La responsabilità penale e amministrativa delle imprese

Marco Latini





Marco LATINI


Capitano dei Carabinieri
Comandante della Compagnia di Modica (RG)


1. Premessa

L’esigenza di introdurre nel nostro ordinamento una forma di responsabilità penale per le persone giuridiche è stata da tempo sentita, soprattutto in virtù di una crescente criminalità di impresa che, giovando della complessità e della articolazione globale delle nuove forme di business, ha conquistato maggiore spazio anche grazie a un sistema di controllo legato esclusivamente all’accertamento delle responsabilità individuali e soprattutto grazie alla esclusiva sanzione delle persone fisiche ivi operanti. Le imprese pertanto, per contrastare la sempre più spietata concorrenza e ottenere maggiori risultati in termini di performance, hanno talvolta incentivato comportamenti illegali dei propri dipendenti senza dover correre rischi.
Per porre rimedio a tale stortura, è stata introdotta la disciplina della responsabilità degli enti attraverso il D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, in attuazione della legge delega 29 settembre 2000 n. 300 con cui lo Stato ratifica e da esecuzione alla Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee (26/7/1995), alla Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell’Unione europea (26/5/1997) e alla Convenzione O.C.S.E. sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali (17/12/1997).
Tale disposizione innova in maniera radicale il nostro ordinamento ribaltando il dogma della scienza penalistica italiana societas delinquere non potest,  sancito nell’art. 27 della Costituzione e da sempre interpretato in maniera rigorosa secondo cui l’inciso “La responsabilità penale è personale”, era incompatibile con una qualunque responsabilità penale delle persone giuridiche o degli enti.
La responsabilità penale veniva fondata su una concezione etica e psicologica della colpevolezza che poteva sussistere solo in relazione a fattori fisici, psicologici e psichici che sono in capo alla persona fisica.
L’ente giuridico privo di comportamenti volitivi colpevoli, non poteva essere considerato imputabile e pertanto l’art. 197 c.p. prevedeva a carico degli enti e in relazione ai reati commessi dai soggetti che ne avevano la rappresentanza, solo un’obbligazione (di garanzia) volta al pagamento, in caso di insolvibilità del condannato, di una somma pari all’ammontare della multa o dell’ammenda inflitta, nel caso in cui il reato sia stato commesso nell’interesse della persona giuridica.
La dottrina, per aggirare lo sbarramento di cui all’art. 27 della Costituzione, già in passato si era appoggiata alla teoria organicistica, oggi prevalente, in base alla quale, essendovi una immedesimazione tra ente ed organo rappresentante, il reato può essere attribuito direttamente alla persona giuridica, senza necessità di individuare una persona fisica a cui attribuire la responsabilità.
Il decreto, nella sua formulazione iniziale, è stato caratterizzato da un notevole grado di self-restraint, al limite del difetto di delega, rigettando la concezione universalistica del sistema di responsabilità degli enti collettivi e costruendo la “parte speciale” sulla base di una concezione esclusivamente triforme di delitti-matrice: concussione, corruzione e frode.
Il legislatore, resosi conto di tale limite, ha ampliato l’elenco dei reati matrice con una serie di norme (vds. par. 3) grazie alle quali la legge è divenuta uno strumento di contrasto alla criminalità, non solo economica, di estremo valore e che, se nei prossimi anni verrà tenuto in debita considerazione, potrà avere effetti estremamente importanti sulle future forme di contrasto alla criminalità organizzata.


2. Parte sostanziale

Nello svolgere l’analisi dei profili sostanziali della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, prenderemo le mosse dal definire con precisione l’ambito dei possibili soggetti collettivi responsabili per poi approdare al cuore della parte generale del nuovo sistema rappresentato dalle norme che definiscono i criteri “oggettivi” e “soggettivi” di attribuzione della responsabilità alla persona giuridica.

a. I soggetti interessati dall’operatività dal D.lgs. 231/2001

L’art. 1, ai commi 2 e 3, del d.lgs. 231/2001, prevede che le disposizioni dello stesso si applicano agli enti forniti di personalità giuridica e alle società e associazioni anche prive della stessa, esclusi però lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli altri enti pubblici non economici nonché gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale.
La nuova normativa tipizza i soggetti attivi e non lascia adito a dubbi e la scelta del termine “ente”, piuttosto che “persona giuridica”, è stata dettata dalla volontà di rispettare l’inequivoca volontà della delega di estendere la responsabilità anche a soggetti sprovvisti di personalità giuridica pur tuttavia essendo prevalentemente le società commerciali i soggetti principalmente interessati dal fenomeno. Tale dato è stato sottolineato in maniera evidente nella Relazione al decreto, nella parte in cui chiarisce che gli enti “a soggettività privata” appartengono a quella categoria di soggetti di diritto che, “potendo più agevolmente sottrarsi ai controlli statali, sono a ‹‹maggior rischio›› di attività illecite ed attorno ai quali appare dunque ingiustificato creare vere e proprie zone di immunità”.
Per espressa previsione la norma non si applica agli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale e tra questi quindi a partiti politici e sindacati. Esclusione dettata senza dubbio dalla preoccupazione di evitare l’utilizzo strumentale nei loro confronti delle gravose e penetranti sanzioni interdittive, come strumento di controllo politico e di repressione del dissenso.
L’esplicita esclusione dello Stato ed egli enti pubblici territoriali potrebbe avere una logica visto il carattere prevalentemente economico delle sanzioni; si presenta però in maniera discontinua rispetto al citato art. 197 c.p., che non contempla tale esclusione nel prevedere l’obbligazione civile di garanzia della persona giuridica.
L’esclusione degli enti che esercitano pubblici poteri preclude poi senz’altro la riferibilità dell’impianto normativo alle singole Pubbliche Amministrazioni.
Viceversa, i cosiddetti enti pubblici economici sono enti a soggettività pubblica ma, essendo privi di pubblici poteri, agiscono iure privatorum, meritando per questo un’equiparazione agli enti a soggettività privata anche sotto il profilo della responsabilità amministrativa derivante da reato.
Dall’analisi finora svolta sono rimaste escluse due importanti categorie: gli enti pubblici associativi egli enti pubblici che erogano un pubblico servizio. Con riferimento ai primi, parrebbe trattarsi di vere e proprie “specie in via di estinzione”, a causa della forte tendenza alla privatizzazione (avviatasi nel nostro Paese fin dai primi anni Novanta) che presumibilmente ne comporterà la scomparsa entro breve termine; per i secondi, invece, la loro esclusione dalla disciplina sanzionatoria della nuova legge viene motivata dalla Relazione ministeriale al decreto sul presupposto che l’eventuale applicazione di sanzioni di natura interdittiva agli enti pubblici esercenti un pubblico servizio, comporti un inevitabile “scarico” dei costi sulla collettività.

