e nelle regioni orientali dell’Arabia Saudita, ove costituiscono la maggioranza della popolazione, in un’area ove sono presenti numerosi campi petroliferi(18).

Tabella



La frattura settaria ha creato differenze fra i gruppi, relativamente alla struttura ed alla "governance" dell’Islam, all’interpretazione della legge ed all’applicazione di alcuni suoi istituti. Gli sciiti duodecimani, la maggioranza della fazione, non differiscono significativamente dai sunniti per quanto concerne le basi dell’Islam; nelle fonti sciite e sunnite, per esempio, i membri della famiglia di Maometto, considerati i più vicini e cari al profeta (sua figlia Fatimah, Ali ed i suoi due figli Hassan e Husayn) sono definiti rispettosamente "Famiglia di Maometto", un termine che dovrebbe includere anche i suoi discendenti(19).
Altri sono gli elementi di contrasto; un primo distacco si ha nel ruolo assunto dagli Imam sciiti che, pur non ricevendo la rivelazione da Dio (come i profeti), analogamente a questi ultimi sono connotati dal possesso dell’attributo dell’infallibilità (fatto contestato dai sunniti).
Nell’Islam sciita, oltre al pagamento dell’elemosina (Zakat), è corrisposta dal fedele un’altra tassa, la Khums, che ha la funzione di sostenere il clero, per garantirne ed assicurarne l’indipendenza finanziaria dallo Stato, permettendo così ai religiosi sciiti un ruolo più attivo nella vita pubblica e politica; il clero sunnita, invece, per la gran parte impiegato alle dipendenze dello Stato, risulta maggiormente controllabile ed influenzabile dal potere costituito.
Nell’Islam sunnita non vi è una gerarchia clericale ben definita per condurre i servizi religiosi ed interpretare le scritture, pur essendovi dei leader della preghiera (Imam) e degli studiosi di religione (Ulama) che conoscono bene il Corano e sono capaci di commentarne i versetti.
I mussulmani sunniti, pertanto, seguono gli insegnamenti e le esegesi degli studiosi, dei giudici e degli accademici, che possono interpretare le leggi, scrivere commentari sulla Sharia o sugli Hadith ed emettere Fatwa (dichiarazioni religiose che servono per illuminare e guidare i fedeli), ma nel complesso non vi è una chiara gerarchia ed un ordine d’importanza, fra studiosi ed esegeti, che possa far intendere la preminenza di un’interpretazione rispetto ad un’altra, delineando una linea ermeneutica e di pensiero uniforme o prevalente.
Gli sciiti, invece, hanno un clero organizzato, con Mullah, che dirigono la preghiera ma non interpretano le leggi religiose, e Mujtahids che sono gli interpreti delle leggi o dei passaggi del Corano e degli Hadith. Il livello più basso dei Mujtahids è formato dagli Hojjatolislam mentre gli Ayat Allah (letteralmente segno di Dio od Ayatollah) rappresentano il livello più elevato, coloro che possono emettere Fatwa, dirigere le scuole islamiche, interpretare le leggi religiose ed il Corano, fare sermoni ed indicare ai fedeli il comportamento da tenere.
Per i duodecimani, l’Imam nascosto opera nel mondo tramite una successione di mujtahids, studiosi che esercitano l’ijtihad (il ragionamento legale indipendente alla ricerca di un’opinione) e gestiscono gli affari della politica e della legge, sino al suo ritorno. Grande disaccordo risiede nell’interpretazione del Corano: i sunniti commentano il testo in maniera letterale (secondo il significato apparente delle frasi), gli sciiti, invece, hanno proceduto maggiormente nella ricerca del significato nascosto del testo, sviluppando un’ermeneutica basata sulla ricerca dello spirito del testo. Oltre a tali difformità, altri aspetti di rottura sono riconducibili alla devozione quotidiana, nella quale gli Sciiti, quasi avvicinandosi ai Cattolici, presentano una forte devozione per i Santi, figure carismatiche di Ayatollah o di fedeli che si tramandano nel tempo.
Un primo elemento di spaccatura è dato dalla pratica della Ta‘ziyyah "consolazione", collegata con la celebrazione di un evento, non festeggiato nel mondo sunnita, l’Ashura, che è la commemorazione del martirio dell’Imam Husayn, provocato dalle armate sunnite a Karbala, in Iraq. La morte tragica di Husayn (nipote del profeta) - dei suoi parenti e seguaci - nella battaglia di Karbala, nel decimo giorno del dodicesimo mese del calendario lunare, è commemorata ancora oggi in tutto il mondo sciita. Durante i giorni indicati, oltre alle flagellazioni ed alle lesioni autoinferte, i fedeli ripetono continuamente, con voce lamentosa per portare gli ascoltatori al pianto, la storia di Husayn, per ricordare la grande ingiustizia sofferta dagli sciiti a causa dei tiranni sunniti e dei non mussulmani. è data grande enfasi al sacrificio della vita di Husayn, quale esempio della propensione sciita al martirio(20).
Le processioni sono state, sempre, occasione per violente azioni di rivolta e, spesso, motivo di scontro con i sunniti; sebbene questi ultimi condannino l’uccisione di Husayn, considerano esagerate le manifestazioni. Un altro motivo di controversia animata fra le due sette è la questione del matrimonio temporaneo (mut‘ah) e della sua ammissibilità, con gli sciiti che accettano l’istituto ed i sunniti, invece, che ne negano l’attuazione. Gli sciiti ritengono la mut’ah prevista nel Corano ed affermano che tale matrimonio, praticato al tempo del profeta, fu abolito dal secondo Califfo Umar bin al-Khattab, che non riconoscono.
Per gli studiosi sciiti, la mut‘ah è un matrimonio a tempo prefissato, con una durata predefinita. Trascorso il tempo determinato, il matrimonio è automaticamente sciolto; per alcuni aspetti tale matrimonio è simile a quello "classico", con la differenza sostanziale che la scadenza è già fissata nel contratto matrimoniale. La durata è stabilita dalla coppia che può trasformare ciò che è il temporaneo in permanente; periodo durante, in ogni caso, le due persone sono a tutti gli effetti marito e moglie. Secondo la legge sciita, in ogni caso, è raccomandato ad entrambi i partner di estendere il matrimonio o di trasformarlo in permanente. La donna, spirato il termine, può risposarsi senza osservare il periodo d’iddah (periodo mestruale dopo il divorzio, durante il quale la donna non può contrarre un altro matrimonio).


Ulteriore stimolo a tale pratica è dato dal fatto che la giurisprudenza sciita non limita il numero di mogli da sposare temporaneamente, giacché all’uomo non è richiesto di doverle mantenere.
La dissimulazione prudente (taqiyyah) è un altro fattore di scontro con i sunniti; la taqiyyah è la dissimulazione della propria fede in caso di pericolo. Non è considerata un atto d’ipocrisia, come invece ritengono i sunniti, poiché è raccomandata dal senso comune, allorquando si deve affrontare un pericolo mortale e salvare la vita. Secondo una tradizione consolidata la taqiyyah sarebbe sempre obbligatoria; è una necessità assoluta per gli sciiti, sino al ritorno del dodicesimo Imam nascosto, il Mahdi.
Secondo Sayyid Husayn Nasr (professore di filosofia islamica alla Georgetown University di Washington)(21), la taqiyyah è una necessità stringente nei casi di pericolo concreto all’onore, alla vita, alla proprietà, e specialmente quando si devono affrontare situazioni senza speranza od oppressioni politiche o invasioni(22). Tale attività, giunta al livello d’arte, nasce dalla necessità per gli sciiti di sopravvivere in mezzo alla maggioranza sunnita o nei paesi non mussulmani.
L’emulazione (taqlid) è l’ultimo oggetto di contrasto con i sunniti; è considerata come l’obbligo di seguire le decisioni legali dei giuristi; nel pensiero sciita, infatti, chi non ha raggiunto il livello d’ijtihad (ragionamento indipendente con riguardo ai problemi giuridici), deve seguire le decisioni di un giurista, il mujtahid.  Di norma ci si rivolge agli Ayatollah, il più anziano fra i quali è chiamato marja‘, anche se comunemente a quei senior ayatollah ci si riferisce col termine marja’taqlid, che significa letteralmente "Sorgente d’Emulazione"(23). Questo è un elemento da tenere in considerazione allorquando vedremo come tale istituto rappresenti uno dei maggiori ostacoli nel tentativo iraniano di prendere la guida del movimento sciita.
Il marja‘, per gli sciiti, è la terza autorità più elevata in campo religioso e politico, dopo il Profeta e gli Imam.
Il conflitto fra sciiti e sunniti ha catturato l’attenzione mondiale solo per i recenti avvenimenti iracheni. Per arabi, iraniani, afgani e pachistani, per citarne alcuni, tuttavia, è una vicenda che si protrae da secoli, con ripercussioni ben più rilevanti di quanto si possa immaginare.
Nel tempo si sono creati pregiudizi e stereotipi sugli sciiti; in Libano, per esempio, le credenze popolari, riportano che gli sciiti hanno la coda, si riproducono troppo prolificamente, sono troppo chiassosi nell’esprimere la loro religiosità e ridicolizzati per la loro mancanza di gusto ed i modi volgari. Nonostante la popolarità politica di Hezbollah, ancora oggi, in Libano gli sciiti affrontano discriminazioni e sono considerati inadatti a rappresentare, seppur maggioranza politica, il popolo libanese.
In Arabia Saudita si narra che sputino nel cibo, fatto che distoglie ed ha dissuaso qualsiasi socializzazione o pranzo in comune fra le due sette; lo stesso stringere la mano ad uno sciita è contagioso. In Pakistan, ancora oggi, gli sciiti sono etichettati col dispregiativo di zanzare.

