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Libri

NOVITÀ EDITORIALI
 
Pietro Grasso
Alberto La Volpe

Per non morire di mafia

Ed. Sperling & kupfer, 2009, pagg. 312, euro 18,00

Il Co-Autore, che non ha bisogno di presentazioni, risponde alle innumerevoli e puntuali domande poste dal noto giornalista Alberto La Volpe (già Sottosegretario di Stato al Ministero dell’Interno) ripercorrendo le tappe più significative (quasi un amarcord) delle proprie esperienze professionali (Pretore a Barrafranca  EN, Giudice a latere al maxiprocesso, Consulente a due Commissioni Antimafia, Procuratore Aggiunto presso la Procura Nazionale Antimafia, Procuratore capo di Palermo, Procuratore Nazionale Antimafia). Nello svolgersi dei vari quesiti, intessuti anche con simpatici aneddoti, il Dott. Grasso illustra sinteticamente, con un metodo chiaro e piano, le principali vicende di mafia, a partire dalla strage di Portella della Ginestra, descrivendo le diverse forme di criminalità organizzata presenti nel nostro Paese, fino ad indicare ed auspicare le possibili linee di soluzione. Durante il periodo in cui l’Autore ha svolto l’incarico di Giudice a latere del maxiprocesso, si è potuta apprezzare, oltre la evidente competenza tecnicogiuridica, la grande capacità organizzativa acquisita anche attraverso l’analisi dei primi analoghi dibattimenti, costituendo un vero e proprio laboratorio sperimentale che poi, nei fatti, si è trasformato in un autentico successo dello Stato. Nel libro, è ricordato il rapporto, non solo professionale, avuto dall’Autore con il Giudice Falcone. Il Dott. Grasso, sviluppando il ragionamento attorno alla logica del sistema mafioso, esprime una serie di ragionamenti che partono dall’intreccio perverso mafiapolitica, alla capacità del sistema criminale di sapersi adattare ai mutamenti della società (da mafia rurale al business dell’edilizia  anni ’70 sacco di Palermo  alla droga  escalation fatti di sangue), alla costante individuazione del vero potere che gestisce risorse, forza che non ha colore politico, ma che ricerca chi in quel momento ha in mano il concreto potere. Particolare sviluppo è dedicato alla stretta relazione tra mafia e appalti, quindi, non solo pizzo, ma controllo diretto degli appalti attraverso la gestione illecita dei comitati d’affari. Significativi, al riguardo, sono i molteplici obiettivi della mafia in materia di appalti, compendiati anche in atti parlamentari che riferiscono come sia rilevante la funzione di “lucrare tangenti, collocare mano d’opera, far acquistare le forniture alle ditte amiche, controllare gli aspetti essenziali della vita politicoeconomica del territorio”: sono l’essenza del perverso sistema criminale. Il Procuratore Nazionale evidenzia che Cosa nostra, attraverso le stragi, ha voluto sbloccare una fase politica stagnante e agevolare l’ascesa politica di altri soggetti (nuovi o esistenti): per questo la mafia ha rappresentato una convergenza di interessi, portatrice di interessi propri e di terzi che hanno armato la sua mano (omicidi Mattarella e La Torre). La mafia non è antistato, né agisce nel vuoto lasciato dallo Stato: è contro e dentro lo Stato. Grasso riferisce che, dopo le catture eccellenti, Cosa nostra è tornata alla compartimentazione (famiglie, mandamenti) ed al sistema della sommersioneinabbissamento. Ricorda, sinteticamente, ma in modo emblematico, numerose indagini, tutte interessanti e ricche di spunti, fra cui emerge la proiezione internazionale della mafia (ad es.: da una intercettazione si apprende, dopo la caduta del muro di Berlino, che un mafioso catanese è stato inviato oltre cortina per investire in immobili ed attività. Siamo di fronte ad una mafia che passa da organizzazione criminale a sistema criminale integrato). Non mancano i riferimenti in materia di riciclaggio ove è sottolineata la contaminazione fra economia legale ed illegale attraverso la creazione di camere di compensazione costituite nei paradisi fiscali esteri. Da qui la necessità di combattere i paradisi offshore. La mafia, oggi, tende a rendersi invisibile, infiltrando i settori dell’economia legale, rinunciando alle azioni cruente. Sottolinea l’Autore, con avvertito sforzo, che la vera lotta alla mafia deve passare necessariamente attraverso la ricostruzione della democrazia con tutte le sue componenti istituzionali e sociali, compresa la rieducazione dei giovani alla cultura della legalità. Sono tanti gli auspici che Grasso formula: T.U. organico sulla normativa antimafia che è frutto dell’ottica dell’emergenza, la previsione espressa del reato di concorso esterno nell’associazione mafiosa, la creazione di una white liste di imprese virtuose, che sottoscrivono protocolli di legalità e la creazione nuova struttura centrale di coordinamento per attività d’indagine su terrorismo e C.O.

Col. Francesco Bonfiglio



Anna Maria Casavola

7 ottobre 1943. La deportazione dei Carabinieri romani nel Lager nazisti

Studium editore, 2008, pagg. 220, euro 16,00

La professoressa Anna Maria Casavola, collaboratrice appassionata del Museo Storico della Liberazione di Roma e storica dell’ANEI (Associazione Nazionale Ex Internati), ha dato alle stampe un lavoro di chiaro interesse che focalizza l’attenzione su di uno dei momenti più difficili per l’Arma dei Carabinieri Reali: il 7 ottobre 1943. La data ha un valore particolare nella storia dell’Istituzione: si tratta del giorno in cui una parte importante di militari dell’Arma di Roma, ufficiali, sottufficiali, carabinieri e allievi fu catturata per essere avviata nei tristemente noti lager per IMI (Internati Militari Italiani), un eufemismo usato dai Tedeschi per non riconoscere legittimamente lo status di prigioniero di guerra ai soldati italiani e consentire a questi di essere protetti dalla bandiera del Comitato Internazionale di Croce Rossa.
I circa duemila e cinquecento carabinieri deportati in Germania rappresentano idealmente il prologo della deportazione, molto più nota, di oltre mille ebrei il 16 ottobre successivo. Italiani dopo Italiani. Il testo è strutturato su una prefazione a firma del professore Antonio Parisella, Presidente del Museo Storico della Liberazione di Roma, una introduzione del generale Max Giacomini Presidente dell’Associazione, una postfazione del colonnello Giancarlo Barbonetti, Capo Ufficio Storico del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri e quattro intensi capitoli che ripercorrono le fasi drammatiche che precedettero e seguirono le fasi della cattura sino al rientro in Italia al termine della lunghissima fase di internamento. I quattro capitoli “Il disarmo e la cattura dei carabinieri il 7 ottobre 1943, Una Resistenza senz’armi, Lager e dopo Lager, L’Arma dei Carabinieri e la Repubblica di Mussolini” ricostruiscono con attenzione e seguono con uno stile narrativo romanesco che coinvolge attivamente nella lettura tutte le varie fasi. In particolare il primo e il quarto capitolo si soffermano particolarmente sull’Arma dei Carabinieri nei mesi di settembre e ottobre 1943 con particolare riferimento alla città di Roma e al breve ruolo svolto dai Carabinieri nelle funzioni di pubblica sicurezza nella “Città Aperta” di Roma; il quarto capitolo riprende la narrazione degli eventi per i militari che erano riusciti a sfuggire alla cattura dell’ottobre 1943 e a costituirsi successivamente nella Banda Caruso poi Fronte Militare Clandestino di Resistenza dei Carabinieri all’interno del Fronte Militare Clandestino. Inoltre, si affronta anche un altro aspetto significativo: la sostituzione dei Carabinieri con la Guardia Nazionale Repubblicana a riprova della sempre malfidata fiducia riposta dal Partito Fascista Repubblicano e più in generale dalla Repubblica Sociale Italiana nell’Istituzione che da sempre associava al proprio nome l’aggettivo più stringente, dalla fondazione del Corpo sino al Referendum istituzionale del 2 giugno 1946, di Carabinieri Reali ovvero che afferiscono al Re non in quanto capo dello stato ma quale sua diretta e più immediata dipendenza e che ben si distingue dall’aggettivo Regio, ovvero che appartiene allo stato. I Carabinieri Reali di Roma pagarono anche per altre cause: l’arresto e parte della detenzione di Mussolini, le presunte responsabilità per la morte di Ettore Muti, la partecipazione di reparti della Legione Allievi e della Legione Territoriale di Roma alla difesa della Capitale a fianco dei militari della Divisione “Granatieri di Sardegna” e dei “Lancieri di Montebello” e di altri reparti, con un generoso tributo di sangue. Tutti questi elementi, uniti alla sfiducia della RSI verso l’Arma “benemerita”, costituirono le motivazione di una sentenza il cui appello fu avanzato da coloro i quali, IMI sottoposti a minacce e lusinghe, rifiutarono l’adesione alla RSI e da coloro i quali parteciparono nel Corpo Volontari della Libertà e nel Corpo Italiano di Liberazione alla sconfitta della Germania nazista.
Per questi e per tanti altri motivi, il testo della professoressa Casavola merita di essere letto.

