Mass media e giustizia penale: profili di diritto sostanziale (*)

Paolo Pittaro







Paolo Pittaro
 
Titolare di Diritto Penale nell’Università di Trieste.
Coordinatore del Dottorato di ricerca in Scienze Penalistiche



Il tema in oggetto (Mass media e giustizia penale), richiama subito alla mente fondamentali principi costituzionali proprio per l’elevato rango degli interessi in gioco.
Innanzi tutto il concetto stesso di giustizia e, in particolare, di quella penale. E con tale termine non alludiamo, come impropriamente viene definito, al terzo potere dell’ordinamento ovvero, più esattamente, all’ordine giudiziario, quanto alla funzione del rendere giustizia che, per costituzionalisti e teorici del diritto, è tratto caratterizzante della sovranità stessa dello Stato, intesa - assieme al territorio ed alla popolazione - come elemento costitutivo dello stesso. Anzi, secondo certi filosofi (non solo del diritto: e la doverosa citazione va a Vittorio Mathieu), proprio la prerogativa di effettuare la giustizia penale rimane l’unico elemento distintivo della sovranità dello Stato: il potere della spada accanto a quello della bilancia.
Se la giustizia (anche penale), allora, rientra nel concetto di sovranità dello Stato, risalta con immediatezza l’art. 1, comma 2, Cost., il quale afferma che “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, ove lo Stato-apparato appare come funzione servente dello Stato-comunità. Non a caso, dunque, l’art. 101, comma 1, Cost., sancisce che “la giustizia è amministrata in nome del popolo”, e, al capoverso, che “i giudici sono soggetti solamente alla legge”: legge come espressione di un ordinamento democratico e rappresentativo come il nostro.
In tale prospettiva, nel contesto di una Costituzione rigida che pone al centro la persona e non lo Stato, ove la Repubblica, ex art. 2, riconosce i diritti inviolabili dell’uomo, e, quindi, pre-esistenti all’ordinamento giuridico, appare scontato che la giustizia penale sia avvolta da una serie di garanzie poste a tutela dell’individuo. Sono tutte ben note, come espresse, schematicamente, dagli artt. 25, commi 2 e 3, e 27, commi 1 e 3, dal profilo del diritto penale sostanziale, ovvero gli artt. 24, 27, comma 2, nonché 111 e seguenti da quello del diritto penale processuale.
I mass media, da loro canto, sono i mezzi di comunicazione, ossia attinenti ad un rapporto fra i soggetti: rapporto interpersonale ovvero diretto indifferentemente a tutti i consociati. Un rapporto comunicativo che trova risalto nella Carta costituzionale: nella prima accezione nell’art. 15, ove afferma che “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili” (comma 1) e che “la loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalle legge” (comma 2), nella duplice riserva: di legge e di giurisdizione; e nella seconda accezione nell’art. 21, laddove dispone, al primo comma, che “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”.
Se, allora, ambedue i concetti (mass media, giustizia penale) sussistono, alla fin fine, in funzione del bene persona, intesa sia uti singolus, sia uti socius, e non possiamo rilevare, in astratto, una supremazia assoluta dell’uno rispetto all’altro, o viceversa, è gioco-forza che, nella possibile ipotesi di un loro conflitto, si debbano trovare dei punti di equilibrio, ove, nelle singole situazioni concrete, l’una potrà incontrare limiti e disciplina a favore dell’altra, e viceversa, ma, insieme, sempre nel rispetto globale della tutela dei diritti dell’individuo e della comunità.