b. I criteri oggettivi di attribuzione della responsabilità

L’art. 5 identifica le persone fisiche in grado di impegnare direttamente la società sul terreno sanzionatorio penale-amministrativo individuando criteri oggettivi di collegamento.
Il primo di tali criteri è dato dall’aver agito nell’interesse o a vantaggio dell’ente. La soluzione adottata dal D.lgs. 231/2001 opera una chiara distinzione tra i concetti di “interesse” e “vantaggio”. Con il primo termine si dovrà fare riferimento alla direzione finalistica dell’atto ovvero a quella volontà di indebito arricchimento da ricercarsi a monte che l’agente ben si figura pur senza riuscire a realizzarlo in concreto. Il vantaggio deve essere invece ricercato ex post e qualificato come dato esclusivamente obiettivo, come utilità effettivamente conseguita ancorché non ricercata ex ante.
Sul piano dei soggetti “legittimati” ad agire per conto del’ente, il decreto, individua due distinte categorie: i soggetti in posizione apicale (lett. a) ed i soggetti in posizione subordinata (lett. b).
In relazione ai primi, vengono in considerazione i soggetti collocati ai vertici dell’organizzazione dell’ente che esprimono la volontà dello stesso in tutti i rapporti esterni e nelle scelte di politica d’impresa. La formula elastica prescelta si attaglia perfettamente al mutevole panorama economico globale includendo tulle le possibili situazioni. Nel novero di tali individui rientrano senz’altro le figure dell’amministratore unico e dell’amministratore delegato, oltre a colui che esercita funzioni di rappresentanza (legale rappresentante), di direzione (direttore generale), ed infine tutti coloro che svolgono queste stesse funzioni in una unità organizzativa dell’ente “dotata di autonomia finanziaria e funzionale” (art. 5,  co. 1, lett. a). La previsione risponde perfettamente alla diffusa e articolata realtà aziendale nella quale sono sempre più presenti figure dotate di autonomia gestionale sottratte al controllo centrale. Viene dato risalto infine a coloro che esercitano di fatto la gestione e il controllo dell’ente, pur in assenza di qualsiasi mandato formale o sostanziale. La nuova normativa tende con tale previsione ad impedire il verificarsi di ipotesi di elusione di responsabilità con fittizie attribuzioni di incarichi, ciò in linea anche con le più recenti analoghe innovazioni riguardo ai reati societari che con il D.lgs. 61/2002 prevedono l’estensione delle qualifiche soggettive in presenza di un esercizio continuativo e significativo dei poteri tipici della funzione. Ciò detto, la previsione dell’art. 5,  co. 1, lett. a, D.lgs. 231/2001 consente di escludere dal novero dei soggetti che attribuiscono responsabilità all’ente coloro che esercitano funzioni di mero controllo, in qualche modo assimilabili a quelle dei sindaci.
La lett. b) (del  co. 1 dell’art. 5), contempla invece la categoria delle persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti collocati in posizione apicale. La scelta operata risponde a precise ragioni di coerenza logica e adeguatezza politico-criminale e tiene conto della crescente complessità delle realtà economiche con diffuso utilizzo della delega e frammentazione operativa.