Ten. Col. Flavio Carbone



Carlo Desogus Zuncheddu
Luigi Suergiu Caredda

Processi e sentenze nel Regio Consiglio Selargius 1700 - 1800

Edizioni Grafica del Parteolla, 2008, pagg. 299, euro 18,00


Il volume sintetizza il paziente e lungo lavoro degli autori che si sono concentrati sulla comunità di Selargius e sulle attività giudiziarie del Regio Consiglio. Attraverso la lente della giustizia lungo l’arco di circa due secoli, gli autori hanno posto in risalta i comportamenti e i costumi del tempo mettendo in luce alcuni lati meno noti della società sarda del XVIII e XIX secolo. Ci sarebbe da chiedersi quali sono i motivi per cui un lavoro del genere, sicuramente importante per la storia locale, possa essere così interessante per presentarne una recensione in questa sede. I due autori, grazie al prisma giudiziario, fanno emergere anche un aspetto che può suscitare un particolare interesse: l’azione delle forze dell’ordine del periodo considerato e, in particolare, dei dragoni di Sardegna, dragoni leggeri di Sardegna, Cacciatori Reali di Sardegna e Cavalleggeri di Sardegna: tutti corpi poi confluiti in quello dei Carabinieri di Sardegna, a sua volta assorbito nella riorganizzazione dei Carabinieri Reali a seguito dell’Unità d’Italia, avvenuto con r.d. 24 gennaio 1861. Gli elementi che emergono dall’opera di Zuncheddu e di Caredda sono i seguenti:
la ribalta del mondo sociale e culturale, lavorativo e religioso di una comunità sarda;
le feste e i rituali, talvolta magici che incarnano usanze e tradizioni locali;
l’emersione dei fenomeni criminali principalmente concentrati su attività che si potrebbero definire di “microcriminalità” che, in realtà, nascondono una vita di miserie e di privazioni causate soprattutto dall’assenza o scarsità di lavoro e dalle prevaricazioni dei potenti del momento;
la presenza costante e attenta delle forze dell’ordine. In particolare, il sindaco di Selargius che firma la presentazione parla della “Presenza inflessibile e oppressiva dei Dragoni reali”. Sulla base della documentazione che è stata usata per la realizzazione di tale volume, più che una presenza oppressiva dei dragoni reali, si può osservare una presenza costante dello stato nella sua accezione peggiore, ovvero come organismo supremo pronto a punire e non a prevenire. Nel testo emerge una militarizzazione della società attraverso i baraccellari, ad esempio, o con un controllo del territorio continuo e condotto da differenti organismi e non solo di polizia. Gli autori presentano anche il lavoro quale frutto di una ricerca attenta condotta principalmente presso l’Archivio di Stato di Cagliari, ma non solo. Con il volume in oggetto, si è scelto di rappresentare anche un aspetto meno noto e più o meno volutamente rimosso: il lato oscuro della società locale, quello più scabroso ma non meno importante e utile a rappresentare vicende, personaggi e consuetudini di una parte della società sarda tra due secoli. La giustizia del tempo non perdonava. A mero titolo esemplificativo, basti ricordare che il 24 maggio del 1729, tale Antonio Vincenzo Perra, reo di rapina, fu condannato “a morte e che con la corda di canapa appesa al collo sia trascinato al luogo del supplizio e qui legato per il collo sospeso in alta forca fino a che naturalmente sarà morto, e l’anima sia separata completamente dal corpo, dopo che il suo cadavere sarà strappato inutilmente dalla forca sia troncata la testa dal corpo e venga infissa sulla sommità del palo di legno, eretto nello stesso luogo del supplizio affinché questa pena sia d’esempio per tutti i rapinatori” (pag. 177). Emerge, in definitiva, un sistema di Antico Regime, con un fortissimo controllo sociale assecondato dalla presenza delle forze dell’ordine, delle forze armate e di qualsiasi organismo che aveva funzioni di vigilanza all’interno di una società contadina e priva di spinte di crescita sociale come quella sarda tra il XVIII e il XIX secolo.

Ten. Col. Flavio Carbone


Giovanna Tosatti

Storia del Ministero dell’Interno - Dall’Unità alla regionalizzazione

Il Mulino editore, 2009, pagg. 339, euro 26,00

Giovanna Tosatti ritorna ad affrontare l’impegnativo tema della storia dell’organizzazione del Ministero dell’Interno. L’autrice, che aveva già analizzato l’evoluzione della struttura ministeriale alcuni anni fa (Il Ministero dell’Interno, Il Mulino, 1992), presenta un nuovo lavoro tra i più complessi: la storia del Ministero dell’Interno grazie allo studio dell’organizzazione e attraverso gli uomini che svolsero la loro attività nell’organizzazione centrale o periferica del ministero è possibile tratteggiare la storia d’Italia, appunto, dall’Unità alla regionalizzazione.
La Tosatti struttura il suo libro su sei capitoli, un’appendice e l’indice dei nomi. I capitoli seguono l’evoluzione temporale degli avvenimenti: nei primi anni del Regno (18611876), la sinistra al potere (18771900), dall’età giolittiana al fascismo (19001922), il periodo fascista (19221945), gli anni della transizione (19431947) e l’ultimo capitolo intitolato dal centrismo alla regionalizzazione (19471970). Lo sforzo di ricostruire circa centodieci anni di storia del Ministero assume un particolare valore poiché, attraverso l’evoluzione di alcune figure istituzionali come quella prefettizia, è possibile rileggere le questioni generali della storia del nostro Paese. Non mancano, neppure gli approfondimenti sulla sanità e sulla salute pubblica sino allo scorporo della direzione generale della sanità pubblica che era stata parte così significativa della commistione  sempre all’interno del ministero  di differenti professionalità quali ingegneri, medici, avvocati che erano cresciuti nella scambio continuo di esperienze, assumendo capacità trasversali di gestione della cosa pubblica.
Inoltre, l’autrice pone in attenta analisi sia la direzione generale dell’amministrazione civile, sia la direzione generale della pubblica sicurezza che ebbero compiti distinti ma estremamente significativi nell’evoluzione dello Stato in Italia. La prima si curò del rapporto centroperiferia attraverso l’attività condotta dai prefetti sui sindaci e in generale sulle amministrazioni locali, mentre la seconda curò la gestione delle problematiche dell’ordine e della sicurezza pubblica. La svolta nelle attività della direzione generale per la pubblica sicurezza si ebbe senza dubbio nell’età giolittiana, durante la quale lo statista di Dronero credette necessario appoggiare le iniziative che orientarono la nascita della polizia scientifica in Italia attraverso le esperienze di Salvatore Ottolenghi e del suo assistente Giovanni Gasti. I corsi condotti da Ottolenghi divennero ben presto obbligatori per i funzionari della pubblica sicurezza e questo consentì una crescita repentina delle capacità di svolgere indagini tecniche estremamente significative sotto il profilo delle attività di polizia giudiziaria rispetto al passato. L’Italia di Ottolenghi divenne un riferimento nel panorama europeo di quegli anni e non solo grazie allo sforzo dei funzionari che portarono avanti la rivoluzione della polizia scientifica, con l’appoggio del direttore generale dell’epoca, Leonardi, ma soprattutto di Giolitti stesso che aveva inteso seguire da vicino le vicende connesse con il miglioramento delle attività d’indagine, includendole in un programma più vasto di miglioramento delle attività della pubblica sicurezza. Tra i tanti aspetti analizzati dalla professoressa Tosatti, si crede necessario portare all’attenzione di chi legge uno dei periodi più complessi per la storia d’Italia, ovvero la fase di transizione del Paese dal fascismo alla Repubblica. In tale periodo, l’attività ministeriale di epurazione dei funzionari maggiormente compromessi con il fascismo e soprattutto nella prima fase, fa emergere che una parte significativa di prefetti e, in misura minore, di questori, vice questori e commissari fu collocata a riposo d’autorità, ovvero con l’esercizio di una azione disciplinare piuttosto che attraverso l’azione dinanzi all’alto commissariato per l’epurazione. La narrazione della storia del ministero continua anche dopo la nascita della Repubblica italiana per fermarsi agli anni Settanta con la nascita delle Regioni quale organo di governo tra gli enti locali e lo Stato. In definitiva, il volume realizzato dalla Tosatti sintetizza e affronta sotto differenti punti di vista l’evoluzione di uno dei ministeri più significativi per la storia del Paese.