4. Dal contrasto religioso al conflitto politico

Gli scontri ed i contrasti religiosi hanno costituito una costante nei rapporti sciiti-sunniti, il periodo dell’Ashura ha sempre rappresentato il momento propizio per attacchi alle processioni sciite.
Le relazioni fra le due diverse visioni dell’Islam si possono sostanzialmente riportare al rapporto fra maggioranza (sunniti) e minoranza (sciita) in cui il punto di equilibrio (sempre precario e dinamico) si trova nel bilanciamento fra l’interesse dei detentori il potere a mantenere la presa sulle leve di comando e, dall’altra parte, nella possibilità della minoranza di vedere riconosciute parte delle istanze.
Nell’ambito dei paesi a governo sunnita (confessionale o laico), quindi, qualsiasi elemento perturbante il rapporto di equilibrio delineato assume la valenza di attacco al potere costituito e minaccia all’ordine.
Nel momento in cui il mondo mussulmano è stato decolonizzato ed il nazionalismo arabo ha perso il suo appeal, è fiorito il fondamentalismo e sono riapparse le differenze settarie fra mussulmani(24).
In tale contesto di natura giuridica-sostanziale, si inquadrano i due punti di svolta nel rapporto contemporaneo fra sciiti e sunniti, il 1979 ed il 2003(25).
Nel 1979 l’Ayatollah Khomeini, rientrato in Iran dopo il lungo esilio parigino, dà il via alla rivoluzione islamica, instaurando un regime "teocratico", dopo aver rovesciato la monarchia dei Pahlevi.
La rivoluzione avviene in contemporanea alla ripresa demografica, religiosa e politica degli sciiti dell’area mediorientale(26), innescando una diffusa ansia fra le capitali arabe e cambiando l’equazione di potere fra sciiti e sunniti nei paesi islamici dal Libano all’India.
Sebbene l’Ayatollah Khomeini fosse favorevole all’unità fra i mussulmani, la sua visione dell’Arabia Saudita quale regime impopolare, corrotto e servo degli americani, lo portò a ritenere il regno saudita maturo per la rivoluzione.
Con la successione delle rivolte sciite alla Mecca, nel novembre 1979, seguite da tre mesi di insurrezione nella regione petrolifera di Hasa, viene tentata una prima rivoluzione, fallita, a cui, come contraccolpo segue un forte revival delle dottrine salafite che postulano, tra l’altro, la lotta al nemico vicino (gli sciiti)(27) accanto a quella al nemico lontano (l’Occidente cristiano).
L’espansione verso ovest della rivoluzione islamica, fondamentalmente non riuscita, non trova terreno fertile fra gli sciiti della zona per diversi ordini di ragioni, come vedremo nel prossimo capitolo.
A parte il successo libanese, con la creazione di Hezbollah, tutte le rivendicazioni degli sciiti si sono incanalate sul piano prettamente politico della maggiore rappresentatività.
Uno dei fattori determinanti sono state, soprattutto, le politiche interne delle monarchie del Golfo che, con la forza, dapprima, l’adattamento e la cooperazione(28), poi, hanno cercato di trovare un modus vivendi con le minoranze (maggioranza nel Bahrein) sciite.
L’intervento statunitense in Iraq nel 2003, con le conseguenti elezioni politiche, non ha fatto altro che catalizzare ed accelerare un processo avviatosi negli anni ’90.
Dal punto di vista "domestico", quindi, l’ascesa sciita non rappresenta una novità, risulta essere un consolidato che vede il riconoscimento di interessi (prima che diritti) di una minoranza. La problematica, invece, assume una connotazione diversa, se posta sul piano internazionale e simbolico (iconografica si potrebbe dire).
Un evento con un impatto allegorico formidabile, Baghdad, la sede del Califfato abbaside(29) in mano sciita, la culla dell’Impero islamico sunnita sotto il comando dei seguaci di Ali.
La storia in Medio Oriente conta ancora molto, pensiamo a Roma ed al Vaticano in mano ai Protestanti!
Il fatto che la maggioranza detentrice del potere in Iraq sia sciita, dopo decenni di sottomissione, secondo i sunniti, avvicina prepotentemente al potere, seppur indirettamente, l’Iran, con una serie di reazioni potenzialmente pericolose.
Il risultato dell’azione di Washington(30), pertanto, ha comportato uno spostamento dei problemi dal piano religioso a quello prettamente politico.
L’Iraq è una costruzione artificiale del colonialismo europeo, post prima Guerra mondiale(31), che ha proceduto allo smembramento dell’Impero Ottomano secondo criteri di spartizione geografica e di aree d’influenza.
Gli accordi franco-britannici di Sykes-Picot, del 16 maggio 1916(32), diedero vita ad un Medio Oriente disegnato secondo visioni ed interessi europei, incurante d’etnie, religioni e gruppi tribali.
Le nazioni disegnate sulla carta dagli accordi di Pace di Versailles, Losanna e Trianon erano costruzioni instabili ed artificiose, crollate, spesso violentemente e secondo linee di frattura etnica, non appena venute meno le ragioni di politica internazionale che bloccavano le spinte disgregatrici; per esempio, nel caso jugoslavo e cecoslovacco, una volta conclusa la guerra fredda, finita la rigidità dei blocchi, tipica del sistema bipolare(33).
Non diversamente per l’Iraq, col cedimento del regime dittatoriale che aveva mantenuto unito il paese col terrore, le diverse etnie hanno iniziato a muoversi per conquistare o mantenere il potere, operando, ognuna, con gli strumenti a disposizione e con gli alleati del momento, radicalizzando uno scontro intersettario, con la creazione di due ben distinti gruppi d’interesse fra gli stati dell’area, iraniani e sciiti, da un lato, e giordani, egiziani e sauditi, sostenitori della causa sunnita, dall’altro.
Nei fatti, però, la suddivisione sembra essere, più che un freno all’espansionismo religioso dei seguaci di Alì, un contrappeso alle aspirazioni geopolitiche iraniane, non incentrate sulla religione ma su un nazionalismo persiano ben più importante. La divisione interna all’islam trova un appeal all’interno dell’élites arabe più che fra le masse, ben più interessate e animate dall’avversione agli Stati Uniti ed ad Israele.
Malgrado sia improbabile la costituzione di un fronte comune contro l’asse Washington-Gerusalemme, a causa del peso e dell’ampiezza delle fratture intersettarie islamiche(34), va evidenziato come frange radicali possano, collateralmente al fronte principale, cercare di combattere i due "diavoli", per acquisire meriti ed audience fra le masse arabe.
La storia recente del Medio Oriente ha già visto le due fazioni combattere assieme per un obiettivo comune, negli anni ’20 contro gli inglesi in Iraq e negli anni ’80 contro gli israeliani in Libano (la causa che più ha unito i mussulmani d’entrambi gli schieramenti), pur non cessando il conflitto settario.
Le radici sociali, storiche e politiche del contrasto, che rendono attuale la disputa, non sono mai venute meno, esistono da secoli e negli ultimi decenni si sono politicizzate; la guerra Iran-Iraq negli anni ’80, la brutale repressione dell’insurrezione sciita operata da Saddam a partire dal 1991, la rivalità saudita-iraniana dal 1979, l’alleanza saudita-pachistana-talebana negli anni ’90 e gli enormi investimenti finanziari sauditi nelle infrastrutture dell’estremismo sunnita nell’Asia centrale e del sud, negli stessi anni ’90, sono tutte espressioni di conflitti politici (anche se religiosamente motivati) per la leadership nel mondo islamico.