In tale contesto vari sono i piani su cui può operare tale possibile incontro/scontro: si pensi, ad esempio, e molto semplicisticamente, ai reati di ingiuria, di diffamazione o di calunnia commessi attraverso i media. Meno banali, forse, se effettuati non tramite i tradizionali mezzi di comunicazione, quali la stampa, il telefono o il telegrafo, ma tramite quelli informatici o telematici, quali la posta elettronica, il contatto c.d. voip, oppure su blog, o la partecipazione nelle chat, sia peer to peer sia pubbliche, e via dicendo. Dal profilo del diritto penale, posto che, soggetto attivo e quello passivo possono essere separati non da miglia, ma da interi continenti, e che ulteriore, diversa localizzazione può avere il provider, e molteplici e dislocati nei più svariati Stati i singoli “nodi” di trasmissione, possono presentarsi allora non pochi problemi relativi al tempus ed al locus commissi delicti, anche in relazione alla coppia condotta/evento, con innegabili ripercussioni anche sul versante processuale, se non altro in ordine alla competenza, ovvero quelli relativi alla eventuale responsabilità penale di altri soggetti, quali gli amministratori od i controllori della rete e/o del singolo mezzo o della “testata” informatica.
Ma non è su questo piano che vogliamo soffermarci, bensì sugli effetti che il diritto di cronaca, esercitato dai mass media, quale espressione della libera manifestazione del pensiero, possa avere sulla giustizia penale, nella sua fase procedimentale, più marcatamente investigativa, ed in quella processuale: in altri termini, se e quali limiti siano posti e penalmente sanzionati in ordine alla rivelazione degli atti connessi e del loro contenuto, posto che tale pubblicizzazione potrebbe condizionare l’esito delle indagini e/o del processo, influenzare il giudice del dibattimento, favorire la fuga dell’indagato/imputato ovvero l’inquinamento delle prove, oppure ancora vulnerare i terzi nel loro fondamentale diritto alla privacy. Si tratta, insomma, di chiederci, in primo luogo, quali siano le norme del diritto penale sostanziale che puniscano la violazione del segreto investigativo (tempo addietro veniva definito come “segreto istruttorio”) e di quello processuale.
La prima disposizione da prendere in esame è l’art. 684 c.p., rubricato Pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale (come modificato dall’art. 48 della legge 24 novembre 1981, n. 689), in forza del quale “chiunque pubblica, in tutto o in parte, anche per riassunto o a guisa d’informazione, atti o documenti di un procedimento penale, di cui sia vietata per legge la pubblicazione, è punito con l’arresto fino a trenta giorni o con l’ammenda da euro 51 a euro 258”.
Da suo canto, la norma successiva, l’art. 685 c.p., rubricato Indebita pubblicazione di notizie concernenti un procedimento penale, punisce con l’arresto fino a quindici giorni o con l’ammenda da 25 a 103 euro “chiunque pubblica i nomi dei giudici, con l’indicazione dei voti individuali che ad essi si attribuiscono nelle deliberazioni prese in un procedimento penale”.
Trattasi, pertanto, di contravvenzioni: punibili, ex art. 42, comma 4, c.p., sia a titolo di dolo che a quello di colpa, mentre non solo la sanzione è particolarmente mite, ma essendo prevista la pena alternativa fra l’arresto e l’ammenda, è pure possibile l’oblazione facoltativa, di cui all’art. 162-bis c.p.
Fermandoci sulla fattispecie base dell’art. 684, si noti come la struttura del precetto rinvia, per il suo completamento, alle disposizioni del codice di rito che vietano la pubblicazione di atti o documenti di un procedimento penale: tant’è che parte della dottrina la situa nell’ambito delle c.d. norme penali in bianco piuttosto che in quelle meramente sanzionatorie.
La principale disposizione cui fare riferimento è l’art. 114 c.p.p., rubricato Divieto di pubblicazione di atti e di immagini, più volte integrato e modificato (art. 14, legge 16 dicembre 1999, n . 479; art. 10, legge 3 maggio 2004, n. 112).
Il primo comma stabilisce un divieto generale ed assoluto: “è vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, degli atti coperti dal segreto o anche solo del loro contenuto”. Divieto assoluto, poiché coinvolge sia gli atti sia il contenuto degli stessi.