Ten. Col. Flavio Carbone



Guido Melis

Lo Stato negli anni Trenta. Istituzioni e regimi fascisti in Europa

Il Mulino editore, 2008, pagg. 297, euro 20,40

Il volume, curato da Guido Melis, costituisce la pubblicazione degli atti del convegno tenuto dalla Società italiana per lo studio di storia delle Istituzioni unitamente alla Scuola speciale per archivisti e bibliotecari dell’Università degli studi di Roma “La Sapienza” nel 2006 presso la biblioteca del Senato e intitolato “Lo Stato in Europa negli anni Trenta. Democrazie e totalitarismi”. Melis nella sua introduzione ricorda che negli anni Trenta vi fu la sostituzione del nuovo Stato al modello ottocentesco con una partecipazione delle masse coinvolte a pieno titolo nella sfera pubblica. I testi raccolti nel volume intendono pertanto offrire un punto di vista differente avvicinando le esperienze di alcuni Paesi europei: Germania, Spagna, Portogallo e, in misura maggiore, Italia. Michael Stolleis propone un saggio dal titolo “Nel ventre del Leviatano. La scienza del diritto costituzionale sotto il nazionalsocialismo”; António Manuel Hespanha su “La funzione della dottrina giuridica nella costruzione ideologica dell’Estado Novo”; Sebastián Martín su “Lo Stato nella Spagna degli anni Trenta: dalla Costituzione repubblicana alla dittatura franchista”; Guido Melis con un saggio di ampio spettro su “Le istituzioni italiane negli anni Trenta”; Nico Randeraad con “Politiche pubbliche e totalitarismi. Le sfide delle amministrazioni negli anni Trenta”; Francesco Soddu, “Il Parlamento fascista”; Giovanna Tosatti su “Il Ministero dell’interno e le politiche repressive del regime” Alessio Gagliardi con “I ministeri economici negli anni Trenta”; Chiara Giorni ha studiato “Gli enti pubblici di Benedice nel sistema istituzionale fascista”; Antonella Meniconi riferisce su “Magistrati e ordinamento giudiziario negli anni della dittatura”; Federico Lucarini su “Segretari comunali e podestà. Il Comune in Italia durante il fascismo”; Patrizia Ferrara riferisce a proposito de “L’apparato della propaganda fascista”; Giuseppina Fois su “L’Università tra Gentile e Bottai”; Albertina Vittoria su “Le istituzioni culturali negli anni Trenta”; Dora Marucco chiude il volume su “Il potere dei numeri: la statistica durante il regime”. È evidente la particolare attenzione dedicata all’Italia nella seconda parte del libro. In particolare, Guido Melis sottolinea come, partendo dal fondamentale lavoro di Alberto Aquarone sulle origini dello Stato totalitario, valenti studiosi si siano cimentati nella ricerca storicoistituzionale ma sottolinea anche che proprio la Storia delle Istituzioni è il settore ove si lamenta un ritardo maggiore rispetto ad altri campi di ricerca: “soprattutto resta inesplorato un nesso decisivo per giudicare il fascismo come esperienza storica: quale sia stato cioè il rapporto tra lo Statoapparato, che il fascismo trovò già formato ed operante nel 1922, e l’idea fascista di Stato, che il regime si sforzò, con esiti contradditori, di tradurre in prassi istituzionale nei vent’anni successivi”. In definitiva, si tratta di un volume che affronta sotto differenti punti di vista la situazione delle istituzioni in Europa in generale e in Italia in particolare dedicando ampio spazio alla comprensione di uno dei periodi più complessi della storia nazionale. In conclusione si può dire che il percorso della ricerca è stato tracciato ma resta ancora molto da fare.

Ten. Col. Flavio Carbone



Giovanna Sotgiu Alberto Sega

Un’isola e il suo ammiraglio  Giorgio Andrea Des Geneys e La Maddalena

Paolo Sorba Editore, 2008, pagg. 238, euro 18,00

Giorgio Des Geneys è considerato uno dei padri fondatori della Marina Militare italiana e uno dei più significativi ufficiali che la piccola Marina Sarda ebbe sino all’Unità d’Italia. Geneys apparteneva ad una nobile famiglia piemontese e fu avviato, come vuole la tradizione, alla vita militare molto giovane. A differenza dei fratelli che avevano scelto di abbracciare la carriera delle armi nell’esercito che costituiva uno dei pilastri dello Stato dell’epoca, Giorgio militò in marina. Va riconosciuto subito che la marina del tempo non rappresentava che una piccola flottiglia di naviglio i cui principali oneri erano la caccia ai contrabbandieri e la lotta alla pirateria barbaresca che, grazie all’estensione delle coste sarde, aveva buon gioco a predare villaggi e città. Il testo non intende percorrere la vita di Des Geneys e analizzare il suo operato; come puntualmente indicato nel titolo, il volume è scritto focalizzando il rapporto che l’ammiraglio ebbe con l’isola della Maddalena e più in generale con la Sardegna. Non va dimenticato, infatti, che egli mantenne l’incarico di comandante della marina sarda per tutto il periodo in cui i Savoia vissero esiliati nel loro ultimo lembo di territorio dove esercitavano la sovranità: la Sardegna, per l’appunto. In una situazione economica molto pesante, con la pressione francese dalla vicina Corsica che non rasserenava la difficile vita dei monarchi savoiardi e i continui attacchi barbareschi, Des Geneys diede il massimo delle sue capacità professionali e umane per mantenere in vita la piccola marina e cercare di sostenere i marinai e le loro famiglie che vivevano talvolta in stato di indigenza poiché le casse dello Stato non versavano il soldo dovuto. Il rapporto che l’ammiraglio ebbe con l’Isola fu ottimo; egli esercitava anche funzioni che oggigiorno si potrebbero definire di polizia nel senso più ampio della parola ma non per questo Des Geneys lesinò mai il proprio peso politico nella difesa della Maddalena dai tentativi di penetrazione negli affari dell’Isola da parte di alcuni notabili di corte né il denaro. Infatti, egli donò somme di denaro consistenti a sostegno della comunità e in particolare per la costruzione della chiesa dedicata a Maria Maddalena che fu possibile edificare grazie al suo interessamento. Il testo è composto da una premessa, dei brevi cenni biografici, un paragrafo dedicato alle uniformi della Marina, dieci capitoli (I primi passi. L’arrivo in Sardegna; Comandante della Marina; La vita alla Maddalena; La difesa dell’arcipelago; Attività diplomatica; La costruzione della chiesa della Maddalena; Il trasferimento a Genova; La moglie: un mistero; La sommossa di Genova del 21 marzo 1821; La marina sarda dagli ultimi decenni del 1700 al 1839) e l’indice dei nomi. I due autori, usando un linguaggio giornalistico, ricostruiscono le vicende dell’ammiraglio e della sua vita alla Maddalena e le relazioni che il comandante della marina sarda aveva con la corte, il sovrano e il suo entourage. Sono sottoposti ad analisi anche i suoi rapporti con i maddalenini tanto che lo studio fa emergere alcuni aspetti meno noti della vita di Des Geneys come il matrimonio e la sua partecipazione alla vita sociale dell’Isola attraverso i battesimi a cui partecipò quale padrino. Il volume impiega diverse fonti tra cui alcune archivistiche che consentono di leggere, intrecciando le informazioni, alcune linee direttive dell’opera del barone Des Geneys nel corso della sua lunga vita sotto le armi. Nicola Brancaccio, storico delle istituzioni militari Regno di Sardegna, nel 1922 così si esprimeva sulla sua morte affermando la scomparsa de “la mano ferma che guidasse la marineria”. In definitiva, si tratta di un volume che analizza una parte della storia di una delle marine preunitarie che contribuì alla nascita della Regia Marina italiana. Lo studio consente di affermare che anche su tale percorso di ricerca resta ancora molto da fare.

Ten. Col. Flavio Carbone


Paolo Pozzato Paolo Volpato,

La stretta finale. 1417 novembre 1917 la battaglia di Monte Cornella e la conquista di Quero