5. La mezzaluna sciita: mito o realtà

Nell’appurare se la teoria "della mezzaluna sciita" sia quindi un fatto aderente alla realtà, oppure uno slogan avente finalità politiche, dovremo verificare se esiste un unico blocco sciita monolite ed accertare l’effettiva guida di Teheran sull’intero movimento. In altri termini analizzare l’esistenza di un fondamento politico e religioso in merito alla coesione di quanto è percepito come mezzaluna sciita(35).
Sul piano politico i fattori da considerare sono quelli relativi alle politiche interne degli Stati (specie quelli del Golfo), le politiche internazionali, il nazionalismo e l’economia.
A livello di politiche "domestiche" l’elemento catalizzatore delle masse sciite nei paesi dell’area mediorientale non è stato l’Iran, ma le oggettive condizioni interne agli Stati. La discriminazione sofferta dalla minoranza sciita a causa delle élites governanti sunnite è una realtà; il fatto che vi siano state rivolte o tentativi insurrezionali, a parte le ovvie azioni d’influenza dell’intelligence iraniana, non si deve ritenere imputabile direttamente alla Rivoluzione islamica del 1979, come elemento scatenante.
Le oggettive condizioni di "frattura"(36) fra le comunità possono essere state acuite dalla rivoluzione del 1979 e, per altro, proprio la paura dell’estensione delle spinte rivoluzionarie ha funzionato da catalizzatore per le successive politiche di rappacificamento interno a cura dei governanti sunniti(37). A maggior ragione nell’ambito internazionale e delle politiche fra Stati, il fattore sciita non è mai assurto a ruolo di elemento guida della politica iraniana e, di converso, i cittadini di religione sciita hanno dimostrato un notevole attaccamento al loro paese d’origine, contrariamente all’affermazione del presidente egiziano Hosni Mubarak che, nell’esprimere le sue preoccupazioni circa la rinascita sciita, dichiarava che la maggior parte degli sciiti era leale all’Iran e non al proprio paese(38).
La politica estera iraniana, prima e dopo la Guerra del Golfo (1990-1991), è stata basata sempre sulla difesa dell’interesse nazionale, e la carta sciita è stata uno strumento occasionale di influenza. Le vicende scaturite dopo la lunga guerra con l’Iraq, e la morte di Khomeini (1989), hanno portato la leadership persiana a concentrarsi sulle politiche di ricostruzione, abbandonando, ad esempio, gli sciiti iracheni al loro destino ed ai successivi massacri di Saddam Hussein. Questo fatto, unito alla dimensione di rivalità etnica fra arabi e persiani, ed amplificato dal nazionalismo, è indicativo della difficoltà nel ritenere i fedeli sciiti un blocco monolitico.
Il nazionalismo, infatti, è stata la grande forza guida nei rapporti fra Iran ed Iraq; le lunghe e sanguinose battaglie nello Shat El Arab fra sciiti irakeni ed iraniani dimostrano quanto la leva dell’identità nazionale possa fronteggiare la comunanza religiosa.
Nel 1982, nella battaglia di Bassora gli sciiti irakeni dimostrarono la loro fedeltà alla nazione irakena contro il nemico persiano. L’attuale influenza iraniana nelle politiche interne irakene sembra doversi imputare più alla debolezza di Baghdad che all’intrinseca forza di Teheran. Le due nazioni, nonostante i legami di tipo culturale e religioso, infatti, sono divise da significative differenze tra cui la più rilevante è proprio la divisione fra Arabi e Persiani.
D’altro canto neanche il fattore economico sembra così rilevante nell’affermazione del blocco sciita; nel contesto economico regionale, infatti, la gran parte degli scambi iraniani avviene con paesi al di fuori della regione, in particolare (dati riferiti al 2007)(39), l’Iran importa beni per il 40,4% dall’Unione Europea, per il 14,2% dalla Cina ed un 9,1% dagli Emirati Arabi.
A livello di export i dati sono ancora più evidenti: Cina, Giappone, Turchia, Italia e Sud Corea importano il 50,4% dei beni iraniani.
Questi fatti indicano come i paesi dell’area commercino poco con l’Iran, preferendo ad esempio l’Arabia Saudita; per l’Iran lo sciismo non è uno strumento così efficiente di promozione della cooperazione regionale, minata da problematiche di ordine politico ed economico che, tutte assieme, minimizzano la portata della leva sciita.
Il fattore di coesione religiosa è ancor più rilevante nello scardinare la teoria della mezzaluna sciita(40); in particolare, facendo mente locale alle connotazioni dello sciismo, evidenziate in precedenza, rileviamo l’esistenza dell’istituto dell’emulazione (taqlid) ovvero l’obbligo di seguire le decisioni legali dei giuristi ed in particolare dei senior ayatollah a cui ci si riferisce col termine marja’taqlid, che significa letteralmente "Sorgente d’Emulazione".
Ricordiamo che il marja‘, per gli sciiti, è la terza autorità più elevata in campo religioso e politico, dopo il Profeta e gli Imam. Nell’ambito sciita la procedura per addivenire alla "nomina" di marja’taqlid è laboriosa, complicata e richiede l’accettazione da parte dei fedeli. Le condizioni cruciali per la promozione sono una grandissima conoscenza della giurisprudenza (alamiyya), dimostrata con l’insegnamento e le pubblicazioni, nonché un’eccezionale pietà (salahiyya). Per anni il mujtahid cresce nello studio e nella predicazione, raccoglie attorno a sé un consenso informale di fedeli e credenti ed, alla fine, raggiunge una notorietà ed un’affidabilità tali da essere considerato soggetto da emulare.
Dal 1970 diversi Ayatollah sono anche marjaiyyat e, fra questi, il Grande Ayatollah Sistani è quello che trova maggior seguito fra i fedeli sciiti (80% circa); il rimanente 20% segue altri marjas: Hakim in Pakistan, Fayyad a Najaf in Iraq, Khamenei a Qom in Iran e Fadlallah in Libano(41).
Le implicazioni nascenti da questa procedura sono ovvie: innanzitutto vi è la divisione fra le diverse guide spirituali (una Chiesa Cattolica con più Papi), con la suddivisione dei fedeli secondo la diversa considerazione delle Fonti di Emulazione. In secondo luogo la divisione fra fedeli tende a seguire la rispettiva affiliazione ad uno specifico Stato, in terzo luogo vi è l’aumento delle fratture identitarie fra sciiti appartenenti a Stati diversi, ad esempio in Iraq la forza morale dell’Ayatollah Khamenei, guida suprema iraniana, è minima essendo sopravanzata dal carisma dell’Ayatollah Al Sistani (iraniano di nascita).
Un secondo momento di rottura a livello religioso è stato innescato dalla rivoluzione islamica, avendo spostato lo storico equilibrio fra correnti interne allo sciismo dodecimano, ovvero la suddivisione fra le correnti quietiste e quelle più interventiste.
Tradizionalmente, e questa è la posizione di Al Sistani, le correnti quietiste hanno evitato intromissioni religiose nella guida politica degli Stati, pur condizionandole a livello di alta autorità morale. Storicamente i religiosi sciiti, per la gran parte, hanno propeso verso il "quietismo". Con la rivoluzione iraniana, invece, la posizione interventista di Khomeini trova ampio spazio, in special modo attraverso l’instaurazione dell’istituto del velayat e-faqih, il governo attraverso il giurisperito islamico (tutela del giurisperito in persiano).
Il velayat e-faqih è una dottrina ideata da Khomeini secondo cui il giurista musulmano, in quanto esperto della legge, emanata direttamente da Dio, aveva il compito di sovrintendere a ogni azione del Parlamento affinché si conformasse a quella che il giurista stesso riteneva essere la corretta interpretazione della sharia(42).
Con questo sistema il Consiglio dei Guardiani è riuscito nell’intento di bloccare ogni legge che potesse contrastare il potere dei religiosi e dei loro alleati conservatori(43). Nella repubblica islamica, pertanto, la voce ultima su tutto l’impianto politico e legislativo è della Guida Suprema spirituale, Alì Khamenei.
Con la progressiva politicizzazione della religione si è dato l’avvio ad una teocrazia che, nei fatti, non incontra più il supporto popolare e, nemmeno, di molti religiosi. L’espediente della velayat e-faqih di Khomeini è avversato dalla gran parte dei grandi Ayatollah iraniani(44), che vedono una evoluzione degli ideali religiosi verso una dittatura teocratica. Al di fuori dell’Iran, inoltre, proprio la velayat e-faqih, appare l’elemento di maggior distanza con la teocrazia iraniana, laddove le istanze democratiche e di rinnovamento trovano un freno nel timore di perdite della presa sul potere da parte della leadership di Teheran.
Parlare, pertanto, di blocco monolitico sciita, guidato dall’Iran, sembra un po’ azzardato: i contrasti e le divisioni fra gli sciiti seguono logiche nazionali e locali e, sono minimamente, quasi per simpatia, riferibili alla politica iraniana che, come vedremo, non è guidata dalla religione ma dal puro e semplice interesse nazionale.