c. I criteri soggettivi di attribuzione della responsabilità

Gli agli artt. 6 e 7 tipizzano i criteri di attribuzione della responsabilità sul piano soggettivo sulla base della diversa “categoria di appartenenza” degli autori individuali.
Nel caso di reato commesso da soggetti collocati in posizione apicale, la maggiore incisività dei poteri attribuiti idonei a imprimere finalità e direzione alla politica aziendale fa comportare una più diretta responsabilità della società. Per dare attuazione formale al canone della colpevolezza, in tal caso, il legislatore, grazie al disposto dell’art. 6 ha previsto per l’ente la sola possibilità di interrompere il legame oggettivo e soggettivo col reato del dirigente qualora riesca a provare che:
-  sono stati adottati ed efficacemente attuati, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi;
-  è stato creato, all’interno della struttura della persona giuridica, un organismo dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo col compito di vigilare sul funzionamento e sull’osservanza di tali modelli e di curare il loro aggiornamento;
-  l’autore del reato ha agito eludendo fraudolentemente i modelli;
-  non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo di controllo.
Il sistema viene costruito con un’evidente deroga al principio dell’onere della prova e della presunzione di innocenza: non sarà infatti il Pubblico Ministero a dover dimostrare l’accusa in giudizio, ma la società a dover provare la mancanza di colpa organizzativa. La misura della “colpevolezza” della persona giuridica, in tal modo costruita sotto forma di “scusante”, finalizzata a prevenire il rischio del reato da parte dei vertici, ricorda molto la cd. misura oggettiva della colpa, estranea al nostro sistema penale e assimilabile esclusivamente alla costruzione utilizzata per la valutazione del rischio imposta alle imprese dalla legislazione in tema di sicurezza e di igiene nei luoghi di lavoro.
I modelli organizzativi aziendali volti a prevenire il rischio-reato pur se promananti da diverse conoscenze sono per operatività assimilabili a quelli previsti dalla 626/1994 e legati a considerazioni scientifiche, tecniche ed organizzative sul piano fattuale.
Per conseguire l’obiettivo della minimizzazione del rischio-reato, la norma impone che:
-  il modello di gestione ed organizzazione proceda innanzitutto all’individuazione di quelle sfere di attività più esposte al rischio di commissione di illeciti penali (art. 6,  co. 2, lett. a);
-  vengano successivamente previsti specifici protocolli di formazione ed attuazione delle decisioni dell’ente, in funzione dei tipi di attività nel cui ambito possono essere commessi reati (lett. b);
-  siano determinate le modalità di gestione delle risorse finanziarie in modo che siano idonee a impedire o a ridurre il rischio di commissione di reati (lett. c);
-  vengano garantiti regolarmente i flussi informativi, tramite la previsione di obblighi di informazione verso l’organo interno di controllo (lett. d);
-  sia data al modello una efficace attuazione, tramite la previsione di un sistema disciplinare che permetta di sanzionare il mancato rispetto delle misure in esso previste (lett. e).
Il legislatore ha puntato in maniera preminente sullo strumento del compliance program come si evince anche dalla lettura di disposizioni successive nello stesso testo di legge ed in particolare agli artt. 17(1) e 49(2).
La norma prevede espressamente (art. 6,  co. 3) inoltre la possibilità che i modelli organizzativi e gestionali siano adottati sulla base di codici di comportamento redatti dalle Associazioni rappresentative degli enti e comunicati al Ministero della Giustizia il quale ha facoltà, nel termine di trenta giorni, di formulare osservazioni in merito all’idoneità degli stessi a prevenire i reati.
La preventiva adozione ed implementazione di un modello conforme ai protocolli di categoria non potrà però garantire all’ente un’aprioristica e generalizzata impunità: spetta infatti comunque al giudice l’ultima parola in ordine all’idoneità del modello.
L’art. 6 chiude con la previsione al  co. 5 dell’applicabilità della confisca del profitto che l’ente ha tratto dal reato, anche nella forma per equivalente.
Il successivo art. 7 pone in relazione i modelli di organizzazione e gestione con i reati commessi dai soggetti sottoposti di cui all’art. 5,  co. 1, lett. b), rendendo responsabile la persona giuridica solo se tale commissione è stata “resa possibile” dall’inosservanza degli obblighi di direzione o di vigilanza.
Oltre al nesso eziologico tra l’inosservanza degli obblighi e la realizzazione del reato da parte del dipendente è in tal caso richiesta una più accentuata valutazione del principio di colpevolezza dell’ente legato alla minore possibilità per il sottoposto di esprimere, con le proprie azioni, la politica aziendale.
Il  co. 2, stabilisce inoltre che in ogni caso è esclusa (ope legis) l’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza se l’ente, prima della commissione del reato, ha adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.
Da ciò si desume come i modelli vadano pertanto diversificati in ragione dello specifico rischio reato da prevenire.
Anche in questo caso, come nel caso di reati commessi dai vertici aziendali, è necessario che alla stesura del programma preventivo si accompagni la sua effettiva attuazione ( co. 4) mediante una costante opera di aggiornamento e la previsione di un sistema disciplinare.
Differenza sostanziale vi è inoltre per quanto riguarda l’onere della prova sulla mancata adozione del modello che, in tal caso, grava sull’accusa.

d. Autonomia della responsabilità dell’ente

La disposizione dell’art. 8, chiarisce in modo inequivocabile che l’ente risponda per un titolo autonomo di responsabilità. In particolare, la responsabilità amministrativa della persona giuridica sussiste anche quando l’autore del reato non sia stato identificato o non sia imputabile e il reato sia estinto per una causa diversa dall’amnistia.
Sebbene il meccanismo punitivo sia stato congegnato in modo da rendere le vicende processuali dei due soggetti di diritto (la persona fisica e quella giuridica) tra loro strettamente collegate secondo il principio del simultaneus processus, il titolo della responsabilità rimane scisso.
La responsabilità amministrativa dell’ente, pur presupponendo a monte, sempre e comunque, la realizzazione di un reato, non ne necessita l’attribuzione in senso proprio alla persona fisica sussistendo anche quando l’autore non è stato identificato o non è imputabile o il reato si estingue per causa diversa dall’amnistia [art. 8 co. 1. a) e b)].
L’amnistia è l’unica eccezione alla regola dell’irrilevanza delle cause di estinzione del reato presupposto e, per non lasciare poi che le sorti processuali della persona giuridica dipendano dalle scelte di merito della persona fisica, il legislatore ha stabilito (al  co. 2) che l’eventuale rinuncia all’amnistia da parte dell’imputato non sortisce effetti nei confronti dell’ente.
Parimenti all’ente viene conferita analoga facoltà di rinuncia ( co. 3), per non pregiudicare il suo interesse a che si addivenga ad una sentenza di assoluzione nel merito ex art. 66 D.lgs. 231/2001.