Itinera Progetti editore, 2008, pagg. 144, euro 20,00

Il libro tratta di una vicenda bellica che ebbe luogo nel corso del primo conflitto mondiale attorno all’abitato di Quero e sul Monte Cornella. In tre giorni, dal 14 al 17 novembre 1917, il paese e l’area circostante furono al centro di violenti combattimenti tra austroungarici e italiani. In particolare, i nemici dell’epoca erano costituiti dal 1° Corpo d’Armata del generale Krauss che intendeva condurre un’operazione di sfondamento nell’area montana circostante per arrivare fino alla val Piave e alla pianura veneta. L’idea di Krauss era sicuramente ambiziosa e, soprattutto, il generale intendeva forzare tutti gli ufficiali e i reparti alle sue dipendenze a sviluppare una manovra delle truppe lungo le valli e non più con il dominio delle vette come la dottrina militare dell’epoca prevedeva. In realtà, le vicende di quei giorni hanno dimostrato che tutte le dottrine si devono poi scontrare con la realtà. Nel caso di Quero, tale realtà si reggeva sulle forze italiane rappresentate dalla brigata “Como”, da un reparto di arditi e da poche altre forze. La narrazione è efficace e, attraverso le pagine del volume, si può rivivere un momento particolarmente difficile delle operazioni collegate al ripiegamento di Caporetto. La vicenda della cittadina di Quero e dell’area vide un’unità di fanteria poco conosciuta: la brigata Como. Sino a quel momento la brigata era stata schierata su di un fronte secondario e non aveva partecipato a particolari eventi bellici ma alle consuete schermaglie che si potevano vivere lungo il fronte. Con il ripiegamento della fronte su posizioni maggiormente difendibili, le forze italiane dovettero contenere e limitare l’avanzata del nemico austrogermanico che aveva superato vittoriosamente reparti italiani, accerchiandoli e costringendoli alla resa.
La brigata Como aveva un compito importante, quello di difendere la zona di Quero e la sua stretta allo scopo d’impedire al nemico di raggiungere la pianura veneta. In quelle tragiche giornate la storia della brigata e quella dell’abitato si saldarono in un’unica vicenda che lega uomini e luoghi distinti in un tutt’uno la difesa del patrio suolo. I fanti della Como dimostrarono ampiamente che non si trattava di parole retoriche ma che anche loro, appartenenti ad un’unità pressoché sconosciuta, poterono scrivere una pagina di storia del nostro Paese. A distanza di tanti anni, anche grazie alle ricerche condotte dai due autori, Quero ha ottenuto nel 2006 una medaglia d’argento al merito civile con la seguente motivazione: “Piccolo paese montano di rilevante importanza strategica, già investito e travolto dalle drammatiche vicende della 1^ guerra mondiale, nel corso del 2° conflitto mondiale venne occupato dalle truppe tedesche, subendo feroci rappresaglie e razzie che provocarono numerose vittime civili e la distruzione pressoché totale di una delle sue frazioni più antiche. La popolazione seppe reagire agli orrori della guerra e partecipò con coraggiosa determinazione alla lotta partigiana. 1943 ’44 Quero (BL)”. Il testo della concessione riconosce anche il sacrifico che la popolazione di Quero dovette subire quando il nemico si stava avvicinando al paese e i suoi cittadini furono costretti ad abbandonare velocemente le case con i pochi oggetti che poterono portare con loro per sfuggire alla guerra. Trovarono rifugio in altre parti d’Italia ma dovettero aspettare a lungo prima di poter ritornare ad abitare nelle proprie case. Un aspetto interessante della ricerca che si ritiene ricordare in tale sede è data dalle fonti. In particolare, il riferimento è dato dall’uso dei verbali della commissione interrogatrice dei prigionieri rimpatriati che raccolse tutte le dichiarazioni e le relazioni, a volte completate da schizzi e disegni, redatte da chi partecipò alle operazioni nella zona di Quero. Tali verbali, custoditi presso l’Archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito nel fondo F11, costituiscono una preziosa fonte d’informazioni che consentono spesso la ricostruzione degli eventi.

Ten. Col. Flavio Carbone


Il Museo Storico della Guardia di Finanza

Franco Cosimo Panini editore, pagg. 160, euro 40,00

Il Museo Storico della Guardia di Finanza ha una lunga tradizione. Eretto in ente morale nel 1934, il Museo iniziò immediatamente la ricerca di materiale utile per costituire un percorso espositivo che esaltasse la partecipazione del personale della regia guardia di finanza al Primo Conflitto mondiale, seguendo gli schemi interpretativi dell’epoca che vedevano nella partecipazione alle operazioni di guerra uno degli aspetti più significativi per narrare le vicende di un organismo militare con funzioni di polizia. Tale attività di ricerca si allargò poi ai periodi storici precedenti la I Guerra Mondiale abbracciando anche le operazioni in Etiopia e, successivamente, quelle condotte nel corso del Secondo Conflitto mondiale. Nel corso del tempo si affacciò anche la necessità, sentita da chi ha avuto nel tempo l’alta direzione dell’ente culturale, di orientare la raccolta di materiale espositivo relativo all’attività d’istituto vera e propria, al contrasto al contrabbando, alla vigilanza alle frontiere, senza dimenticare le attività di polizia tributaria e di polizia giudiziaria. Il volume, realizzato dal Museo Storico della Guardia di Finanza, intende presentare a un pubblico più vasto la storia, le attività e le funzioni che il Museo Storico svolge in seno al Corpo della Guardia di Finanza. A tal proposito, si deve segnalare che i testi del volume sono stati curati dal compianto generale PierPaolo Meccariello, uno dei più sensibili animatori della ricerca storica sul Corpo e nel Corpo stesso. Le ricerche storiche e iconografiche sono state condotte dai generali Luciano Luciani e Espedito Finizio, dal tenente Gerardo Severino e dai marescialli capo Luigi Marinanza e ordinario Emiliano Stelluti. Il libro, attraverso la presentazione degli oggetti in mostra nel museo, ricostruisce i momenti più significativi della vita della Guardia di Finanza, corpo che idealmente trae le sue origini dall’istituzione della legione truppe leggere alla fine del XVIII secolo. Il testo è strutturato su di un’introduzione, una breve storia del museo e otto capitoli che ricostruiscono la storia del Corpo utilizzando attentamente il materiale esposto all’interno delle varie sale. Completano il volume un capitolo dedicato alle sale monografiche e la rappresentazione dello stemma araldico del museo integrato da una nota esplicativa. Si tratta di un lavoro basato sulle immagini fotografiche che ripropongono il meglio del materiale custodito all’interno del museo ripercorrendo la storia della Guardia di Finanza sin dalle origini, che si fanno idealmente risalire alla legione truppe leggere del XVIII secolo, giungendo ai giorni nostri. Il Museo Storico della Guardia di Finanza non ebbe la stessa organizzazione degli spazi espositivi. All’inizio del decennio in corso, si decise di intervenire con lavori di ristrutturazione che permisero di rivedere ex novo l’area in cui risistemare gli oggetti versati nel tempo all’ente di cultura del Corpo offrendo così un nuovo schema espositivo in grado di ripercorrere le attività istituzionali che il Corpo aveva assolto nel corso della sua storia sino a tempi più recenti. La scelta di un formato di grandi dimensioni, ma agevole nel testo e nel numero di pagine (157), consente la lettura del volume apprezzando anche la cura con la quale si è scelto di riprodurre particolari di oggetti del museo che non sempre si possono apprezzare come ad esempio la freccia della bandiera da caserma in uso alla Guardia Doganale tra il XIX e il XX secolo. In definitiva, il volume sintetizza lo sforzo corale condotto dal Comitato di Studi Storici del Museo e dal personale che presta servizio presso il medesimo nell’offrire un’opera di pregio curata con attenzione e cura dei particolari.

Ten. Col. Flavio Carbone


Luciano Luciani
Antonio Luigi Norcen

Un soldato, un finanziere, un comandante ed un geniale innovatore

Ente Editoriale per il Corpo della Guardia di Finanza 2008, pagg. 322, euro 18,00

Antonio Luigi Norcen nella biografia ricostruita attentamente dal generale Luciano Luciani, presidente del Museo Storico della Guardia della Finanza e del Comitato di Studi Storici, è descritto attraverso la sua lunga carriera militare iniziata da giovane allievo ufficiale di complemento e terminata con la nomina a Comandante Generale della Guardia di Finanza avvenuta nel 1952. In realtà, Luciani descrive l’opera di Norcen anche dopo la sua esperienza nel Corpo quando, di fronte a un grosso scandalo che aveva colpito l’INGIC (Istituto Nazionale Gestione Imposte di Consumo), si scelse come presidente dell’Istituto proprio il generale Norcen ben rappresentando per indiscusse capacità e rara visione strategica una figura di “grand commis d’État”. L’autore del volume, già apprezzato per i suoi numerosi saggi e alcuni volumi sulla storia del Corpo e di storia militare, ha scelto di focalizzare l’attenzione della sua ricerca sulla figura del generale Antonio Luigi Norcen per descrivere uno dei più importanti Comandanti Generale del Corpo della Guardia di Finanza il quale riuscì in soli due anni pieni di entusiasmo e di slancio a cambiare radicalmente la Guardia di Finanza. L’autore ha organizzato il libro su sedici capitoli e nove appendici documentali. Come capita in molte ricerche che si concentrano sugli uomini che fanno parte delle istituzioni, il lavoro di Luciani è stato reso possibile grazie alla consultazione dell’archivio familiare tenuto dai congiunti del generale. I capitoli seguono la vita del generale Norcen dalla nascita a Fonzaso nel feltrino (le origini ed il servizio di ufficiale di prima nomina; gli inizi della vita militare; la guerra per la conquista della Libia; la Grande Guerra; tre anni alla commissione per la delimitazione del confine italo austriaco), all’ingresso nel corpo di stato maggiore (l’accesso al Corpo di Stato Maggiore; la conquista dell’impero; la Seconda Guerra Mondiale ed il dopoguerra), nonché la sua esperienza nella Guardia di Finanza e il contributo alla trasformazione del Corpo (il quattordicesimo Comandante Generale della Guardia di Finanza; La Guardia di Finanza agli inizi degli anni cinquanta; la riforma del Comando Generale; l’impulso all’attività istituzionale della Guardia di Finanza; i risultati di servizio conseguiti; l’azione di comando; la conclusione della carriera militare) per chiudere con l’esperienza della presidenza dell’INGIC. Norcen rappresenta uno dei non inconsueti casi di ufficiale di complemento che riuscì a transitare in servizio permanente ma soprattutto, opportunità ben più rara, ebbe la grande occasione di entrare nel Corpo di Stato Maggiore. Il passaggio nel Corpo di Stato Maggiore e le sue innate qualità professionali, tra le quali emerge chiaramente la capacità organizzativa affiancata da una visione strategica, rappresentarono l’accelerazione della carriera di Norcen. L’esperienza in Africa interessò il biografato due volte, una prima nel corso della campagna d’Etiopia e una seconda a fianco del viceré durante le operazioni belliche in Africa Orientale Italiana dove fu catturato dagli Inglesi. A tal proposito, è da sottolineare come, richiesta la sua presenza da Amedeo d’Aosta, riuscì ad arrivare in AOI con un fortunoso viaggio in aereo nonostante le operazioni belliche da poco iniziate e a supportare con le sue capacità il viceré, sino alla caduta dell’Amba Alagi e alla prigionia. Ritornato in Italia dalla cattività, dopo aver provveduto a partecipare alla riorganizzazione logistica dell’Esercito, resse il comando della Divisione di fanteria “Legnano” che riuscì a portare alla massima efficienza in brevissimo tempo e che permise all’unità di essere additata tra le più efficienti nei successivi trent’anni. Infine, prima di assumere l’incarico di Comandante Generale del Corpo, fu nominato direttore dell’Istituto Geografico Militare in uno dei momenti più delicati della storia nazionale con la delimitazione dei nuovi confini della giovane Repubblica. Infine, la sua esperienza nella Guardia di Finanza. Nel Corpo Nocern riuscì a trasformare un’Istituzione valente ma legata a vecchi schemi in uno strumento efficace ed efficiente per l’azione di governo nel contrasto alle violazioni soprattutto in materia tributaria. L’attenta capacità di analisi della situazione interna all’Istituzione lo spinse a riorganizzare il Comando Generale del Corpo, a spingere e valorizzare con nuovo impulso l’attività istituzionale con una evidente crescita dei risultati operativi. Conclusa la carriera militare nel 1954, fu nominato presidente dell’INGIC a testimonianza della fiducia acquisita dalle massime autorità che videro in lui l’uomo giusto per gestire l’Istituto dopo un grave scandalo.
Terminava così la carriera di un servitore dello Stato.
Ten. Col. Flavio Carbone