6. Espansionismo sciita o geopolitica iraniana

Se fosse vera l’ipotesi della mezzaluna sciita, quali sarebbero, allora, i vantaggi per l’Iran nel giocare la carta sciita? Nel breve termine, ed in scala minore, una politica pan-sciita offrirebbe sicuramente alcuni lati positivi, quali il creare delle diversioni dal programma nucleare e rendere difficoltosi i progetti statunitensi in Iraq. Nel medio-lungo periodo, però gli svantaggi sarebbero ben maggiori.
I leader iraniani si sono mostrati consci dei limiti derivanti da tale strategia; in primo luogo tutti gli sforzi per esportare la rivoluzione islamica si sono dimostrati poco efficaci. In secondo luogo l’emergenza di un cosiddetto arco sciita, come denunciato da alcuni governanti arabi, rischia di compattare il mondo arabo ed ostacolare i progetti geopolitici iraniani.
Proprio da questo punto di vista lo scopo ultimo del regime islamico è sempre stato quello di superare la logica del confronto infraislamico, per estendere la tradizionale sfera di influenza oltre il territorio sciita ed arrivare al definitivo riconoscimento dello status dell’Iran(45).
La geopolitica di Teheran parte da una premessa fondamentale che ha influenzato ed influenza costantemente la strategia del paese, ovvero la questione del nodo (per altro irrisolto) delle identità multiple, della costante tensione fra l’elemento nazionalista persiano e l’identità islamica, derivante dalla autopercezione della propria superiorità nazionale, vista attraverso una lunga serie di eventi storici di soggezione e dominio imposto, filtrati attraverso la lente della cospirazione contro l’Iran(46).
Da un lato l’Iran basa le sue rivendicazione di predominanza sul Medio Oriente, in virtù della sua accentuata identità islamica-sciita, dall’altro il nazionalismo iraniano è fortemente esclusivo, allorquando gli iraniani si identificano, pro forma, con i mussulmani in generale e gli sciiti in particolare.
L’identità nazionale iraniana proietta un senso di superiorità sui vicini arabi, di orgoglio per il passato imperiale preislamico, di talché tutti gli eventi ed i prodotti più belli e raffinati della cultura araba, ed islamica in generale, vengono rappresentati quali frutto della capacità persiana(47).
Questa self-image trae spunto dal contrasto tra una grande civiltà stanziale (Iran preislamico) ed una primitiva cultura nomade araba che, nel contempo, seppur inferiore, è riuscita a conquistare e soggiogare il grande Impero.
Analoga contraddizione esiste nei confronti dell’Occidente e della sua cultura; gli iraniani hanno un misto di ammirazione per i risultati conseguiti in settori quali la scienza e le arti, di cui si vantano, nel contempo vi è un senso di rifiuto per la pervasiva influenza nella società iraniana e per le umiliazioni patite a causa delle grandi potenze occidentali(48).
Queste percezioni hanno contribuito a plasmare un forte senso identitario che, di concerto con l’idealizzata teoria della cospirazione contro l’Iran, possono spiegare alcuni tratti della geopolitica di Teheran.
L’Iran poi, come si rileva dall’esame della cartina geografica seguente, rappresenta una vera e propria cerniera, un punto di obbligato passaggio fra Medio Oriente, Asia Centrale e sub continente Indiano.
Forte dei suoi 65 milioni di abitanti (di cui il 22,3% sotto i 14 anni ed il 72,3% da 14 a 65 anni(49)), si presenta sotto molti punti di vista come la potenza regionale emergente(50).
La demografia, la posizione geografica, le risorse e le capacità militari (asimmetriche e non) rendono la Repubblica Islamica un fattore di influenza notevole su tutte le questioni mediorientali.

Cartina topografica dell'Iran. Fonte Wikipedia

Il fatto che l’Iran tenda ad espandersi nella sua area di influenza, reclamando un ruolo di potenza, non è nuovo e né riferibile alla fase storica post 1979, è un fatto storico.
In realtà già dai tempi dello Scià Reza Pahlevi, la politica di Teheran si era indirizzata verso l’estensione della sfera d’influenza, in questo fortemente orientata da criteri storici e politici, quali il costante riferimento alla Persia dell’epoca safavide(51) (1501-1722) quale precedente storico cui rifarsi nella politica di allargamento dell’area d’influenza.
Il concetto di grande Iran riferibile all’epoca safavide, delineato nella cartina sottostante, evidenzia chiaramente una sfera di influenza su un’area, con popolazione sciita, ben più vasta dell’Iran attuale, un’area che nell’ottica anche attuale consentirebbe la sicurezza del paese attraverso il controllo di punti chiave della regione mediorientale, del Caucaso e del passaggio fra Afghanistan (area occidentale) e Pakistan.
 
Area di corrispondente al "Grande Iran". Fonte: Wikipedia
Area di massima espansione safavide. Fonte Wikipedia








Per altro, l’area di massima espansione safavide, con capitale nell’attuale Iraq, giungeva quasi ai confini con la Cina. I motivi storici e culturali (ed iconografici) che possono delineare il perché vi sia in atto una espansione iraniana sono, pertanto, evidenti. Il problema nasce allorquando l’espansione avviene non in un’area priva di interesse alcuno ma in una zona della massima importanza geoeconomica e religioso-culturale, quale il Medio Oriente.


7. La prospettiva di una Guerra dei 30 anni

Il confronto religioso evidenziato sta progressivamente spostandosi sul piano politico-internazionale. Nelle sue linee essenziali è in atto una competizione tra una potenza in ascesa (che vuole in parte sovvertire lo status quo) l’Iran ed una potenza energetica e finanziaria (che vuole mantenere le posizioni acquisite) l’Arabia Saudita, in un contesto di rivalità religiosa ed ideologica.
In questa ambito, difficoltà strategiche americane a parte, l’attuale situazione geopolitica iraniana, per la posizione geografica, gli aspetti demografici, la coesione nazionale, risulta sicuramente migliore rispetto all’Arabia Saudita.
Lo spettro di una Guerra dei 30 anni in Medio Oriente non appare proprio così remoto; non è solo una mera ipotesi di scuola ma anche un’evenienza non del tutto improbabile. La rilevanza della contesa nasce dal fatto che incorpora in sé l’avversione al mondo occidentale, il conservatorismo religioso e l’estremismo, che possono sfociare in un circolo autoreferenziale di violenza.
Lo scenario di uno scontro infrareligioso, dovuto alla crescita sciita, nasce da motivazioni politiche ma, tuttavia, potrebbe trascendere a lotta fra le diverse anime islamiche.
Il più freddo praticante di realpolitik potrebbe arguire che, questo, sia sempre meglio del famoso scontro fra civiltà di Huntington(52), meglio di una guerra fra Islam e Occidente. Un evento di questa portata, tuttavia, non sarebbe certamente gestibile e le conseguenze per la regione ed i rifornimenti energetici potrebbero essere, alla luce del terrorismo internazionale e della corsa al nucleare, troppo pesanti per lo stesso mondo intero.
Nel dicembre 2004, allorquando il Consiglio di Sicurezza dell’ONU incominciò ad affrontare la questione nucleare iraniana, e l’Iraq stava scivolando verso la guerra civile, uno degli alleati più stretti degli Stati Uniti, il Re Abdallah di Giordania, iniziò a paventare la costituzione di una mezzaluna sciita nella regione. Il sovrano hashemita richiamava l’attenzione sul fatto che una vasta area, estesa dal Mediterraneo all’Oceano Indiano, dalle ricche regioni petrolifere del Mar Caspio a quelle ancor più dotate del Golfo Persico, stava cadendo sotto l’influenza sciita ed il fattore più minaccioso era dato dal fatto che il riferimento politico era Teheran, cuore ed anima degli sciiti. Abdullah, unitamente a diversi alti funzionari sauditi, evocava lo spettro di un nuovo Medio Oriente, diviso lungo linee settarie, con aree di scontro l’Iraq, le regioni petrolifere del Golfo Persico, il sud dell’Iran e successivamente l’Azerbaigian.
Un’occhiata alla carta geografica potrebbe suggerire la plausibilità dello scenario delineato; sebbene minoritari nell’Islam, come già detto, gli sciiti rappresentano la maggioranza in aree chiavi del Medio Oriente, quali Libano, Bahrein, Azerbaigian, Iraq e territori orientali dell’Arabia Saudita, aree, per altro, in cui sono presenti notevoli riserve di idrocarburi.