Dopo il divieto assoluto di cui al primo comma, il capoverso dispone che “è vietata la pubblicazione, anche parziale degli atti, non più coperti dal segreto fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare”. E si noti come il divieto sia divenuto relativo, investendo solo gli atti stessi e non più il loro contenuto.
Inoltre, ai sensi del terzo comma, “se si procede al dibattimento, non è consentita la pubblicazione, anche parziale, degli atti del fascicolo del pubblico ministero [come risultante dopo la sentenza 24 febbraio 1995, n. 59. della Corte costituzionale], se non dopo la pronuncia della sentenza in grado di appello”, mentre “è sempre consentita la pubblicazione degli atti utilizzati per le contestazioni”.
Da suo canto, il comma 4 dispone che “è vietata la pubblicazione, anche parziale, degli atti del dibattimento celebrato a porte chiuse nei casi previsti dall’art. 472 commi 1 e 2” ed “in tali casi il giudice, sentite le parti, può disporre il divieto di pubblicazione anche degli atti o di parte degli atti utilizzati per le contestazioni. Il divieto di pubblicazione cessa comunque quando sono trascorsi i termini stabiliti dalla legge sugli archivi di Stato ovvero è trascorso il termine di dieci anni dalla sentenza irrevocabile e la pubblicazione è autorizzata dal ministro della giustizia”.
Peraltro, ai sensi del comma 5, “se non si procede al dibattimento, il giudice, sentite le parti, può disporre il divieto di pubblicazione di atti o di parte di atti quando la pubblicazione di essi può offendere il buon costume o comportare la diffusione di notizie sulle quali la legge prescrive di mantenere il segreto nell’interesse dello Stato ovvero causare pregiudizio alla riservatezza dei testimoni o delle parti private”.
In ogni caso, ai sensi del comma 6, “è vietata la pubblicazione delle generalità e dell’immagine dei minorenni testimoni, persone offese o danneggiati dal reato fino a quando non sono divenuti maggiorenni” ed “è altresì vietata la pubblicazione di elementi che anche indirettamente possono comunque portare alla identificazione dei suddetti minorenni”, per quanto “il tribunale per i minorenni, nell’interesse esclusivo del minorenne, o il minorenne che ha compiuto i sedici anni, può consentire la pubblicazione”.
A seguito di deplorevoli fatti di cronaca, il comma 6-bis vieta “la pubblicazione dell’immagine di persona privata della libertà personale ripresa mentre la stessa si trova sottoposta all’uso di manette ai polsi ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica, salvo che la persona vi consenta”.
Infine, il comma 7, quale norma di chiusura, dispone che “è sempre consentita la pubblicazione del contenuto di atti non coperti dal segreto”.
Accanto a tale disposizione, l’art. 13 del D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, attinente al c.d. processo penale minorile, vieta “la pubblicazione e la divulgazione, con qualsiasi mezzo, di notizie o immagini idonee a consentire l’identificazione del minorenne comunque coinvolto nel procedimento”, a meno che il Tribunale per i minorenni non proceda ad udienza pubblica dopo l’inizio del dibattimento.
Ci si può chiedere, in ogni modo, quali siano gli atti coperti dal segreto relativamente alla fase delle indagini preliminari. La risposta la troviamo nell’art. 329 c.p.p., rubricata, per l’appunto, Obbligo del segreto. Ai sensi del primo comma, “gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari”.
Peraltro, come dispone il comma 2, “quando è necessario per la prosecuzione delle indagini, il pubblico ministero può, in deroga a quanto previsto dall’art. 114, consentire, con decreto motivato, la pubblicazione di singoli atti o di parti di essi” e, “in tal caso, gli atti pubblicati sono depositati presso la segreteria del pubblico ministero”.