Gerardo Severino

Morte sullo stretto. I cento anni del terremoto di Messina e Reggio Calabria e del soccorso della Guardia di Finanza

Museo Storico della Guardia di Finanza Comitato di Studi Storici, 2008, pagg. 114

Il Comitato di Studi Storici del Museo Storico della Guardia di Finanza ha inteso onorare la memoria dei militari del Corpo che parteciparono alle difficili operazioni di protezione civile causate dal terribile terremoto che rase al suolo le città di Messina e di Reggio Calabria il 28 dicembre 1908 pubblicando un agile volume realizzato dal capitano Gerardo Severino e frutto di una ricerca che oltre a ricordare la tragedia che investì i due capoluoghi di provincia intende anche non dimenticare il contributo di sangue dei militari del Corpo periti nel terremoto. È necessario superare i luoghi comuni che vedono i militari del Corpo e di altri organismi a ordinamento militare o civile partecipare attivamente alle operazioni di soccorso per ricordare invece, che anche molti militari del Corpo perirono in quella luttuosa circostanza. Le due città rase al suolo cancellarono il comando della 12a Legione della Regia Guardia di Finanza causando la morte di quasi ottanta militari, tra cui il comandante della Legione stessa, il tenente colonnello Francesco Roco. Ecco che alla Regia Guardia di Finanza furono assegnati numerosi compiti, alcuni assolti d’iniziativa nell’immediatezza del disastro e altri successivamente con l’attivazione della catena dei soccorsi costituiti principalmente da unità militari dell’Esercito, della Marina, dell’Arma dei Carabinieri Reali e dello stesso Corpo. Nell’immediatezza gli ufficiali, i sottufficiali e le guardie di finanza intervennero nell’opera di salvataggio ove e come poterono assistendo familiari, superiori, inferiori di grado, semplici cittadini che erano rimasti sotto le macerie. In qualche caso fu possibile mettere in salvo persone sotto shock o ferite, in altri casi, non si poté far altro che constatarne il decesso. Avviata tale fase, immediatamente si rese necessario svolgere un’attenta opera di vigilanza delle zone colpite dal terremoto al fine di evitare azioni di sciacallaggio; infatti, oltre alla fuga dei detenuti dai locali carceri, numerosi malfattori erano accorsi dalla campagna in città e nei sobborghi per cercare di predare gli edifici distrutti o inagibili. Così, Carabinieri e Guardie di Finanza dovettero assicurare l’ordine e la sicurezza pubblica intervenendo con determinazione contro tali gruppi criminali. Non fu infrequente che militari dell’Arma o del Corpo siano deceduti nel corso di conflitti a fuoco in tale periodo. Infine, tali militari svolsero anche un’opera significativa come “guide” nei luoghi devastati a supporto dei militari nazionali o di altri Paesi che, avuta notizia della tragedia, erano sbarcati a sostegno della popolazione italiana dalle rispettive navi. L’impegno di tutti i militari del Corpo, secondo la narrazione di Severino, fu gratificato con la concessione di numerose medaglie di benemerenza, con encomi solenni del Comandante Generale del Corpo e con premi in denaro per i militari più meritevoli. La drammatica esperienza del terremoto di Reggio Calabria e di Messina segnò anche uno dei più significativi momenti per il funzionamento della “macchina” della Protezione Civile che, è giusto ricordarlo, dall’epoca e sino a tempi più recenti, si appoggiava sulle robuste spalle delle Forze Armate e delle Forze dell’Ordine. In definitiva, il volume sintetizza lo sforzo corale condotto dal Comitato di Studi Storici del Museo e dal direttore dello stesso nell’offrire un’opera per ricordare il contributo della Regia Guardia di Finanza in situazioni di crisi all’interno del Paese e in tempo di pace. Diversamente tali interventi rischierebbero di essere rimossi dalla memoria collettiva.
Ten. Col. Flavio Carbone


Pahor Boris

Necropoli

Fazi editore, 2008, pagg. 280, euro 16,00

Sui Vosgi, il massiccio montuoso della Francia nordorientale che si allunga per circa 170 km tra la pianura alsaziana e l’altopiano lorenese, ci sono i resti di quello che fu il campo di concentramento di NatzweilerStruhof. Nel gruppo di turisti giunti per visitarlo, una domenica come tante altre, c’è anche un uomo che vi ha vissuto nel periodo della guerra. Davanti agli occhi, le immagini del campo attuale viste con occhio esterno, trasformato in museo, si alternano a quelle sofferenti di decenni prima, viste da protagonista. Sono immagini di sdegno e sofferenza. Sdegno per le domande che non hanno trovato risposte, per un orrore a cui non si riesce mai a dare alcuna giustificazione. Sofferenza per le atrocità patite: l’impotenza della fame e del freddo; la mortificazione fisica delle percosse e quella morale degli insulti; la pena profonda per la maggior parte degli internati che non sono riusciti a sopravvivere. Accanto a sentimenti non felici, sfilano anche le immagini dei ricordi appaganti: la solidarietà tra reclusi, il forte e mai represso desiderio di vita, il desiderio di non lasciarsi andare, di non lasciarsi abbrutire completamente dalle pietose condizioni di vita e dagli interventi disumani dei carcerieri. Necropoli è un opera che resta impressa a lungo, perchè tramanda alle generazioni future il ricordo obbligatorio degli anni bui dell’abbrutimento nazista. Sono molti i testi dedicati allo sterminio e ai lager, ma difficilmente sono rinvenibili messaggi tanto adeguati quanto impressionanti di quelli contenuti in quest’opera. C’è chi l’ha paragonato a “I sommersi e i salvati” di Primo Levi. Il raffronto non è azzardato. L’autore contempera le due componenti principali che caratterizzano la vita nei campi di concentramento: da un lato è presente la disumana e spietata crudezza che regola i rapporti tra carcerati e carcerieri; dall’altro emergono i sentimenti di solidarietà umana, di pietas e compassione tra persone che vivono la medesima misera condizione di vita. I due elementi sono sapientemente dosati e contemperati: egli non cade mai nella tentazione di far prevalere l’uno sull’altro, evitando in tal modo di proporre un’opera ora eccessivamente cruenta, ora scoraggiante e disperata.
Magg. Gianluca Livi