Distribuzione delle risorse di idrocarburi nel Medio Oriente e relativa distribuzione degli Sciiti nell'area. Fonte: PFC Energy consultabile al sito www.PFC.com\home

Se spostiamo la visuale dal piccolo regno di Giordania, si nota come sia circondato dagli sciiti ed il grido d’allarme del suo sovrano non appaia vano.
Gli alawiti al potere in Siria sono una ramificazione sciita ed il regime di Bashar Al Assad sembra incapace di trovare direzioni alternative all’alleanza strategica con l’Iran; in Libano Hezbollah è sempre più forte, l’Iraq è dominato dalla componente sciita e l’unica frontiera tranquilla, paradossalmente, è quella con lo Stato d’Israele. Guardando più ad est, poi, il monarca hashemita non può far altro che vedere minoranze sciite in fermento.
Gli egiziani si trovano a dover affrontare l’organizzazione Hamas, debilitata sì dall’ultimo conflitto con Israele, ma ancora in grado di essere la longa manus iraniana su Gaza e sul territorio dell’Autorità Nazionale Palestinese.
I sauditi, seppur sia in corso una pacificazione nazionale fra sunniti e sciiti, si ritrovano in prima linea, per ovvie ragioni dinastico-religiose, nell’opporsi all’espansionismo iraniano.
Le ragioni dell’élites sunnite, quindi, a prima vista, sembrerebbero pienamente ragionevoli e valide, se non vi fosse il sospetto che nascano dall’esigenza di difendere posizioni di potere radicate, e datate, nel mondo arabo.
La questione da porre, pertanto, è quella di comprendere se il timore rappresentato sia reale, condiviso dai rispettivi popoli, e rifletta preoccupazioni in merito al rafforzamento di Teheran a discapito degli stati arabi, od abbia solo una valenza di politica estera ed interna.
Non c’è una risposta univoca, la storia delle tensioni e fratture fra sciiti e sunniti e fra arabi e persiani è sicuramente un dato di fatto; tuttavia, il sostegno dato dalle masse arabe alla lotta nel sud del Libano, fra gli sciiti ed Israele, nell’estate 2006 (oltre che il ruolo di novello Saladino rivestito dallo Sheikh Hassan Nasrallah, nuovo eroe pan arabo), evidenzia una luce diversa del conflitto settario a livello istintivo, specie in ragione del più sentito contrasto con Israele.
La solidarietà pan-islamica, ha evidenziato come le moltitudini arabe siano indirizzabili più facilmente contro il nemico israeliano che l’una contro l’altra.
La situazione è così dinamica, e le questioni etnico politiche in movimento così veloce, che risulta difficile avanzare facili conclusioni.
Sembra piuttosto che gli allarmi siano diretti agli Stati Uniti, perché evitino di disimpegnarsi troppo velocemente dall’area irakena, evitando, magari, di incaricarsi troppo della democratizzazione della regione.
Lungi dall’affrontare il controverso rapporto tra Islam e democrazia, infatti, l’intervento statunitense ha determinato reazioni a catena in tutti gli Stati della regione; senza guerra in Iraq non si sarebbe avuto il movimento riformista in chiave antisiriana in Libano, in Egitto non si sarebbero avute elezioni (vinte dai fondamentalisti legati ai Fratelli Mussulmani), né la monarchia saudita avrebbe iniziato un progressivo e lento cammino di riforme locali(53).
A partire dal 2003, i governanti d’Egitto, Giordania ed Arabia Saudita hanno ripetutamente considerato l’Iran responsabile del caos in Iraq, ribadendo più volte che Teheran avrebbe esercitato un’influenza considerevole nella regione, se gli sciiti iracheni avessero preso il potere a Baghdad.
L’allarme circa la lealtà degli sciiti è una retorica utilizzata per distogliere l’attenzione delle masse arabe circa le responsabilità dei governi nelle situazioni interne.
L’allarme è funzionale, serve a sottrarsi alle richieste americane di riforme politiche, sulla base dell’assunto che esportare la democrazia nella regione significa rafforzare gli sciiti e l’Iran. L’offensiva diplomatica sunnita, d’altro canto, preoccupa Teheran poiché, superata la retorica, gli iraniani hanno bisogno del sostegno delle masse arabe e della benevolenza dei confinanti, per resistere alle pressioni internazionali in merito al loro programma nucleare(54).
L’Iran ha molto da temere dalla guerra civile in Iraq, poiché elemento che potrebbe catalizzare le forme di dissenso interno degli arabi e dei Curdi, residenti nelle zone occidentali del paese. Retorica d’Ahmadinejad a parte, vi è il timore circa la crescita dei disordini nel paese, dovuta alla presenza di minoranze non sciite né persiane; tale, fatto è confermato dalla nomina di ufficiali della sicurezza ed ex comandanti delle Guardie Rivoluzionarie a Governatori Provinciali(55).
Ci sono, quindi, buone ragioni per interrogarsi circa l’effettività e realtà dei sinistri presagi dei leader sunniti; come abbiamo visto in precedenza, la solidarietà sciita non ha impedito ai militari sciiti iracheni di combattere, aspramente, contro la controparte iraniana, negli anni ’80, così come all’interno dell’Iraq sciita si sono avuti combattimenti fra le milizie rivali di Moqtada al Sadr e le Brigate Badr, appianati solo dall’intervento pacificatore iraniano.
Sauditi e iraniani hanno interessi drammaticamente differenti; il regno wahhabita è ricco ma militarmente debole. La dipendenza militare esterna, per garantire la sicurezza nazionale, infatti, ha generato un’opposizione intensa all’interno del regno. Desert Storm, che stabilì un accordo di base per il dislocamento di truppe occidentali in Arabia Saudita, fu uno dei fattori concorrenti alla creazione di Al Qaeda.