3. La “parte speciale” del decreto: i reati-matrice

Nel definire l’ampiezza del catalogo di reati ai quali estendere la responsabilità degli enti, l’esecutivo ha preliminarmente optato per la soluzione minimalista.
La responsabilità amministrativa della persona giuridica è stata prevista dagli artt. 24 e 25.
In particolare l’art. 24 co. 1 prevede quali reati presupposti i più gravi delitti commessi nei confronti della pubblica amministrazione che generino un rilevante danno patrimoniale allo Stato o ad altri enti pubblici(3). L’art. 25 estende la responsabilità degli enti ai fatti di concussione e di corruzione, richiamando espressamente l’art. 317 c.p., per la concussione, e gli artt. da 318 a 322 bis, per la corruzione.
Nel tempo però, vista l’utilità del modello, il legislatore ha ampliato l’elenco e tuttora vi sono ulteriori prospettive di sviluppo, soprattutto in relazione all’aggiunta all’elenco dei reati ambientali, allo sfruttamento del lavoro clandestino, ai reati informatici e a quelli in materia tributaria.
Fermandoci nel corso della presente analisi al dato normativo, occorre fare riferimento all’art. 6 del decreto-legge 25 settembre 2001, n. 350, il quale a seguito dell’introduzione dell’euro ha introdotto nel d.lgs. 231/2001, l’art. 25 bis, che prevede la punibilità degli enti in relazione alle principali fattispecie delittuose in materia di falso in monete(4).
Il D.lgs. 61 del 2002, di riforma dei reati societari, con l’art. 3 ha integrato il D.lgs. 231 del 2001 inserendo l’art. 25 ter, che fa riferimento, quali reati presupposti, a tutte quelle figure di reato dei singoli che possano determinare un vantaggio economico nei confronti della società(5). Tale articolo è stato modificato dall’art. 31 della legge 28 dicembre 2005, n. 262 che tra l’altro ha inasprito le pene.
In tale ambito occorre chiarire che ai fini della responsabilità amministrativa non rilevano, le fattispecie di cui agli artt. 2630, 2631, 2634, 2635 c.c.   Tale scelta deriva dal fatto che:
-  i delitti di infedeltà patrimoniale e di comportamento infedele, trattandosi di condotte contrarie all’interesse dell’ente e che arrecano, o possono arrecare, un danno allo stesso non possono comportare responsabilità dell’ente;
-  non coinvolge la società commissione degli illeciti amministrativi di impedito controllo (senza danno ai soci) e di omessa convocazione dell’assemblea, non essendo stato commesso un previo reato dalla persona fisica.
La norma civile prevede inoltre speciali cause di estinzione del reato qualora il soggetto attivo ponga in essere condotte “riparatorie” dell’interesse patrimoniale leso. Nell’illegale ripartizione degli utili (art. 2627 c.c.), la restituzione degli utili o la ricostituzione delle riserve prima della scadenza del termine previsto per l’approvazione del bilancio, estingue il reato. Parimenti avviene per le illecite operazioni sulle azioni o quote sociali o della società controllante (art. 2628 c.c.) in caso di ricostituzione del capitale e delle riserve prima della scadenza del medesimo termine e per le operazioni in pregiudizio dei creditori (art. 2629 c.c.), qualora prima del giudizio sia loro risarcito il danno.
Da ultimo in caso di indebita ripartizione dei beni sociali da parte dei liquidatori (art. 2633 c.c.), il risarcimento del danno ai creditori prima del giudizio estingue il reato. Nelle ipotesi di false comunicazioni sociali di cui agli artt. 2621, commi 3 e 4, e 2622, commi 5 e 6, la responsabilità della persona fisica è esclusa se le falsità o le omissioni determinano una variazione del risultato economico di esercizio, al lordo delle imposte, non superiore al 5%, con una variazione del patrimonio netto non superiore al 1%; il fatto non è inoltre punibile se è conseguenza di valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differiscono in misura non superiore al 10% da quella corretta. In tali casi di esclusione della responsabilità della persona fisica ci si chiede se l’ente possa essere ritenuto ugualmente responsabile. In attesa di pronunce in merito sembra più opportuno escludere tale responsabilità avendo il legislatore in tali casi ed al di sotto di tali soglie ritenuto assente proprio la rilevanza penale del comportamento della persona fisica.
La legge 14 gennaio 2003, n. 7, ha seguito della ratifica della Convenzione internazionale per la repressione del finanziamento del terrorismo di New York del 9 dicembre 1999, ha introdotto l’art. 25 quater in base al quale la persona giuridica risponde anche per i più gravi reati commessi dalle persone fisiche con reati con finalità di terrorismo o di eversione(6). La legge 9 gennaio 2006, n. 7, all’art. 8 ha aggiunto tra le condotte rilevanti le pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili di cui all’art. 583 bis c.p. introducendo l’art. 25 quater 1. Norma volta a perseguire le condotte delle organizzazioni confessionali islamiche dedite a tali pratiche. La legge 11 agosto 2003, n. 228, ha aggiunto all’elenco i più gravi delitti contro la personalità individuale introducendo l’art. 25 quinques(7).
La legge 18 aprile 2005, n. 62, art. 9, co. 3 - legge comunitaria 2004 ha aggiunto l’art. 25 sexies che prevede la punibilità degli enti a seguito della commissione dei reati di abuso di mercato, previsti dal Testo unico finanziario TUF D.lgs. 58/1998 agli art. 184 (abuso di informazioni privilegiate) e art.185 (manipolazione del mercato) e a seguito delle medesime figure di natura però contravvenzionale previste agli art. 187 bis e 187 ter.
La legge 3 agosto 2007, n. 123, art. 9 ha introdotto l’art. 25 septies, prevedendo la responsabilità dell’ente in relazione alla commissione dei reati di omicidio colposo art. 589 c.p. e lesioni colpose gravi o gravissime art. 590 c.p. commessi con violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela dell’igiene e della salute dei lavoratori.
Tale reato per il quale sono previste tra l’altro serie misure interdittive amplierà in maniera esponenziale l’applicazione della norma nel prossimo futuro in relazione alla rilevante incidenza di tali reati nell’attuale scenario.
Il D.lgs. 21 novembre 2007 n. 231 con l’art. 63, come modificato dall’art. 300 del D.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, ha introdotto l’art- 25 octies in relazione ai reati di ricettazione 648 c.p., riciclaggio 648 bis c.p. e impiego di denaro o beni di provenienza illecita 648 ter. c.p.
Da ultimo la legge 146/2006 di ratifica ed esecuzione della convenzione e dei Protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transazionale ha previsto l’assoggettamento degli enti alle sanzioni qualora in ambito transazionale vengano compiuti delitti di particolare disvalore sociale(8).