Inoltre, ai sensi del comma 3, “anche quando gli atti non sono più coperti dal segreto a norma del comma 1, il pubblico ministero, in caso di necessità per la prosecuzione delle indagini, può disporre, con decreto motivato”, da un lato, “l’obbligo del segreto per singoli atti, quando l’imputato lo consente o quando la conoscenza dell’atto può ostacolare le indagini riguardanti altre persone” e, dall’altro lato, “il divieto di pubblicare il contenuto di singoli atti o notizie specifiche relative a determinate operazioni”. Di non poco conto, quindi, la complessa articolazione delle norme integrative del precetto di cui alla fattispecie incriminatrice dell’art. 684 c.p., da cui avevamo preso le mosse, e non solo per il gioco dei continui richiami, anche se non normativamente espressi, ma, anche, e soprattutto, perché riferibile alle varie scansioni processuali
Infatti, solo tenendo presente il quadro nel suo complesso è possibile individuare il bene protetto di tale disposizione penale. Infatti, non può più trattarsi della mera tutela del segreto istruttorio, come evidenziato nella stessa Relazione ministeriale, ma, più esattamente, come peraltro sostenuto dalla Corte costituzionale (sentenza 3 dicembre 1987, n. 457), di un reato plurioffensivo. Ed alludiamo non solo alla tutela della riservatezza di determinati soggetti “deboli”, quale il minore o l’arrestato, quanto al netto riferimento alla disciplina del c.d. “doppio fascicolo”, che impedisce al giudice di conoscere quanto contenuto nel fascicolo del pubblico ministero, dovendo egli formare il suo convincimento da quanto gli viene proposto dalle testimonianze, le perizie ed ogni genere di prova esperita nell’istruttoria e nel contraddittorio dibattimentale.
In definitiva, allora, accanto al segreto investigativo in ordine alla genuinità della prova, la norma viene a tutelare la terzietà ovvero, se si preferisce, la “naturalità” del giudice, nell’ambito della presunzione di non colpevolezza dell’imputato. Ecco, dunque, il ritorno ai principi costituzionali (qui nelle vesti degli artt. 25, comma 1, e 27, comma 2) che si pongono come limite equilibrato al diritto di cronaca, di cui all’art. 21 Cost. A fronte del complesso quadro che finora è andato delineandosi in ordine alle norme processuali richiamate, cui non sono, forse, da escludere aporie tecnico-giuridiche, e tenendo sempre presente la nostra chiave di lettura, che è quella del diritto penale sostanziale, è bene tornare alla norma base incriminatrice: id est, allo stato, all’art. 684 c.p., che punisce l’autore della pubblicazione degli atti processuali così come già variamente individuati.
Un problema di coordinamento potrebbe sorgere in riferimento alla norma processuale che sancisce il segreto relativo e non assoluto, ossia coinvolgente l’atto e non il suo contenuto, mentre l’art. 684 c.p. punisce la pubblicazione degli atti o documenti, non solo totale o parziale, ma anche quella “per riassunto o a guisa d’informazione”. Ebbene dottrina e giurisprudenza, nei limiti in cui, non frequentemente invero, si sono poste il problema, lo hanno risolto nel senso di fare leva sul senso stesso della legge penale in bianco, ossia sul necessario riferimento alla disciplina processuale sul segreto e nelle sue articolazioni, per cui, come è stato rilevato, la pubblicazione del contenuto di atti, quando non sia vietata dalle norme processuali, deve considerarsi penalmente irrilevante.
Il reato è comune, potendo essere commesso da “chiunque”; tuttavia, tale fattispecie deve coordinarsi con quella di cui all’art. 326 c.p., relativa alla Rivelazione di segreti d’ufficio, il quale dispone che “il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio che, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualità, rivela notizie di ufficio, le quali debbano rimanere segrete, o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni” (comma 1). Peraltro, “se l’agevolazione è soltanto colposa, si applica la reclusione fino a un anno” (comma 2). È, dunque, a tale fattispecie che deve ricondursi la divulgazione di notizie relative al processo coperte dal segreto da parte di magistrati, ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, cancellieri, periti, interpreti, altri ausiliari del giudice: ossia, in altri termini, tutti coloro che, a causa della loro qualifica soggettiva pubblicistica, sono tenuti al segreto.