L’Iran non è così ricco, come il regno dei Saud, ma militarmente molto più potente e, nella sua ricerca di posizioni dominanti nel Golfo Persico, punta al controllo ed allo sfruttamento delle risorse petrolifere della regione.
C’è una tremenda asimmetria geopolitica fra Riyadh e Teheran; i sauditi vogliono limitare il potere iraniano, mantenendo al minimo la dipendenza dalle forze militari occidentali. Questo significa che il mantenimento dei prezzi petroliferi ad elevati valori rafforza il benessere saudita ma, nel contempo, aiuta anche gli iraniani. L’abbassamento del prezzo del petrolio, a causa dell’elevata produzione saudita e della recessione in atto, potrebbe essere una prima strategia saudita per danneggiare l’Iran e frenarne le ambizioni.
Il confronto con l’Iran è pericoloso per la stabilità del regno, non solo per le minoranze sciite presenti, bensì per le reazioni delle tribù e della nobiltà che sostiene i Saud; l’incapacità e l’inferiorità militare saudita comporterebbero, in caso di conflitto, la necessità del dislocamento di truppe americane, osteggiato da tutto il clero wahhabita, in grado di portare alle frange più fondamentalisti (se non ad Al Qaeda) non solo ulteriori finanziamenti, ma il supporto politico necessario per rovesciare la dinastia saudita.
Vi sono, inoltre, ragioni storiche ben più radicate che, sovente, sfuggono alla lettura occidentale del mondo, che possono dare altre chiavi di lettura della Guerra dei 30 anni mussulmana; innanzitutto Arabia Saudita e Iran possono essere considerati come "Califfati Virtuali", in lotta aperta, sinora non guerreggiata, per il controllo dell’Islam. La diatriba fra questi due stati si è evidenziata apertamente dopo il 1979, anno della rivoluzione khomeinista (quasi una reminiscenza della rivalità russo-cinese) con una sua logica ed una sua autonomia (incidentalmente potrebbe esistere anche in assenza del conflitto israelo-palestinese), in ragione delle precedenti guerre fredde arabe. Bisogna, quindi, rivedere la storia mediorientale del XX secolo sotto la lente islamica e non con una visione occidentale ed eurocentrica(56). A partire dalla rivolta araba del 1916, di fatto, la storia della regione è stata principalmente la storia di tre successive rivalità. Una prima contesa fra i reazionari sauditi ed i più moderati Hashemiti (1916-1925)(57), per il controllo dei Luoghi Santi dell’Islam (Mecca e Medina)(58).
Una seconda controversia tra gli egiziani pan-arabisti e i sauditi pan-islamisti (1945-1979), per la leadership nel mondo arabo. La terza rivalità fra i sunniti wahhabiti dell’Arabia Saudita e l’Iran sciita (dal 1979 ad oggi) per il controllo della reislamizzazione dell’ummah globale(59).
La posizione iraniana è oggigiorno più solida e stabile; se appena cinque anni fa l’Iran era ancora circondato da un muro di regimi sunniti ostili: Iraq e Arabia Saudita ad ovest, Pakistan e l’Afghanistan talebano ad est oggi i nemici sono diminuiti e la disgregazione del muro sunnita iracheno, con la contestuale rinascita sciita, è vista come una efficace protezione.
L’unico vero contrappeso alla potenza iraniana è dato dalla presenza di uno schieramento di truppe statunitensi attorno ai confini della Repubblica Islamica, fatto che rende pericolosa qualsiasi altra forma di espansione, in considerazioni delle minacce di "regime change" più volte avanzate dagli Stati Uniti(60).
Dispiegamento di truppe statunitensi attorno all'Iran (fonte: Iranian Studies Unit, Center for Strategic Studies-University of Jordan)La scomparsa di Saddam, preoccupazione costante della politica estera iraniana per quasi cinque decenni (a partire alla caduta della monarchia irachena a causa del nazionalismo arabo baathista nel 1958), ha accresciuto il senso di potenza e di sicurezza, l’Iraq aveva contenuto lo Shah e minacciato la Repubblica Islamica.
La guerra Iran-Iraq che ha dominato la prima decade della Rivoluzione islamica Khomeinista, ha devastato l’economia iraniana, lasciando profonde cicatrici nella società.
L’attuale strategia iraniana sembra essere quella di assicurare che l’Iraq non riemerga come minaccia e che il nazionalismo arabo capeggiato dai sunniti, non guadagni consenso.
Teheran vede se stessa come una potenza regionale, il centro dei persiani e della zona sciita d’influenza, che si estende dalla Mesopotamia all’Asia Centrale.
Innanzitutto, però, va rilevato come la strategia iraniana sia orientata in chiave nazionalista più che in chiave religiosa; libera dalla minaccia talebana in Afghanistan e da Saddam in Iraq, l’Iran è restio a cavalcare l’onda del revival sciita, per evitare di danneggiare la sua posizione geopolitica, saldando ai propri confini una alleanza di stati arabi.
I leader iraniani vogliono ritagliare e creare una zona d’influenza persiana, qualcosa di similare al concetto russo del near abroad, e vedono le attività nel sud dell’Iraq come una manifestazione dello status di grande potenza.
Non vi è il sogno khomeinista di governare gli sciiti, l’obiettivo è quello di esercitare un’influenza politica, economica e culturale, analoga a quella svolta nelle regioni occidentali dell’Afghanistan a partire dagli anni ’90.
L’Iran si aspetta chiaramente di giocare un ruolo importante in Iraq, non aspira e non sarebbe capace di trasformare il paese in un’altra repubblica islamica, gli Stati Uniti sono vicini con le loro truppe, ed il rischio di saldare l’alleanza fra Washington ed i rivali governi arabi è troppo forte. In breve, dal punto di vista della Storia islamica il XX secolo è stato il secolo saudita, così come per la storia occidentale è stato il secolo americano; sarà il XXI secolo quello iraniano?
Se l’Iran rinunciasse (forse) alle sue ambizioni nucleari potrebbe essere probabile che l’attuale secolo diventi quello di Teheran. In caso contrario il rischio di proliferazione nucleare nell’area, con Arabia Saudita, Egitto e Turchia probabili e possibili potenze nucleari, potrebbe creare notevoli problemi ed ostacoli alle mire iraniane. Gli Stati Uniti sono il vero cardine per disinnescare la contesa, i sauditi vogliono la loro permanenza in Iraq, con gli iraniani ben desiderosi di approfittare del vuoto di potere, derivante da un veloce disimpegno di Washington.
Sullo sfondo la diatriba sul nucleare di Teheran, capace di dare luogo alla decisione strategica della dinastia Saud e del re Abdullah (succeduto a Fahd nell’agosto 2005), presa a fine novembre 2005, dopo una serie di consigli di famiglia(61), di non permettere, per alcuna ragione che l’Iran diventi una potenza regionale a scapito dell’Arabia Saudita.
Il 5 dicembre 2006, i giornali arabi hanno dato notizia del fatto, ponendo l’accento per la prima volta che il conflitto in corso non è religioso, ma di tipo nazionalistico, fra persiani e arabi(62).
Vali Nasr, del Council on Foreign Relations, ha abbozzato proprio uno scenario di confronto interislamico, che dipende dalla volontà di Stati Uniti ed Iran di normalizzare i loro rapporti imbastendo una politica di normalizzazione e di gestione delle tensioni settarie; secondo l’autorevole studioso: "Se Washington e Teheran non saranno capaci di trovare un terreno comune ed il negoziato costituzionale (in Iraq) fallisse, le conseguenze sarebbero tremende. L’Iraq, nelle due ipotesi estreme, potrebbe al meglio rimanere in tale stato convulso, al peggio cadere in una guerra civile ad ampio spettro e, se l’Iraq collassa, il suo destino potrebbe essere deciso da una guerra regionale. Iran, Turchia ed i confinanti arabi potrebbero intervenire per proteggere i loro interessi ed inserirsi nel pantano iracheno. Il fronte principale sarebbe lo stesso della guerra Iran-Iraq, seguendo poi la linea che corre lungo Baghdad e che separa le regioni sciite da quelle a predominanza sunnita..."(63).