4. Il sistema sanzionatorio

Il sistema sanzionatorio, su cui si daranno soltanto alcuni cenni, è imperniato su sanzioni pecuniarie economiche e misure interdittive, a cui si accompagnano la sanzione della pubblicazione della sentenza e della confisca dell’illecito profitto.

a. Sanzioni pecuniarie

Il sistema è basato su un modello “bifasico” di commisurazione della sanzione pecuniaria con una duplice valutazione, una legata alla misura della responsabilità e l’altra alle condizioni patrimoniali dell’ente.
Il giudice in base ad un sistema di quote, differenziato tra minimo e massimo per ogni singola figura di reato, applicherà il numero di quote ritenuto più equo in base alla misura della responsabilità della persona giuridica.
Il valore della singola quota sarà invece deciso sempre tra un minimo e massimo normativamente stabilito in base ad una valutazione legata alla capacità economica e patrimoniale dell’ente.
L’entità della sanzione inflitta in concreto sarà dunque data dal prodotto dei due fattori: il numero delle quote e il singolo valore attribuito a ciascuna quota, il tutto però rispettando i limiti impartiti dalla legge delega, secondo cui il numero delle quote non può essere inferiore a cento, né superiore a mille.
I criteri di cui all’art. 11,  co. 1, del decreto in esame per la commisurazione della sanzione pecuniaria sono:
-  gravità del fatto, per valutare la quale il giudice terrà conto tanto l’offesa tipica - ovvero il quantum della lesione o la messa in pericolo del bene giuridico - quanto le altre conseguenze derivanti dal reato (es. entità del danno patrimoniale, entità del profitto o del vantaggio conseguito);
-  grado di responsabilità dell’ente, ovvero quanto l’illecito commesso sia espressione della politica aziendale oppure derivi dalla cosiddetta colpa di organizzazione;
-  l’attività svolta per eliminare o attenuare le conseguenze del fatto o per prevenire la commissione di ulteriori illeciti, criterio inserito con chiare finalità special-preventive.
Tale attività riparatoria deve essere tenuta distinta e non esser tale da integrare i presupposti indicati nell’art. 12 del decreto, in base ai quali rileverebbe di per sé come ipotesi di riduzione del trattamento sanzionatorio. Il richiamato art. 12 prevede infatti al co. 2 una rilevate riduzione della pena connessa con un’attività riparatoria posta in essere dall’ente che, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, risarcisca il danno, ne elimini le conseguenze o si adoperi efficacemente in tal senso.
L’importo di ogni singola quota verrà fissato sulla base delle condizioni economiche e patrimoniali dell’ente, secondo la previsione dell’art. 11,  co. 2. Unico limite a tale sistema è la previsione dell’art. 27, co. 1 in base alla quale l’ente, anche quello privo di personalità giuridica, sarà chiamato a rispondere del pagamento della sanzione solo entro i limiti del fondo comune o del patrimonio.

b. Sanzioni interdittive

Mentre la sanzione pecuniaria è indefettibilmente applicabile quando si riscontri la responsabilità amministrativa dell’ente, quelle interdittive sono congiuntamente irrogate, solo se espressamente previste e ricorrendo le condizioni di cui all’art. 13.
La tipologia di tali sanzioni (applicabili anche a titolo di misura cautelare), individuata dall’art. 9, co. 2, legittimano la privazione di un diritto o di una capacità dell’ente secondo un meccanismo non solo punitivo, ma volto a soddisfare esigenze sia specialpreventive (perché neutralizzano le attività criminose dell’ente per cui si procede), sia di prevenzione generale (sotto il profilo della dissuasione). Tali misure che limitano e talvolta impediscono quelle attività il cui abuso ha determinato la commissione del fatto reato incriminato, pur essendo generalmente di durata temporalmente circoscritta in un intervallo che va da tre mesi a due anni (art. 13, co. 2), in casi particolarmente gravi, possono essere disposte in via definitiva (art. 16).
Le condizioni in base alle quali il giudice ha l’obbligo di irrogarle sono:
-  quando l’ente ha tratto dal reato un profitto di rilevante entità e il reato è stato commesso da soggetti in posizione apicale, oppure dai cosiddetti sottoposti, ma in questo caso la trasgressione deve essere stata resa possibile da gravi carenze organizzative (art. 13,  co. 1, lett. a);
-  in presenza di reiterazione degli illeciti (art. 13,  co. 1, lett. b).
Viceversa, il decreto prevede anche due ipotesi in cui il giudice non può infliggere tali misure ovvero qualora:
-  il grado di riprovevolezza dell’illecito è minimo (art. 13,  co. 3), vale a dire quando ricorrano le circostanze attenuanti di cui all’art. 12,  co. 1 - cioè in caso di particolare tenuità del danno patrimoniale e nel caso in cui il soggetto attivo abbia commesso il reato nel prevalente interesse proprio o di terzi e l’ente ne abbia ricavato un vantaggio minimo;
-  o quando si realizzino le condizioni di cui al citato art. 12 co. 2 e l’ente abbia messo a disposizione il profitto conseguito ai fini della confisca ( art. 17) entro la dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado. La realizzazione tardiva di queste ipotesi può comunque rilevare al fine di ottenere la conversione della sanzione interdittiva in pecuniaria (art. 78).
Il potere discrezionale di valutazione è governato dal principio di adeguatezza e proporzionalità della sanzione rispetto alla natura e all’entità della violazione, di cui all’art. 14 co. 1: “le sanzioni interdittive hanno ad oggetto la specifica attività alla quale si riferisce l’illecito dell’ente”. Il giudice deve pertanto determinare il tipo e la durata della sanzione interdittiva apprezzandone l’idoneità a prevenire la commissione di un illecito dello stesso tipo potendo determinarsi anche all’applicazione congiunta di più sanzioni interdittive (art. 14, co. 3), qualora ciò dovesse rendersi necessario per il raggiungimento dell’efficacia preventiva con l’unico limite per cui l’interdizione dall’esercizio dell’attività si applica soltanto quando l’erogazione di altre sanzioni interdittive risulta inadeguata (art. 14, co. 4).