Ci si può chiedere se, seguendo alla rivelazione pure la pubblicazione, ci si trovi di fronte ad un concorso di reati ovvero ad un concorso apparente di norme, ove la prima assorbe la seconda. Invero, tale ultima soluzione deve ritenersi solo in ipotesi di un’unica condotta, tale da dar vita ad un concorso formale di reati (art. 81, comma 1, c.p.), mentre in ipotesi di condotte distinte deve ritenersi la possibilità del concorso di reati, seppur uniti, se del caso, dal vincolo della continuazione (art. 81, comma 2, c.p.).
Sfuggono, ovviamente, a tale casistica i difensori, le parti private, i consulenti tecnici delle parti, i testimoni e le persone informate dei fatti, nei cui confronti non può operare l’art. 326 c.p.
A tale proposito, tuttavia, deve richiamarsi un’ulteriore disposizione: trattasi dell’art. 379-bis c.p., rubricato Rivelazione di segreti inerenti a un procedimento penale, in forza del quale, “salvo che il fatto costituisca più grave reato [ad esempio:
- Rivelazioni di segreti di Stato (art. 261 c.p.);
- Rivelazione di segreti d’ufficio (art. 326 c.p.), chiunque rivela indebitamente notizie segrete concernenti un procedimento penale, da lui apprese per avere partecipato o assistito ad un atto del procedimento stesso, è punito con la reclusione fino ad un anno”. Reato proprio, dunque, di chi, protagonista o spettatore, a qualsiasi titolo, di un atto del procedimento penale, e così apprendendo notizie coperte dal segreto e concernenti il procedimento stesso, le riveli. Ed anche in tale ipotesi, peraltro, sarà sempre possibile il concorso, se effettuato in distinte condotte, fra tale norma e l’art. 684 c.p.
Rimane sempre aperta la possibilità, peraltro altamente frequente, che distinte siano le persone, e, di converso, le responsabilità penali, in ordine a chi rivela ed a chi pubblica la notizia destinata a rimanere segreta. Ovviamente, non può escludersi il concorso di persone nei due reati. Così, non solo il rivelatore, ricorrendone le fattispecie, come si è visto, potrà rispondere in concorso dei reati di cui agli artt. 326 e 684 c.p., ovvero di cui agli artt. 379-bis e 684 c.p., ma, parimenti, colui che pubblica la notizia risponderà dei reati propri del rivelatore ove lo abbia determinato o istigato a commettere tali delitti; e, in quest’ultima ipotesi, trattandosi di reati propri, varranno le note regole che disciplinano il concorso dell’extraneus nel reato dell’intraneus.
L’orizzonte normativo, peraltro, non può ancora dirsi completo. In tema di indagini difensive (legge 7 dicembre 2000, n. 397), l’art. 391-quinquies c.p.p. prevede il Potere di segretazione del pubblico ministero, disponendo che, “se sussistono specifiche esigenze attinenti all’attività d’indagine, il pubblico ministero può, con decreto motivato, vietare alle persone sentite di comunicare i fatti e le circostanze oggetto dell’indagine di cui hanno conoscenza” e tale “divieto non può avere la durata superiore a due mesi”. Peraltro, ai sensi del capoverso, il pubblico ministero, nel comunicare tale divieto, “alle persone che hanno rilasciato le dichiarazioni, le avverte delle responsabilità penali conseguenti all’indebita rivelazione delle notizie”.
Il riferimento va rapportato al citato art. 379-bis c.p., il quale, dopo aver previsto la cennata fattispecie di Rivelazione di segreti inerenti a un procedimento penale, conclude affermando che “la stessa pena si applica alla persona che, dopo aver rilasciato dichiarazioni nel corso delle indagini preliminari, non osserva il divieto imposto dal pubblico ministero ai sensi dell’art. 391-quinquies del c.p.p.”.
Siamo, dunque di fronte ad un’ulteriore ipotesi, ristretta a quei soggetti che, nel contesto delle indagini difensive, abbiano reso le richieste dichiarazioni, le quali siano state poi oggetto dell’ordine di segretazione da parte del pubblico ministero.