8. Conclusione

L’Occidente ha avuto le sue guerre di religione: la Guerra dei 30 anni, il conflitto nell’Irlanda del Nord, con forme di discriminazioni silenziose e reali, a causa delle differenze religiose. Questi conflitti e rivalità, tuttavia, non sempre sono stati causati da dispute teologiche, essendo, molto spesso, il riflesso di competizioni per l’acquisizione di potere fatte da comunità rivali, con radici in identità religiose diverse. La religione, sovente, è un confine non riguardante Dio e la salvezza, ma serve a plasmare l’identità del gruppo, definendone i confini. Modi differenti di leggere la storia, la teologia e la pratica delle norme religiose, hanno la stessa funzione del linguaggio, della razza nel definire l’identità ed individuare chi appartiene o no al gruppo.
Viviamo in un’epoca di globalizzazione ma, nel contempo, d’identità politiche(64). In una continua espansione e contrazione del nostro universo politico, popoli diversi abbracciano valori universali; popoli, una volta isolati, entrano in un mondo di commerci e comunicazioni mai visti prima. Allo stesso tempo legami primordiali di razza, di lingua, etnici e religiosi fanno sentire la loro presenza in maniera implacabile. è la realtà del nostro tempo ed il mondo islamico non n’è immune. I conflitti d’identità fra fondamentalismo e modernismo, democrazia e autoritarismo, sunnismo contro sciismo, servono come modelli per il futuro. La guerra, la democrazia e la globalizzazione forzano il Medio Oriente ad aprirsi, scardinando le resistenze al cambiamento ed incrementando la conflittualità.
Prima che il Medio Oriente arrivi alla democrazia, sarà necessario aver sistemato i conflitti fra i gruppi etnici, quali i Turchi, i Curdi, gli Arabi ed i Persiani, e, soprattutto, il più ampio e potenzialmente dirompente, quello tra sciiti e sunniti. Come il sopirsi della Guerra dei 30 anni con la Pace di Westfalia (1648) ha segnato il passaggio europeo alla modernità, l’Oriente prossimo dovrà prima arrivare alla pace fra le anime religiose diverse per mostrare il suo potenziale di sviluppo e di crescita. Il fattore che induce speranza è dato dal fatto che i due blocchi non sono monolitici, con seguaci delle due confessioni divisi dalla lingua, dall’etnia, dalla geografia e dalle classi sociali. Tutti elementi in grado di confondersi e confondere le due posizioni, che sono diffuse in un ampio spettro di zone culturale ed una miriade di piccole comunità etniche.
Non esiste una mezzaluna sciita né tantomeno un unico blocco sunnita. Ci sono diverse aree culturali arabe, persiane, indiane, turche, ecc., solo per citarne alcune, ed all’interno di queste successive divisioni etniche e linguistiche.
A rendere più difficile la lettura della contesa, quindi, vi è la difficoltà nel comprendere e chiarire la natura delle relazioni fra centro (Iran) e periferia (dall’Iraq al Pakistan) ed il relativo peso dei fattori religiosi (Sciismo) contro quelli etnici (Persiani) nell’alleanza fra la Repubblica islamica dell’Iran e gli attori non statali quali Hamas ed Hezbollah.
Come altre popolazioni che hanno dovuto vivere accanto, con storie difficili e per lungo tempo, così sciiti e sunniti hanno le loro storie di lotte comuni, d’armonia, amicizia e matrimoni intersettari.
Ad alimentare la speranza vi sono membri del clero come l’Ayatollah Muhammad Asef Mohseni in Afghanistan e Kalb-e Sadeq in India, che predicano la pace settaria e situazioni, al limite del paradossale, come in Iraq dove tribù fra le maggiori, quali la al-Jubouri, Shammar e Tamimi, hanno entrambe membri sia sciiti sia sunniti(65).
La chiave di volta per mantenere la contesa interconfessionale entro limiti religiosi, evitando una radicalizzazione geopolitica, sono gli Stati Uniti.
Il riallacciare i rapporti con la Repubblica Islamica dell’Iran consentirebbe alla super potenza di scompaginare completamente le carte in tavola, modificando rapporti di forza e gli equilibri geostrategici; i precedenti storici non mancano: durante la guerra fredda, l’apertura dell’amministrazione Nixon verso la Cina determinò profondi cambiamenti nell’equilibrio strategico con l’Unione Sovietica; contrapponendo la Repubblica Popolare Cinese alla Russia, non solo sul piano ideologico, ma a livello di competizione geopolitica, Mosca venne ampiamente indebolita(66).
Puntare ad un nuovo rapporto con Teheran consentirebbe di:
1) pacificare l’Iraq;
2) rafforzare l’ala pragmatica e riformista all’interno dell’Iran, dando impulso alle riforme politiche interne;
3) instaurare canali di comunicazione ed aree d’interesse comuni, per gestire le crisi mediorientali;
4) forzare i regimi arabi sunniti ad instaurare politiche di democratizzazione interna;
5) contenere il terrorismo di stampo al qaidista.