c. Pubblicazione della sentenza e confisca

La misura della pubblicazione della sentenza di condanna già conosciuta dall’ordinamento penale analogamente al disposto dell’art. 36 c.p., è prevista dall’art. 18 del d.lgs. 231/2001 che stabilisce che la sentenza sia pubblicata una sola volta, per estratto o per intero, in uno o più giornali indicati dal giudice nella sentenza di condanna, nonché mediante affissione nel comune ove l’ente ha la sede principale. La pubblicazione è curata dalla cancelleria del tribunale, ma le spese di questa sono addebitate alla società.
La confisca è una misura costante del sistema sanzionatorio non solo criminale, ma anche amministrativo.
Degno di nota, tuttavia, è l’art. 19 del decreto, laddove si provvede a rendere l’istituto uno strumento di compensazione dell’equilibrio economico violato.
Rispetto all’art. 240 c.p., il decreto rende obbligatoria la confisca sia del prezzo sia del profitto del reato (che l’art. 240 qualifica come facoltativamente confiscabile) e prevede inoltre la cd. confisca per equivalente.
Il concetto è specificato al  co. 2 dello stesso art. 19, ove è previsto che, quando non sia possibile eseguire la confisca del prezzo o del profitto del reato, la stessa possa avere ad oggetto somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente.

d. Impresa costituita e utilizzata per fini criminali

L’art. 16, co. 3, del decreto prevede inoltre come misura estrema l’interdizione perpetua dell’attività, per l’ente o per una sua unità organizzativa, che sia “stabilmente utilizzato allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione di reati, in relazione ai quali è prevista la sua responsabilità”.
L’ente in esame, quando condannato, sarà oggetto di un provvedimento amministrativo di interdizione definitiva dall’esercizio dell’attività, con conseguente non applicazione delle disposizioni premiali di cui all’art. 17 del decreto che, in condizioni di “ordinaria” illiceità, impedirebbe l’applicabilità delle sanzioni interdittive nel caso di riparazione delle conseguenze del reato.
La misura nasce dall’esigenza di interdire l’azione ad enti dimostratisi insensibili a qualsiasi prospettiva di riorganizzazione in direzione di un rassicurante recupero di legalità, dal momento che il loro oggetto è proiettato in modo specifico verso la commissione di reati.
Si pensi a società finanziate totalmente con i proventi di attività delittuose delle organizzazioni criminali, che pertanto hanno come unico fine quello di riciclare denaro sporco, oppure a società cosiddette “cartiere”, costituite al solo scopo di emettere fatture per operazioni inesistenti o imprese che fabbricano o commercializzano prodotti con marchi falsi.