L’esegesi di tale norma si accentra sulla dizione “fatti e circostanze oggetto dell’indagine”: ben diversa dal “divieto di rivelare le domande eventualmente formulate dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero e le risposte date” di cui all’art. 392-bis, comma 3, lett. e) c.p.p.
A questo proposito, le interpretazioni possibili sono due. Nella prima, “i fatti e le circostanze oggetto dell’indagine” sono intesi nel senso di vietare la comunicazione dell’esistenza di un’indagine su tali fatti e circostanze: come dire che il soggetto non solo non può rivelare al difensore, com’è scontato, le domande rivoltegli dalla parte pubblica e le risposte da lui date, ma non può neanche rivelare qual’è l’oggetto dell’indagine da questa svolta, id est su che cosa il pubblico ministero sta indagando. Ciò posto, può tuttavia sempre rispondere al difensore in ordine agli stessi fatti e circostanze, ove su questi venisse interpellato.
Nella seconda interpretazione i termini “fatti e circostanze oggetto dell’indagine” vanno intesi come “fatti e circostanze del reato oggetto dell’indagine”: cosicché sui fatti e le circostanze del reato il soggetto, se interpellato dal difensore o da qualsiasi terzo, non può comunque ed in ogni caso rispondere. In altri termini, in questa ipotesi, il pubblico ministero, tramite il previsto divieto (peraltro non impugnabile), può bloccare per due mesi l’attività investigativa del difensore relativamente a quelle persone informate sui fatti che egli ha già sentito, e che debbono opporgli il segreto su qualsiasi domanda attinente quel determinato reato.
A questo punto pare indispensabile chiedersi se il reato di Pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale, di cui all’art. 684 c.p., sia pur nella complessa casistica effettuata, ove commesso da un giornalista, possa venir scriminato dal c.d. diritto di cronaca, riconducibile al più generico art. 51 c.p. (la causa di giustificazione dell’Esercizio di un diritto) ed inteso nello spirito dell’art. 21 Cost.
La risposta, finora, è sempre stata negativa. In primo luogo, perché, come già visto, le norme penali citate sono poste a garanzia del regolare andamento della giustizia, bene parimenti di rilevanza costituzionale, in modo da costituire un delicato bilanciamento tra esigenze di corretta informazione dell’opinione pubblica sulle vicende giudiziarie e quelle volte a non compromettere lo svolgimento di procedimenti giudiziari in corso a causa della diffusione di determinate notizie.
In secondo luogo, perché, come affermato dalla giurisprudenza sul tema, l’esistenza di un diritto attribuito da una determinata norma non è sufficiente per escludere automaticamente la punibilità di ogni condotta dell’agente, occorrendo anche che la condotta sia prevista e permessa o dalla stessa norma che costituisce la fonte del diritto o da altra norma: che qui, invero, non sussisterebbe.
Più di recente, tuttavia, viene richiamato un diverso orientamento che, seppur sorto in ordine ai rapporti fra diritto di cronaca e delitto di diffamazione a mezzo stampa (art. 595, comma 3, c.p.), afferma che un punto di equilibrio nella tutela di queste due posizioni soggettive potenzialmente confliggenti può trovarsi, nel senso che il c.d. diritto di cronaca può essere esercitato anche quando ne derivi una lesione all’altrui reputazione, ma l’esistenza di altri diritti di pari dignità costituzionale impone che vengano rispettati precisi limiti, che vengono ricondotti nelle finalità sociali della cronaca, e nella sua specifica funzione di informare il pubblico, di orientarlo e comunque garantire la trasparenza della vita sociale.