Approfondimenti
(1) - In Iran il processo elettorale e le consultazioni popolari sono una realtà ampiamente diffusa, tuttavia le elezioni irakene risultano particolarmente importanti in quanto non sottoposte ai vincoli restrittivi iraniani circa la scelta dei candidati, filtraggio operato attraverso il sistema giudiziario ed il Consiglio dei Guardiani. Sul punto cfr.: R. Takeyh e N.K. Gvosdev, Pragmatism in the Midst of Iranian Turmoil, The Washington Quarterly, nr. 27:4, Autumn 2004, pagg. 33-56.
(2) - A. Al Shahi, Il Mondo Arabo, in I Popoli della Terra, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1969, pag. 17.
(3) - C. Marcinkowsky, Between Greater Iran and Shi’te Crescent: Some Thoughts on the natureof Iran’s Ambitione in Middle East, Working Paper no. 124, Institute of Defence and Strategic Studies, Singapore, 2007.
(4) - R. Wright - P. Baker, Iraq, Jordan, See Threat to Election from Iran. Leaders Warn Against Forming Religious State, Washington Post, 8 dicembre 2004, accessibile al sito www.washingtonpost.com/wp-dyn/articles/A43980-2004Dec7.hmtl;
(5) - C. Marcinkowsky, op. cit., pag 1.
(6) - P. Pahlavi, Shia Crescent (Canadian Force College), articolo on line presentato al ISA’s 49th annual convention, bridging multiple divides, San Francisco, CA, USA, 26 Marzo 2008.
(7) - Guerra dei 30 anni 1618/1648. Fu essenzialmente una guerra di religione tra cristiani di confessioni differenti e, sostanzialmente, l’ultima guerra di religione nella storia europea dell’età moderna. La posta in gioco nel conflitto era l’egemonia sul territorio europeo. Con la sua violenza esasperata pose fine alle guerre di religione e aprì le porte alla tolleranza religiosa. Il conflitto principale si suddivide in 4 fasi: periodo Boemo - Palatino: 1618-1624 - periodo Danese: 1625-1629 - periodo Svedese: 1630-1635 - periodo Francese: 1635-1648 con la Pace di Westfalia. Fu una guerra lunga, di logoramento, con pause e fiammate improvvise. Combattuta da mercenari che non erano pagati puntualmente e quindi saccheggiavano i paesi. Si concluse con i trattati di pace di Westfalia del 1648, preceduti da un congresso diplomatico internazionale, il congresso di Munster/Osnabruck. Con la pace di Westfalia fu sancita la nascita ufficiale del modello politico moderno, riconoscendosi, nel consesso delle nazioni, l’idea della sovranità originaria di uno Stato sul proprio territorio. Sul punto cfr.: M. De Marchi, Il sistema internazionale e la definizione del concetto di ordine, in Rassegna dell’Arma dei Carabinieri, n. 3/2001, pagg. 34/45; R. Palmer - J. Colton, Storia del mondo moderno, Editori Riuniti, Milano, 1985; Grande Dizionario Enciclopedico, Cronologia Universale UTET, Torino, 1995; A. Tenenti, L’età moderna, XVI-XVII secolo, Il Mulino, Bologna, 1997.
(8) - C. Mark. Islam: A Primer, CRS Report for Congress. Congressional Research Service, The Library of Congress, February 2003.
(9) - N.d.A. I termini arabi originari, nella traslitterazione moderna, sono posti in corsivo nel testo.
(10) - A.M. Di Nola, Maometto, Tascabili Economici Newton, Roma, 1996.
(11) - M. Gould, Understanding Jihad, Policy Review n.129, February-March 2005, Stanford University.
(12) - M.G. Knapp, The Concept and Practice of jihad in Islam, Parameters, US Army War College Spring 2003, pagg. 82-94.
(13) - D.E. Streusand, What Does jihad Mean?, Middle East Quarterly, Volume IV: Number 3, September 1997
(14) - Religiosi dissidenti che si erano distaccati dalla corrente islamica principale, poiché rifiutavano l’accettazione da parte di Ali dell’arbitrato per risolvere la disputa sulla leadership, con Muawiyah, N.d.A.
(15) - C. Marcinkowsky, Twelver Shi’ite Islam: Conceptual and Practical Aspects, Working Paper no. 114, Institute of Defence and Strategic Studies, Singapore, 2006, pag. 1.
(16) - N.d.A. Aspetto importante nella visione mistica dell’attuale Presidente iraniano Ahmadinejad, la cui politica estera è incentrata sulla convinzione della prossima venuta del dodicesimo Imam, quello nascosto, sulla necessità di agevolarne il ritorno e, incidentalmente, sull’asserito suo legame con la figura mistica.
(17) - Disponibile on line al sito http://www.cia.gov/cia/publications/factbook.
(18) - C. Marcinkowsky, op. cit.
(19) - La discendenza dalla famiglia di Maometto è ancora oggi considerata prestigiosa e generazioni di mussulmani, d’entrambe le fazioni, hanno speso energie nella ricerca meticolosa dell’albero genealogico che conducesse al Profeta. Sono considerati discendenti diretti del Profeta, Re Abdallah di Giordania e Re Hassan II del Marocco. N.d.A.
(20) - Per Khomeini il martirio di Husseyn rappresentava un monito ed un esempio a cui gli sciiti dovevano rifarsi per la vittoria dell’Islam. A tal proposito basta ricordare, durante la guerra Iran-Iraq, lo sminamento dei campi di battaglia per opera di giovani iraniani che camminavano sopra le mine, cantando ed esaltando il martirio di Karbala. N.d.A.
(21) - C. Marcinkowsky, op. cit.
(22) - C. Marcinkowsky, op. cit.
(23) - In termini giornalistici sarebbero i cosiddetti "grandi ayatollah", come Sayyid Ali Sistani in Iraq (residente a Najaf ma nato attorno al 1930 a Mashhad in Iran) o Khomeini e Khamenei in Iran. N.d.A.
(24) - V. Nasr, The Shia Revival: How Conflicts Within Islam Will Shape the Future, W.W. Norton & Company, Inc., 2006, pag. 17-29.
(25) - M. Terhalle, Are the Shia Rising, Middle East Policy, Vol. XIV, No. 2, Summer 2007, pag. 69.
(26) - P. Pahlavi, op. cit., pag. 4.
(27) - Ibidem.
(28) - M. Terhalle, op. cit., pag. 71.
(29) - La dinastia califfale degli Abbasidi governò il mondo islamico dalla sua sede di Baghdad (e, per alcuni decenni, da quella di Samarra) fra il 750 ed il 1258. Sul punto cfr.: Grande Dizionario Enciclopedico, Cronologia Universale, UTET, Torino, 1995.
(30) - Ben diverso da quello pianificato, lampante dimostrazione di non linearità, di complessità ed applicazione della Teoria del caos alle relazioni internazionali, sul punto cfr.: D. S Albverts - T. J. Czerwinski, Complexity, Global Politics, and National Security, National Defence University, Fort Mc. Nair, Washington,1997.
(31) - D. Fromkin, Una pace senza pace, Rizzoli, Milano, 1992.
(32) - L’accordo di Sykes-Picot del 16 maggio 1916 fu stipulato fra i governi della Gran Bretagna e della Francia per definire segretamente, dopo la fine della prima guerra mondiale, le loro rispettive sfere d’influenza e di controllo sul Medio Oriente, in particolar modo sui territori fra la Siria e l’Iraq.
L’accordo fu negoziato nel novembre 1915 dal diplomatico francese François Georges-Picot e dal rispettivo britannico Mark Sykes.
Alla Gran Bretagna fu assegnato il controllo delle zone comprendenti approssimativamente la Giordania, l’Iraq ed una piccola area intorno a Haifa. Alla Francia fu assegnato il controllo della zona sud-est della Turchia, la parte settentrionale dell’Iraq, la Siria ed il Libano.
La zona, che in seguito fu riconosciuta come Palestina, doveva essere destinata ad un’amministrazione internazionale coinvolgente la Russia e altre potenze. Sul punto cfr.: D. Fromkin, op. cit.
(33) - M. De Marchi, Il sistema internazionale e la definizione del concetto di ordine, in Rassegna dell’Arma dei Carabinieri, n. 3/2001, pagg. 34/45.
(34) - E. Karmon, Radicalization of the Sunni-Shi’a Divide: from Pakistan and Afghanistan to Iraq, Lebanon, and the Gulf, Sixth Annual International Conference on Global Terrorism, Institute for Counter-Terrorism (ICT), Herzliya, Israel, September 11-14, 2006.
(35) - M. Terhalle, op. cit., pag. 70.
(36) - Le fratture socio-politiche e storiche rappresentano secondo un politologo svedese, Rokkan, alcune costanti storiche nella formazione di gruppi politici, che le utilizzano come momenti di riaffermazione della propria identità e natura. Sul punto cfr.: S. Bartolini, M. Cotta, L. Morlino, A. Panebianco, G. Pasquino, Manuale di Scienza della Politica, Bologna, Il Mulino, 1986, pag. 232.
(37) - M. Terhalle, op. cit., pag. 73.
(38) - M. Terhalle, op. cit., pag. 71.
(39) - Fonte: CIA The World Factbook.
(40) - M. Terhalle, op. cit., pag. 75.
(41) - M. Khalaji, The Last Marja: Sistani and the End of Traditional Religious Authority in Shiism, Washington Institute for Near East Policy, Policy Focus Nr. 59, September 2006, pag. 7.
(42) - R. Jahanbegloo, Who is in Charge in Iran, in Unveiling Iran, Heartland -Eurasian Review of Geopolitics, nr. 4, anno 2005, pagg. 6-13.
(43) - Per questo motivo i governi riformisti non hanno mai avuto in Iran vita lunga ed effettiva azione di guida giacché bloccati dal controllo ultimo della Guida Suprema. N.d.A.
(44) - M. Terhalle, op. cit., pag. 76.
(45) - C. Marcinkowsky, Between Greater Iran and Shi’te Crescent: Some Thoughts on the natureof Iran’s Ambitione in Middle East, Working Paper no. 124, Institute of Defence and Strategic Studies, Singapore, 2007.
(46) - C. Marcinkowsky, op. cit. Bisogna ricordare eventi traumatici per l’identità persiana quali la sottomissione agli arabi e, più recentemente, la spartizione del Paese in zone di diretta influenza britannica e sovietica e, ancor più recentemente, il colpo di stato ai danni di Mossadeq, nel 1953, ordito dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna.
(47) - S. Bar, Iran: Cultural Values, Self images and Negotiation Behaviour, The Institute for Policy and Strategy (IPS), Diplomacy and Strategy at the Interdisciplinary Center Herzliya, 2004.
(48) - S. Bar, op. cit.
(49) - L’aspetto demografico iraniano andrebbe esaminato alla luce della teoria della youth bulge, elaborata dal sociologo tedesco Gunnar Heinsohn (2003), asserente che un eccesso di giovani adulti maschi nella popolazione, prevedibilmente, dovrebbe condurre ad agitazioni sociali, guerre, terrorismo, allorquando i terzi e quarti figli, nel momento in cui non riescono a trovare posizioni di prestigio nella società esistente, razionalizzano il loro impeto lottando ed utilizzando la religione o le ideologie politiche, come strumenti. N.d.A.
(50) - CIA, The World Factbook, ed. 2008.
(51) - L’importanza dell’Impero Safavide nella formazione politica e culturale iraniana è fondamentale; La dinastia safavide era originaria dell’Azerbaigian, con i Safavidi, che erano sciiti, la Persia divenne la più grande nazione sciita del mondo musulmano (posizione mantenuta dall’Iran moderno), e visse il suo ultimo periodo come potenza internazionale. Sul punto cfr.: Grande Dizionario Enciclopedico, Cronologia Universale, UTET, Torino, 1995, voce Impero Safavide.
(52) - S.P. Huntinghton, Lo scontro delle civiltà ed il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 1997
(53) - In Arabia Saudita, nonostante il clero wahhabita ed i proclami contro l’eresia sciita, la monarchia ha scelto di iniziare a riconciliarsi con i suoi sudditi sciiti, allentando alcune restrizioni poste in precedenza
(54) - P. Buongiorno, Arabia e Iran: scontro totale, Panorama nr. 1, 4 gennaio 2007, Mondadori, Milano.
(55) - P. Buongiorno, op. cit.
(56) - T. Corn, Clausewitz in Wonderland, Policy Review, Hoover Institution, Stanford University, Web Special, September 2006, disponibile al sito www.policyreview.org.
(57) - R. Palmer - J. Colton, Storia del mondo moderno, op. cit.
(58) - Curiosa l’assonanza, nella versione originale in inglese, fra Holy Sites and of the Oily Land, dove nasce spontaneo confrontare i luoghi Santi dell’Islam e la terra del petrolio, evidenziandosi così la vera e non troppo nascosta ragione economica di contrasto fra gli iraniani ed i Saud. Sul punto: T. Corn, op. cit
(59) - T. Corn, op. cit.
(60) - M. Zweiri, The Summary on Iran, Iranian Studies Unit, Center for Strategic Studies-University of Jordan, Amman, Issue No. 1, May, 2007.
(61) - P. Buongiorno, op. cit.
(62) - P. Buongiorno, op. cit.
(63) - V. Nasr, The Shia Revival: How Conflicts Within Islam Will Shape the Future, W.W. Norton & Company, Inc., 2006, pagg. 17-29
(64) - è un periodo in cui sempre più si esaltano i concetti e la visione di Gottmann, la contrapposizione fra circolazione e iconografia, elementi di un continuo confronto dialettico, capaci di spiegare le tensioni e le reazioni innescate dalla globalizzazione. N.d.A.
(65) - V. Nasr, op. cit.
(66) - Paradossalmente l’indebolimento russo e le aperture statunitensi hanno consentito il risveglio del potenziale enorme cinese, facendo diventare la Repubblica Popolare il prossimo peer competitor degli Stati Uniti. NdA.