5. Aspetti procedurali

a. Procedimento di accertamento

La scelta della responsabilità amministrativa da parte del legislatore è stata ispirata ad una maggior cautela; nonostante ciò, il procedimento di accertamento è stato articolato seguendo le garanzie del processo penale, divergendo in alcuni momenti fondamentali dal paradigma di illecito amministrativo desunto dalla legge 689/1981. La conseguenza è la nascita di un tertium genus, che coniuga i tratti essenziali del sistema penale e di quello amministrativo nel tentativo di contemperare le ragioni dell’efficacia preventiva con quelle della massima garanzia. Per quanto riguarda la vocatio in iudicium della società, problema da affrontare preliminarmente, il decreto prevede che il luogo dell’accertamento della responsabilità dell’ente è il procedimento penale instaurato a carico degli autori dei reati presupposti. Gli enti collettivi assurgeranno dapprima alla qualità di “soggetti” del procedimento penale e poi, un volta esercitata l’azione penale, di vere e proprie “parti” processuali. In particolare le società chiamate a rispondere a titolo amministrativo ed in via diretta per il reato commesso nel loro interesse dall’amministratore, diventeranno soggetti passivi della pretesa punitiva dello Stato.
Il processo penale rappresenterà la sede di esercizio della pretesa punitiva non soltanto nei confronti di una persona fisica ma anche nei confronti dell’ente. L’azione punitiva andrà intesa come enunciazione di una duplice imputazione-contestazione, vale a dire come attribuzione di un reato ad una persona fisica e di un illecito amministrativo ad un ente. La domanda formulata dal P.M. al giudice sarà diretta ad ottenere, previa verifica completa ed imparziale dell’ipotesi di colpevolezza in ordine ad un certo fatto-reato e ad un collegato fatto-illecito amministrativo, una decisione di giustizia, ovvero un’affermazione di reità dell’imputato o dell’ente o il suo proscioglimento.
Dal punto di vista formale ci troveremmo di fronte ad un’azione di responsabilità amministrativa sostanzialmente connessa all’azione di responsabilità penale e quindi, per esigenze di economia ed efficienza, a quest’ultima avvinta anche proceduralmente.
La connessione sostanziale dipende dal legame con il soggetto (reato commesso da un c.d. soggetto apicale, che può impegnare la persona giuridica) e dal legame con il reato (reato commesso a vantaggio o nell’interesse della persona giuridica).
La contestazione disciplinata dall’art. 59(9) svolge la stessa funzione dell’imputazione rispetto alla persona fisica. La stessa deve sempre essere formalizzata in uno degli atti indicati dall’art. 405  co. 1, c.p.p., anche nel caso in cui si proceda soltanto nei confronti dell’ente: in quest’ultima ipotesi non vi sarà esercizio dell’azione penale e l’atto conterrà solo la contestazione dell’illecito amministrativo.
Il P.M. dovrà specificare quale sia stato il vantaggio derivato all’ente dal reato dell’amministratore e per quali ragioni obiettive ritiene che il reato sia stato commesso nel suo interesse.
Il decreto legislativo n. 231, all’art. 55, risolve inoltre il problema dell’obbligatorietà dell’azione di responsabilità amministrativa in aderenza alle norme sulla persona fisica.
Parimenti viene risolta la questione della sospensione del procedimento penale: in tal caso, si procede separatamente per l’illecito amministrativo, come anche qualora il procedimento nei confronti della persona fisica sia stato definito con patteggiamento o con rito abbreviato o sia stato emesso decreto penale di condanna e se l’osservanza delle disposizioni processuali lo renda necessario.
Il processo penale pertanto inizia, o continua, al solo fine di accertare la responsabilità dell’ente, pur definita come “amministrativa”.
La notizia di illecito amministrativo va indefettibilmente accertata e su di essa deve pronunciarsi un giudice, salva l’ipotesi di archiviazione. In definitiva quindi, passa quasi in secondo piano la distinzione tra illecito penale e illecito amministrativo.

b. Attività di P.G.

La legge 231/2001 non detta specifiche norme in merito agli adempimenti che devono essere compiuti dalla polizia giudiziaria nel corso di procedimenti amministrativi riguardo all’accertamento della responsabilità degli enti e verranno pertanto applicate le medesime norme del c.p.p. che valgono per i procedimenti nei riguardi delle persone fisiche. Le uniche disposizioni del D.lgs. che meritano particolare attenzione sono gli artt. 53 e 54 in tema di sequestro preventivo e conservativo che richiamano espressamente le norme del c.p.p. artt. 316 e segg. e pongono quindi a capo della P.G. un potere/dovere di verifica ed eventuale sequestro, soprattutto con riguardo ai beni di cui all’art. 19 del decreto, ovvero il profitto o prezzo del reato sempre oggetto di confisca obbligatoria.
La P.G. dovrà però sviluppare una nuova coscienza investigativa che porti i singoli operatori a compiere le necessarie verifiche ogni qual volta si abbia a che fare con un reato posto in essere da soggetti inseriti in una struttura associativa sia che occupino una posizione apicale sia che siano semplici dipendenti.
Accertata una condotta rientrante tra quelle comprese all’interno dei possibili reati presupposti, contemplati nell’artt. 25 e segg. del decreto, l’operante dovrà preliminarmente verificare se il reato è stato effettivamente commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente collettivo.
Il secondo passo sarà poi quello di verificare l’esistenza o meno della speciale esimente disciplinata dagli artt. 6 e 7, e al di là dell’inversione dell’onere della prova previsto, qualora il reato sia stato commesso da soggetti in posizione apicale, la P.G. dovrà comunque:
-  porre l’attenzione sull’esistenza o meno di un modello organizzativo realizzato allo scopo di prevenire il reato della stessa specie di quello verificatosi e la sua concreta adozione, eventualmente escutendo sommariamente i destinatari delle norme ivi contenute;
-  verificare l’esistenza di un organismo dotato di autonomi poteri d’iniziativa e di controllo assimilabile all’Organo di Vigilanza previsto dal decreto, e il suo operato con particolare riferimento a possibili omissioni o insufficiente vigilanza;
-  accertare che non sussistano elementi di fatto che facciano ritenere il reato come esito finale dell’elusione fraudolenta del modello organizzativo attuato.
Qualora la condotta delittuosa sia stata posta in essere dai sottoposti, la verifica sul modello organizzativo dovrà essere invece volta a verificare l’astratta idoneità dello stesso a prevenire il reato in base alle indicazioni di cui ai citati artt. 6 e 7. La P.G. non dovrà fornire un parere sull’efficacia del modello, la cui valutazione è rimessa al giudice, ma dovrà preoccuparsi di raccogliere ogni utile elemento al fine di ottenere un chiaro quadro della realtà aziendale oggetto di indagine. Sin dalle prime fasi investigative sarà necessario accertare l’esistenza di procedure e modelli formalizzati ed acquisirne tutta la documentazione al fine di consentire al P.M. di formulare, unitamente all’imputazione nei confronti della persona fisica, una contestazione dell’illecito amministrativo basata su elementi oggettivi e dati certi. Di estrema importanza al riguardo, come già accennato, saranno gli elementi di informazione raccolti dai destinatari del codice di comportamento e delle norme predisposte ai fini del D.lgs. 231/2001. Soltanto la concreta attuazione dei modelli potrà infatti essere valida al fine di rendere l’ente esente da responsabilità e gli organi inquirenti dovranno porre particolare attenzione a tale aspetto al fine di scongiurare il rischio della creazione da parte delle aziende di modelli formali, astrattamente idonei a scongiurare il rischio reato, ma privi di concreta attuazione e basati soltanto su una fittizia documentazione della attività ritenute indispensabili per “guadagnarsi” l’attribuzione dell’esimente.
Particolare importanza andrà inoltre posta all’analisi dei documenti contabili e amministrativi, non solo nel caso in cui vi sia una violazione delle norme penali previste dal c.c. ma in presenza di qualsiasi reato tra quelli considerati presupposti. è tra le pieghe del bilancio che viene sempre nascosto il profitto o il prezzo del reato e comunque è all’interno di tale documento che è sempre possibile risalire a quei beni che possono essere sottoposti a sequestro preventivo e alla successiva confisca, anche per equivalente, in base al combinato disposto degli artt. 19 e 53.