Giordano Paolo

La solitudine dei numeri primi

Mondadori editore, 2008, pagg. 340, euro 18,00

I numeri primi hanno un certo magnetico fascino: sono numeri speciali, divisibili solo per se stessi e per uno. Fra questi, alcuni sono ancora più speciali: sono i “primi gemelli”, due numeri primi separati da un unico numero: 11 e 13; 17 e 19; 41 e 43. Se si progredisce nel conteggio numerico, questi numeri tendono a diradarsi sebbene, improvvisamente, ecco che spuntano altri due gemelli, “stretti l’uno all’altro nella loro solitudine”. Mattia e Alice, i giovani personaggi di questo romanzo, sono due primi gemelli: persone speciali, due rette parallele che, proprio come l’11 e il 13 o il 41 e il 43, procedono sullo stesso percorso senza mai incrociare le strade della gente che li circonda. Entrambi con storie difficili alle spalle, Alice e Mattia maturano la consapevolezza di essere differenti dai coetanei ed erigono muri sempre più alti, nei loro confronti ma anche nei confronti l’uno dell’altra, arrivando ad isolarsi completamente dal mondo circostante. Fin da piccola, Alice è stata costretta dal padre a frequentare un corso agonistico di sci. Una mattina come le altre, a causa di una fitta nebbia che rende difficoltosa la vista, si stacca dal gruppo, si fa la pipì nella tuta e, pervasa dal senso di colpa, non riesce a controllare la sua andatura incerta nella neve ghiacciata finendo fuori pista e fratturandosi una gamba e rimanendo storpia a vita. Mattia vive il peso di una sorella gemella affetta da ritardo mentale: egli non sopporta la presenza della sorella, soprattutto in compagnia dei coetanei. Cosicché, il giorno in cui un amichetto li invita entrambi alla sua festicciola, Mattia abbandona la sorella in un parco. Non verrà mia più ritrovata Queste due esperienze traumatizzano Alice e Mattia, che vivranno la loro esistenza con il peso insopportabile del ricordo. Un giorno arriveranno anche ad incrociarsi, nel loro cammino di vita, ma mai ad unirsi completamente: esattamente come i “primi gemelli”, molto vicino tra di loro, ma divisi da un altro numero, così diverso da loro. In uno stile narrativo mai costante (evolve in parallelo con la crescita anagrafica dei personaggi: semplice e asciutto durante l’infanzia, ricco e complesso successivamente), l’esordiente Paolo Giordano si rende autore di un romanzo capace tanto di commuovere, quanto di intimorire. È un’opera dedicata agli emarginati, protagonisti imperfetti di una società che esige la perfezione, nell’estetica, nei ritmi, nei risultati. Un’analisi efficace di una realtà sommersa e spesso sconosciuta, percepibile solo abbandonando l’abituale punto di osservazione. L’opera ha un po’ spaccato in due il pubblico: c’è chi ha ritenuto del tutto inconcludente il finale, come se l’autore avesse ancora qualcosa da dire; oppure chi ha ravvisato lacune descrittive sul mondo dello sci. Altri, generalmente i genitori, hanno apprezzato molto l’accurata descrizione del pensiero adolescenziale e della crudeltà del mondo dei teenagers, mentre alcuni tra i più giovani si sono identificati con i due protagonisti, nella consapevolezza che “siamo tutti un po’ primi numeri”.
Magg. Gianluca Livi



Angela Alberto

Una giornata nell’antica Roma. Vita quotidiana, segreti e curiosità

Mondadori editore, 2008, pagg. 331, euro 17,00

Questo libro è una passeggiata nell’antica Roma, da veri protagonisti.
Leggendolo, sembrerà di rivedere quei documentari di recente formulazione ove le mura, le torri, i tetti sono stati tutti fedelmente ricostruiti al computer. Alberto Angela accompagna il lettore nel trambusto popolare dei mercati, nella riservatezza della abitazioni private, negli aspetti economici e politici dei Fori, nella violenza adrenalinica del Colosseo. L’opera è suddivisa in tanti capitoli quanti sono i momenti chiave della giornatatipo dell’antico romano: il risveglio del nobile patrizio, la toilette del dominus, a cura estetica della padrona di casa. Si esce di casa e ci si immerge nella vita di strada, ancora stordita dal sonno notturno, ma in rapido e crescendo sviluppo: lo schiavo intento a fare pulizie, il parlottio dei clienti di una bottega, i portinai intenti a sedare le risse degli inquilini, amministratori che esigono il corrispettivo degli affitti, mercanti dediti alla gestione dei loro traffici. Nel partorire l’opera, Angela muove dalla considerazione di scrivere un’opera “dalla parte del lettore”: “Ho cercato di scrivere il libro che avrei sempre voluto trovare in libreria per soddisfare la mia curiosità sul mondo dell’antica Roma”. Il successo dell’opera, subito schizzato ai primi posti delle classifiche di vendita, è verosimilmente legato, riferisce l’autore, “alla convinzione, sopravvissuta nell’italiano di oggi, che il nostro modo di vivere è figlio di quello romano. In fondo, a pensarci bene, buona parte del sistema di vita occidentale non è altro che l’evoluzione moderna di quello romano”. Un narratore appassionato quale Angela, ben contempera l’esigenza di promulgare notizie storicamente attendibili, frutto di rigorosi studi storici (anche se i riferimenti all’Impero sono assai scarni) con l’adozione di uno stile narrativo semplice e lineare, fruibile anche a coloro che sono a digiuno di cognizioni storiche. Infine, la società romana, così come descritta dall’autore, può essere anche spunto di riflessione attuale: i sintomi di decadenza nascosti tra gli strati dell’opulente grandezza della Roma antica sono aspetti non dissimili da quelli che caratterizzano una qualsiasi metropoli del mondo moderno: la cura dell’aspetto, l’attenzione al divertimento, il clientelismo, la corruzione sono caratteristiche comuni ad entrambe le società, l’antica e l’attuale.

Magg. Gianluca Livi



Giovanni Ricci

Fuorilegge, banditi e ribelli di Sardegna

Newton & Compton Editori, 2008, pagg. 282, euro 14,90

Dopo “Sardegna criminale”, sempre per la Newton & Compton, Gianfranco Ricci prosegue la sua opera di ricostruzione della storia del cosiddetto “antagonismo sardo”, espressione che allude a diversi fenomeni di devianza, tutti sfocianti in avvenimenti di stampo terroristicoeversivo (banditismo politico; manifestazioni e associazioni terroristiche; lotta per l’indipendenza della Sardegna), occorsi sul suolo sardo in oltre due secoli di storia, dal periodo sabaudo ad oggi. In tale esteso range temporale, i fenomeni dell’eversione e del terrorismo in Sardegna sono emersi secondo modus operandi assai differenti e “hanno avuto ripercussioni diverse, in relazione all’epoca, al contesto sociopolitico, alla gravità delle azioni violente compiute”. Il racconto di Ricci ha inizio nel 1793, con la guerra che incorre tra due blocchi contrapposti: da un lato, la Francia rivoluzionaria; dall’altro l’alleanza tra Austria, Prussia e Regno SardoPiemontese. Il tentativo di conquistare la Sardegna da parte delle truppe corsofrancesi  nelle cui fila militava anche il giovane Napoleone Bonaparte, ambizioso ufficiale d’artiglieria che rischiò di cadere nelle mani dei sardi prima di risalire frettolosamente sulla nave ammiraglia  fallì miseramente grazie all’incondizionato valore palesato dalle truppe locali tanto nel litorale di Cagliari, quanto nell’arcipelago maddalenino. La Sardegna seppe contrastare l’azione anzidetta con milizie volontarie i cui quadri furono attinti esclusivamente da soli elementi autoctoni. Il valore da loro palesato in battaglia fu tale che le truppe francocorse dovettero abbandonare per sempre l’impresa.
Nonostante l’incondizionato valore delle truppe sarde, “i meriti della vittoriosa battaglia andarono ai vari comandanti militari piemontesi e al mediocre viceré Balbiano, perché aveva impartito ordini validi e tempestivi(.) Il Ministero della Guerra, con evidente ingiustizia, accordò tutte le onorificenze militari a quelle truppe regolari che avevano dato così misera prova di sé. Alla Sardegna, che aveva conservato alla dinastia il regno, venne concesso ben poco”. Da questo episodio, tuttavia, “le forze sociali e politiche locali, da sempre avvilite e soffocate  e ora divenute protagoniste acquistarono nuovo slancio e decretarono una significativa rottura con il passato. Fu dunque l’epilogo positivo della lotta contro l’invasore a far germogliare nell’ex Regnum Sardiniae il seme dell’indipendentismo e a creare le condizioni che porteranno alla cosiddetta “Sarda Rivoluzione” e alle insurrezioni pseudopolitiche nella Gallura del primo Ottocento. Gli avvenimenti principali di quegli anni, esaminati nelle pagine che seguono, sono noti: la rivolta del popolo cagliaritano e la cacciata dall’isola di tutti i funzionari piemontesi, oggi immortalate con la festa “nazionale” sarda chiamata, forse con troppa enfasi, “Sa Die de sa Sardigna”, il moto rivoluzionario del giudice Giovanni Maria Angioy, l’alternos, e l’utopistica impresa dei suoi seguaci Sanna Corda e Cilocco lungo il litorale gallurese, nel 1802; l’“ammutinamento della Gallura” (18191825) e le gesta del bandito “politico” di Luogosanto Agostino Gosciu “Pitticcu”, autore, nel 1823, del primo vero attentato terroristico in Sardegna”. Va chiarito che l’autore non pretende di correlare i fatti sopra narrati con gli avvenimenti più recenti, di stampo chiaramente terroristico. Eppure, egli rimarca che tanto gli ultimi, quanto quelli remoti, presentano un unico comune denominatore, che si identifica nella volontà di destabilizzare e/o rovesciare il potere costituito, qualificandoli entrambi come eventi di matrice eversiva. In particolare “l’ammutinamento della Gallura rappresenta una genuina descrizione del rapporto degli isolani con lo Stato, ed è oggi considerato l’archetipo se non di una devianza eversiva, quantomeno di un’azione di rifiuto dell’autorità sull’isola”. Nel prosieguo dell’opera, vengono analizzati svariati eventi eversivi quali l’avventura di Giangiacomo Feltrinelli e il suo sogno utopistico di trasformare la Sardegna “in una Cuba del Mediterraneo, con l’istituzione di un esercito rivoluzionario volto al contenimento di un immaginario colpo di Stato delle destre che asseriva essere ormai incombente” (interessantissima è l’analisi sociologica dell’incursione feltrinelliana in Sardegna: in quell’occasione, il famoso Mesina, dopo un iniziale interessamento, si chiamò fuori dai giochi, tanto perché aveva giudicato inattuabile il progetto, quanto perché l’azione era palesemente lontana dalla storia fuorilegge dell’isola); l’avvento degli anni di piombo, a cui la realtà eversiva sarda si era mostrata scarsamente interessata, fino all’estate del 1979, quando, pianificando l’assalto al supercarcere dell’Asinara  dove erano rinchiusi, tra gli altri, Curcio e Franceschini  le Brigate Rosse getteranno le basi per il progetto di creazione di una colonna sarda di brigatisti, attinti dai militanti dell’organizzazione eversiva di estrema sinistra denominata “Barbagia rossa”; il caso del c.d. “complotto separatista” che coinvolse a vario titolo diversi esponenti del Partito sardo d’azione e del Fronte indipendentista sardo; le vicende del MAS (Movimento Armato Sardo) e dell’ORAI (Organizzazione Rivoluzionaria Anarchica Insurrezionalista). I fatti narrati coinvolgono anche episodi recentissimi della storia terroristica come l’attentato da parte di gruppi eversivi di matrice anarcocomunista e anarcoinsurrezionalista, attuato il 22 marzo 2006 contro la sede elettorale di Bruno Murgia, all’epoca candidato nuorese di Allenza Nazionale alle imminenti elezioni politiche. Molto interessante, infine, è apparsa la cronologia essenziale di tutti gli attentati e altri episodi di natura eversiva e terroristica verificatisi in Sardegna dal 1977 al 2007.
Magg. Gianluca Livi