Viene così esclusa la sussistenza del reato di diffamazione, ai sensi dell’art. 51 c.p., che prevede la scriminante dell’esercizio di un diritto, nell’ipotesi in cui sussistano la verità del fatto narrato, l’interesse attuale e pubblico alla divulgazione del fatto (la c.d. pertinenza), e la continenza della forma espressiva, ossia che l’esposizione dei fatti e della loro valutazione sia improntata a “leale chiarezza”, evitando forme di offesa indiretta e senza superare il limite di correttezza del linguaggio, evitando un tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato (specie nei titoli) o comunque l’artificiosa e sistematica drammatizzazione con cui si riferiscono notizie neutre perché insignificanti o comunque di scarsissimo valore sintomatico.
Ed è, dunque, a questi criteri (verità, pertinenza, continenza) che la più recente dottrina fa richiamo, rilevando che le norme le quali proibiscono la divulgazione di notizie inerenti ai procedimenti penali non sempre costituiscono un limite insuperabile all’esercizio del diritto di cronaca.
Un ultimo riferimento ad un problema, invero risalente nel tempo, ma che, proprio di recente, ha suscitato vaste reazioni nel mondo giuridico, negli stessi media, e nell’opinione pubblica. Alludiamo alla questione delle intercettazioni telefoniche, le cui trascrizioni sono apparse sulla stampa, ove la conversazione captata nulla aveva a che fare con la possibile ipotesi criminosa, in ordine alla quale erano state disposte, ma, effettuate con terzi estranei, palesavano rapporti di vario tipo, con netta violazione della loro privacy, specie se venivano coinvolti personaggi eccellenti della politica, dello spettacolo, dell’economia, della finanza e via dicendo.
Ebbene, appare superfluo rimarcare gli interessi di rango costituzionale in gioco (dalla corretta ed efficiente amministrazione della giustizia al diritto di difesa dell’indagato; dalla tutela dei diritti, dell’onore e della dignità di terzi al diritto di cronaca dei media) e come, da lungo tempo, si vada parlando di una modifica delle norme sottese, peraltro mai giunta in porto.
Ed è proprio in relazione a questo effervescente clima che si è andato creando, che il Ministro della giustizia ha presentato, lo scorso 30 giugno 2008, un Disegno di legge (C n. 1415), recante Norme in materia di intercettazioni telefoniche, telematiche e ambientali. Modifica della disciplina in materia di astensione del giudice e degli atti di indagine. Integrazione della disciplina sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche. E, sullo stesso tema, altri parlamentari hanno presentato analoghe proposte di legge (on. Contento: C n. 406; onn. Tenaglia, Veltroni e Ferranti: C n. 1510; onn. Vietti e Rao: C n. 1555). I vari provvedimenti sono attualmente all’esame della Commissione Giustizia della Camera, che ne ha, peraltro, disposto l’esame unificato.
Non è questa la sede per analizzare in dettaglio il citato Disegno di legge governativo, il quale, come delinea la relazione che lo accompagna, contiene una nuova disciplina delle intercettazioni disposte nel procedimento penale, rendendo inoltre più rigorosi i divieti di pubblicazione degli atti, gli obblighi di astensione del giudice e i casi di sostituzione del pubblico ministero, contemperando le necessità investigative con il diritto dei cittadini a vedere tutelata la propria riservatezza, soprattutto quando estranei al procedimento.
Saranno, dunque, i processualisti a delinearne le linee portanti: le nuove definizioni, i nuovi limiti di ammissibilità ed all’uso endoprocedimentale dei risultati, il regime dell’inutilizzabilità e di distruzione delle intercettazioni illegittime e/o irrilevanti e via dicendo.
Vogliamo, invece, ratione materiae, evidenziare schematicamente le novellazioni che riguardano il diritto penale sostanziale, contemplate nell’art. 13 del disegno di legge, alcune delle quali vengono a coinvolgere anche quelle disposizioni del codice penale, sulle quali ci siamo intrattenuti supra.