Claudio Rendina

La vita segreta dei Papi

Newton & Compton Editori, 2008, pagg. 368, euro 14,90

I Papi hanno influenzato la vita non solo di Roma e dell’Italia, ma anche del mondo intero, operando sia in ambiti squisitamente religiosi, nelle vesti di vicari di Cristo, sia in contesti sociali, politici ed economici, sui quali hanno esercitato forti influenze ed ascendenze. Eppure, a margine della loro vita, esistono particolari, aneddotti e curiosità poco noti, “tra personaggi femminili in veste di «papesse» e antipapi manovrati dagli imperatori, tra limpide figure di santi e ambigui fautori di crociate dalle dubbie finalità, dalla «cattività» avignonese allo scisma d’Occidente”. L’autore confeziona un volume in cui descrive “la creazione di uno Stato della Chiesa, che mette in vendita le indulgenze e impone il serraglio degli Ebrei, uno Stato coinvolto in faccende di camorra e processi della Santa Inquisizione, cui la breccia di Porta Pia non impedirà di rinnovarsi come Santa Sede nel contesto della Città del Vaticano”. Parrebbe la solita opera dissacratoria anticlericale, sennonché l’autore è più volte capace di descrivere con competenza e giusto senso della misura anche episodi onorevoli. Giusto a titolo di esempio, l’opera si apre con un vero e proprio elogio alla fede cristiana, con la descrizione del martirio dei cristiani ad opera di Nerone, nel 64 d.C. Accusato dalla voce popolare di aver egli stesso appiccato il fuoco, quest’ultimo imprigionò un gran numero di cristiani, ne giustiziò nell’immediatezza almeno un centinaio (molti dei quali, con ponderata crudeltà, vennero spalmati di sostanze infiammabili e arsi vivi su tronchi d’albero, lentamente, affinché servissero da torce nella notte), e lasciò gli altri a marcire nelle carceri, prima di giustiziare anch’essi, dopo anni di atroci sofferenze. Tra questi ultimi, c’erano anche Pietro, il primo papa, e Paolo di Tarso, il cosiddetto “apostolo dei gentili”.
Secondo la tradizione, i due sarebbero stati imprigionati insieme nel Carcere Mamertino, ove infatti, all’inizio della scala che conduce al Tulliano, la cella inferiore del carcere, “un’iscrizione medievale sul marmo ricorda che «in questo sasso Pietro da di testa/spinto da sbirri et il prodigio resta». Al di sotto, la pietra è come scavata e sembra veramente il calco di una testa”. L’opera è corredata di tre interessanti appendici: un “Elenco di papi e antipapi”, (ammontanti a 265 unità i primi e 37 i secondi); un “Glossario dei papi”, nel quale sono analiticamente spiegati termini ed espressioni ecclesiastiche non di uso comune (come, “decretali” o “porporato”, ad esempio), ma anche termini dalle origini etimologiche squisitamente profane, come “pasquinata”, uno scritto satirico anonimo che colpiva principalmente il papa e i suoi familiari; un capitolo intitolato “Curiosità della storia dei papi” che raccoglie fatti curiosi sui pontefici ed episodi memorabili che hanno ispirato invettive poetiche, proverbi o detti popolari, espressioni di stampo satirico, nonché profezie rivelatorie di eventi solenni o di catastrofi apocalittiche. L’espressione “Stare come un papa”, ad esempio, è legata alla figura di papa Pio X che in un’udienza pubblica, rivolto ad una vecchietta che gli chiedeva con insistenza come stesse in salute, rispondeva in dialetto veneziano: “Benedeta, come volen che staga? Da papa!”. Quanto alle curiosità, tra le tante proposte, c’è quella dell’unico papa che, pur regolarmente eletto, non ha mai regnato. “Stefano fu eletto alla morte di Zaccaria, il 22 marzo del 752 e fu subito insediato nel palazzo del Laterano, ma «dopo solo due giorni di indisposizione», è scritto nel Liber pontìficalis, «alzatosi dal letto, mentre seduto avrebbe dato ordini ai familiari sul lille faccende di casa, avrebbe perduto la conoscenza e la favella, e il giorno dopo sarebbe spirato». Non fece in tempo ad essere consacrato e per questo non è «registrato» come papa in nessun catalogo antico; però è raffigurato nella serie iconografica della basilica di San Paolo fuori le Mura ed era regolarmente inserito nel numero dei papi nell’Annuario pontificio fino al 1964 con il numero II.
Successivamente è stato cancellato e in sostanza non ha mai regnato. Con lui, il numero dei papi salirebbe a 266”. Sempre in tema di curiosità, è appena il caso di citare un primato: Benedetto IX “ha regnato ben tre volte, ed è riconosciuto come tale anche dall’Annuario Pontificio. Eletto nel 1032, fu deposto nel 1044; riprese il trono nel 1045 ma lo stesso anno abdicò; fu per la terza volta sul trono nel 1047 e venne deposto definitivamente l’anno dopo. Praticamente ricorre tre volte nella numerazione dei papi, che in fatto di nomi risultano in effetti 263 e non 265”. Claudio Rendina, scrittore, poeta, storiografo e romanista, già direttore della rivista “Roma ieri, oggi, domani” e curatore de “La grande enciclopedia di Roma”, è autore di numerose opere dedicate alla città di Roma (come “Storia insolita di Roma”, “Le grandi famiglie di Roma”, “I palazzi storici di Roma”, e “Le chiese di Roma”), o al rapporto intercorrente tra la Capitale e il mondo ecclesiastico (“I papi. Storia e segreti”, “Le Chiese di Roma”. “Il Vaticano. Storia e segreti” e “Cardinali e cortigiane”). Attualmente cura la rubrica di storia, arte e folclore denominata “Cartoline romane”, nelle pagine del quotidiano La Repubblica.