Innanzi tutto, viene riformulato l’art. 309-ter c.p. (Rivelazione illecita di segreti inerenti ad un procedimento penale) aumentando la reclusione da uno a cinque anni per “chiunque rivela indebitamente notizie inerenti ad atti del procedimento penale coperti dal segreto dei quali è venuto a conoscenza in ragione del proprio ufficio o servizio svolti in un procedimento penale o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza”, prevedendo altresì una diminuzione di pena ove il fatto sia commesso per colpa. Pertanto, la norma appronta una tutela penale fondata sull’accesso “qualificato” agli atti del procedimento penale e si pone in termini di specialità rispetto all’art. 326 c.p., che contempla la rivelazione dei segreti d’ufficio.
In secondo luogo, viene modificato l’art. 614 c.p. (Violazione di domicilio), attraverso la riformulazione del concetto di privata dimora. In questo modo viene estesa la portata applicativa della norma, così da rendere penalmente rilevante ogni intrusione non autorizzata in luogo privato.
In terzo luogo, viene introdotto nel codice penale l’art. 617-septies, rubricato Accesso abusivo ad atti del procedimento penale, che punisce con la reclusione da uno a tre anni “chiunque mediante modalità o attività illecita prende diretta cognizione di atti del procedimento penale coperti dal segreto”. Siffatta formulazione consente di escludere la responsabilità penale di chi si limiti a ricevere tali atti, senza concorrere nell’accesso illecito ai luoghi ove gli stessi vengono custoditi.
In quarto luogo, viene riformulato l’art. 684 c.p. (Pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale) inasprendone le sanzioni: ora, pur mantenendo la sua natura contravvenzionale, è prevista la pena dell’arresto fino a sei mesi congiunta con l’ammenda da 250 a 750 euro, rendendo pertanto impossibile il ricorso all’oblazione. Inoltre, viene introdotto un capoverso, che prevede la più grave pena dell’arresto da uno a tre anni e dell’ammenda da 500 a 1032 euro, “se il fatto di cui al primo comma riguarda le intercettazioni di conversazioni o comunicazioni telefoniche, le altre forme di telecomunicazione, le immagini mediante riprese visive e l’acquisizione della documentazione del traffico delle conversazioni o comunicazioni stesse”.
Infine, in relazione alle condotte di pubblicazione arbitraria, l’art. 14 del disegno di legge introduce, in subiecta materia, il principio della responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche, inserendo l’art. 25-novies nel d.lg.vo 8 giugno 2001, n. 231. In forza di tale norma, ed in relazione alla commissione del reato di cui all’art. 684 c.p., viene applicata all’ente editore la sanzione pecuniaria da cento a trecento quote. Com’è noto, siffatta responsabilità dell’ente può essere esclusa, qualora questi dimostri di avere adottato, nella sua organizzazione interna, dei codici di condotta che rendono il fatto di reato (nel nostro caso: la pubblicazione arbitraria) non attribuibile all’inosservanza delle regole di governance.
Altre disposizioni concernono, in chiusura, la legge sulla stampa, il codice in materia di protezione dei dati personali, ed alcune norme transitorie.
Allo stato, non sappiamo se tale disegno di legge, magari contemperando le altre proposte nella medesima materia, verrà approvato dalle Camere e con quali modifiche che, man mano, incontrerà nel suo iter parlamentare: peraltro è già stato sottoposto ad analisi e ad accurate critiche. E certamente altre sopraggiungeranno.
Sicuramente il tratto positivo è rappresentato proprio dall’interesse che esso suscita, e dalle discussioni, i contributi, specie di elevata qualità, che la dottrina giuridica, al pari delle forze politiche, vorranno esprimere sul tema. Il che ci fa confidare in una eventuale formulazione condivisa, che non sia solo di compromesso, che non soffra di contraddizioni e, soprattutto, in linea con i principi costituzionali e con quelli degli atti sovranazionali sui diritti dell’uomo da tempo ratificati ed ora diritto vivente nel nostro ordinamento giuridico.



Approfondimenti

(*) - Testo della Relazione tenuta a Roma, presso l’Istituto Superiore di Polizia, il giorno 21 ottobre2008, nel corso della Tavola Rotonda dedicata a Mass media e Giustizia penale.