Magg. Gianluca Livi



Paolo Cortesi

Quando Mussolini non era Fascista

Newton & Compton Editori, 2008, pagg. 180, euro14,90

Figlio di padre socialista e di madre cattolica, Mussolini visse una giovinezza politica che concettualmente si collocava esattamente agli antipodi dal suo “futuro” di dittatore. Inizialmente, infatti, era un giovane socialista, un militante rivoluzionario sempre pronto ad incitare il popolo alla sommossa, a rovesciare il sistema che opprime il proletariato. Dopo, sarà dittatore, nazionalista intransigente, rigido, inflessibile.
Prima egli era il portavoce dei più deboli, esigeva tutela per gli oppressi di tutti i paesi, auspicava la demolizione delle barriere che rendevano taluni privilegiati e altri sfruttati. Dopo “vedrà la libertà d’Europa minacciata dai prussiani e non dal capitale”, divenendo acceso sostenitore dell’interventismo bellico: “Se domani ci sarà un po’ più di libertà in Europa”, scriveva nel 1914, “un ambiente, quindi, politicamente più adatto alla formazione delle capacità di classe del proletariato, disertori ed apostati non saranno stati tutti coloro che al momento in cui si trattava di agire, si sono neghittosamente tratti in disparte. Se domani, invece, la reazione prussiana trionferà sull’Europa dopo la distruzione del Belgio, col progettato annientamento della Francia  disertori ed apostati saranno stati tutti coloro che nulla hanno tentato per impedire la catastrofe”. Con questo suo ultimo volume, Paolo Cortesi scrittore e saggista già al suo quinto libro  indaga sul Mussolini socialista: grazie a fonti documentarie poco note, l’autore illustra la sua attività giovanile, i suoi rapporti con il potere e con la società degli inizi del Novecento, contrapponendo questa gioventù con il Mussollini del dopo, anzi, dell’immediatamente dopo, visto che nel giro di due mesi, egli cambiò radicalmente opinione, arrivando ad esaltare “la grandezza della guerra come necessario momento essenziale nella vita di un popolo”. Una conversione che all’epoca i biografi ufficiali giustificarono senza il minimo imbarazzo, ritenendo che ad un uomo di potere tutto fosse concesso. “La variabilità di idee di Mussolini”, sostenne Giuseppe Prezzolini nel 1924, “fa mormorare qualcuno. È perfettamente inutile domandarsi se un uomo politico abbraccia un nuovo sistema di idee perché convinto di esse. L’uomo politico si persuade della sua verità con l’entrarvi dentro e portarvi la sua forza, il suo entusiasmo, la convinzione che mediante lui le idee si realizzeranno. La verità di un sistema politico sta nella sua realizzazione. Mussolini non ha cessato di essere se stesso passando dal socialismo all’interventismo. Si sarebbe portati a dire che ha sentito nell’interventismo le possibilità di una rivoluzione che il socialismo ormai non dava più”. Un altro contemporaneo, l’avvocato Francesco Bonavita, descrisse il cambiamento ideologico in termini ancora più enfatici e radicali: “Spirito meditativo, emotivo, sensibilissimo, Benito Mussolini non poteva sottrarsi all’influenza trasformatrice della grande guerra. Chi trova in questo fenomeno di logica, naturale, inevitabile metamorfosi psichica e intellettuale, una deviazione o un tradimento, è semplicemente ma incurabilmente un imbecille”. Lo stesso Bonavita, così riciclava il passato socialista del Duce: “Dal socialismo paterno erediterà la fiamma ardente della fede, inspirata alle finalità dell’Internazionale, non contrastanti con l’amore all’Italia e alle patrie memorie; dal paese d’origine trarrà l’audacia, il coraggio e quel senso di umanesimo che sa rendere dolci e buoni i più forti e i più violenti. E da questo seme sboccerà in lui, attraverso l’azione del demolitore, la pratica dell’educatore che, dalla tribuna del giornalista, del propagandista e dell’uomo di Governo, additerà alle folle, instancabilmente, le vette del progresso nazionale, delle armonie sociali, dell’elevazione umana”. Torquato Nanni, infine, ritenne che la conversione alla guerra di Mussolini fosse insita nel suo DNA: “C’era da aspettarselo e chi conosceva intimamente la psicologia di Mussolini lo aveva previsto. Mussolini “neutrale” sarebbe come dire il sole a mezzanotte. Neutrale, mai, in modo assoluto; ma figuriamoci poi di fronte a una così immane tragedia dell’umanità come la guerra!”. Eppure, le due vite  socialista la prima, fascista la successiva  hanno in comune il Benito Mussolini condottiero, una figura di capo che non poteva mai prescindere dalla “voglia di comandare, di dominare, di guidare una folla che prima immaginò turbolenta e animosa, poi rese inquadrata, bene allineata e coperta, irrigidita nel passo dell’oca e nel saluto romano”. Ed è davvero emblematico il seguente episodio, citato dall’autore in premessa: appena conseguito il diploma magistrale, il padre aveva invano cercato di indirizzarlo, prospettandogli una serie di opportunità professionali. Poiché il giovane non si mostrava ricettivo a nessuna di quelle opportunità, il padre adirato, sbottando gli aveva chiesto: “Ma allora cosa vuoi fare nella tua vita?”. “Io”, rispose, “voglio comandare!”.

Magg. Gianluca Livi



Fabio Isman

I predatori dell’arte perduta. Il saccheggio dell’archeologia in Italia

Skira editore, 2009, pagg. 222, euro 19,00

Il libro di Fabio Isman, con la prefazione di Giuseppe De Rita, già Presidente del Cnel, ripercorre, dal 1970 ai giorni recenti, gli episodi più significativi del sistematico saccheggio dei nostri capolavori d’arte archeologica. Con gli scavi clandestini dei “tombaroli”, come primi protagonisti, e la complicità di intermediari, mercanti d’arte ed “insospettabili” personaggi, i tesori vengono “strappati” dai propri contesti e destinati, talvolta al costo di milioni di dollari, ad impreziosire le collezioni di grandi musei internazionali
o di facoltosi privati. L’autore, attraverso la raccolta di interviste, testimonianze dei protagonisti delle inchieste e documentazione giudiziaria, ricostruisce nel dettaglio ciò che è stata, per un Paese occidentale, la più grande depredazione d’arte nell’ultimo secolo e il cui danno patrimoniale, e non solo, risulta incalcolabile. La lettura delle vicende narrate, accostate spesso a thriller o “gialli”, in quanto tuttora avvolte nel mistero, dimostra quale costante crescita il mercato nero dei reperti archeologici ha avuto, in particolare, nell’ultimo trentennio in Italia, ritenuta  purtroppo
 il massimo fornitore. I profitti di questa attività illecita sono considerati da alcuni più elevati di quelli derivanti dal traffico degli stupefacenti e assai meno rischiosi: “non si è mai visto, ad esempio, un cane fiutare un oggetto antico in un aeroporto”. Tra i casi annoverati dall’autore appaiono interessanti quelli del Volto o Maschera d’avorio della seconda metà del I secolo a.C., considerato il più grande reperto criselefantino dell’antichità, della celebre Triade capitolina, scultura del 180 a.C. che ritrae insieme Giove, Minerva e Giunone, e del Cratere di Eufronio, vaso greco del 515 a.C., tutte opere di inestimabile valore che, trafugate dai luoghi d’origine, sono state restituite al patrimonio artistico italiano grazie alle scrupolose investigazioni dei “Carabinieri dell’arte” (Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale), che con la loro incessante attività hanno recuperato, dal 1969, anno della loro costituzione,
800.000 reperti. Questo prezioso volume vuole essere, in sostanza, un ulteriore contributo per rafforzare nelle Istituzioni e nel pubblico l’interesse alla salvaguardia del nostro passato anche attraverso l’inasprimento delle pene per un maggiore contrasto alla criminalità operante nel settore.
Purtroppo, rileva l’autore, malgrado molto sia stato fatto per frenare la continua aggressione al nostro patrimonio culturale, solo una parte dei tesori fraudolentemente sottratti è stata restituita alla fruizione dei cittadini, ma la “Grande Razzia” sembra comunque un vecchio ricordo.

M.A.s.UPS Remo Gonnella



Guido Poeta

Guerra senza eroi. Magliano Sabina 1943-1944

Edizioni Incontri 2008, pagg. 174, euro 10,00

“Ho tentato di offrire uno spaccato di questo momento cruciale della storia d’Italia e della storia locale, in cui, ad un forzato eroismo di alcuni, corrispose un generico e generale antieroismo di molti”. Con queste decise parole l’Autore, attraverso un’operazione di raccolta dei dati, della loro elaborazione e della loro corretta collocazione all’interno di un preciso contesto storico, presenta un’opera che vanta il merito di aver esaminato secondo una precisa prospettiva storica e con dovizia di particolari e di informazioni, un interessante spaccato di una delle tante italie coinvolte nell’ultimo conflitto mondiale. Guido Poeta, tuffandosi in questa ardua impresa, ha fornito un utile strumento per meglio comprendere le vicende storiche che attraversarono Magliano Sabina tra il 1943 ed il 1944. Una ricostruzione che si è avvalsa anche della memoria orale, delle foto d’epoca e dei ricordi personali dello scrittore maglianese. Un piccolo paese del Lazio ai confini con l’Umbria da dove si ammira un incantevole panorama di un vastissimo orizzonte che comprende la Valle del Tevere, le città e i paesi del viterbese, fino a perdersi tra i monti Cimini e Sabini; una località dalla cui tradizione orale l’Autore ha attinto, tra ansie e terrori individuali e collettivi, con il necessario distacco del metodico ricercatore storiografico. Da qui la validità del libro: una storia fatta emergere intenzionalmente per non tradire la memoria di chi “vide la guerra con gli occhi da bambino”. I contributi presenti in questo studio, tutti riportati in nota, sono di grande interesse storiografico; questi preziosi documenti  ancorché di difficile reperibilità e di laboriosa trattazione data la particolare natura delle testimonianze  si trasformano, grazie alla dedizione di Guido Poeta, in pregiati strumenti di lavoro e di comprensione di un particolare momento storico in un determinato territorio. In appendice del volume, l’Autore ha inserito un racconto inedito “Il dado è tratto”, vincitore nel 1967 a Venezia del premio sulla Resistenza “Galleria Internazionale”. Guido Poeta è anche l’autore di un’altra opera pubblicata nel 2007: Cronache di una rivolta. I moti contadini in Magliano Sabina (19001904).

Mar.Ca. Alessio Rumori