6. Breve analisi giurisprudenziale

Il decreto non ha avuto sin’ora diffusa applicazione e non vi sono numerose pronunce, la giurisprudenza ha avuto in diverse occasioni però l’opportunità di chiarire alcuni aspetti di particolare interesse a cui si farà un breve cenno.

a. Soggetti interessati dall’operatività dal D.lgs. 231/2001

La Suprema Corte ha avuto modo di tracciare meglio i confini normativi, precisando di non ritenere le imprese individuali rientranti nell’ambito dell’art.1 in quanto la normativa risulta diretta esclusivamente agli enti collettivi(10).

b. I criteri oggettivi di attribuzione della responsabilità

La corte chiarisce la necessità di tenere distinti i concetti di interesse e vantaggio facendo riferimento in particolare, con riguardo al primo, alla direzione finalistica dell’atto ovvero a quella volontà di indebito arricchimento da ricercarsi a monte, che l’agente ben si figura pur potendo non riuscire a realizzarlo in concreto; con riguardo al vantaggio ribadendo la necessità di una ricerca ex post di un utilità effettivamente conseguita(11).

c. I modelli organizzativi

La giurisprudenza più recente si è più volte espressa ribadendo che i modelli organizzativi costituiscono esimenti per la società solo se contenenti procedure ad hoc astrattamente idonee a prevenire la commissione degli specifici reati contestati e, se il reato sia commesso da organi di vertice, che lo stesso non sia frutto di una fraudolenta elusione dei modelli da parte dell’originario autore(12).
I modelli dovrebbero, ancorché non obbligatori, essere assunti per ridurre al minimo il rischio di comportamenti devianti ed in tal senso, oltre a costituire l’esimente in parola dovrebbero venire interpretati come utili strumenti di pianificazione e organizzazione delle attività. Gli stessi rilevano, oltre che come esimente, anche come criterio di riduzione della sanzione pecuniaria purché resi operativi prima della dichiarazione di apertura del dibattimento(13). La giurisprudenza ha inoltre individuato quelle caratteristiche che i modelli devono possedere per essere utili a tali fini(14) e le stesse sono state via via aggiornate e integrate dalla prassi aziendale che ha posto l’accento altresì sulla necessità della predisposizione di un idoneo sistema informativo, servente sia l’Organismo di Vigilanza, sia specifiche funzioni aziendali dotate delle necessarie professionalità e competenze per sostenere l’attività di controllo.
La prassi ha inoltre fatto emergere l’esigenza della creazione di un Codice di Comportamento che affianchi ed integri i modelli con validità più amplia e generalizzata verso tutte le aree aziendali.

d. Sequestro preventivo e confisca

In materia la Giurisprudenza ha avuto modo di chiarire come il sequestro preventivo sia un atto a sorpresa e può essere operato anche dalla P.G. seguendo le modalità di cui al 321 bis c.p.p. senza necessità dell’informazione sul diritto di difesa ex 369 bis(15).

e. Misure cautelari

In merito la giurisprudenza ha sottolineato che il giudice, nella scelta sulle misure interdittive cautelari da applicare, non può prevedere misure diverse da quelle irrogabili in via definitiva scelte sulla base della astratta idoneità a prevenire in futuro reati della stessa specie di quello contestato(16).
è stata inoltre ribadita la necessità della sussistenza di un fumus bonis iuris inteso come probabilità che si giunga a una sentenza di condanna nei confronti dell’ente e non come semplice astratta configurabilità dell’illecito come da alcuni sostenuto e di un periculum in mora che in tal caso però è in re ispsa in quanto ritenuto sussistente da legislatore.

7. Considerazioni finali

Il D.lgs. 231/2001 ha introdotto nel nostro ordinamento un sistema punitivo degli enti che, ancorché qualificato come “amministrativo” per ragioni di opportunità anche costituzionale, si innesta nel nostro sistema giuridico portando un’innovazione epocale alla scienza giuridica penalista fornendo agli inquirenti nuovi ed efficacissimi strumenti di contrasto alla criminalità. Con lo storico superamento del principio societas delinquere non potest, gli inquirenti si trovano oggi a poter agire in maniera più incisiva sui patrimoni di quelle organizzazioni criminali che nel tempo si sono evolute e, beneficiando di una fonte a basso costo di liquidità, hanno investito i propri capitali in attività economiche. La norma consente inoltre di colpire qualunque ente economico che decida strategicamente di operare nel mercato in maniera illegale, beneficiando dei minor costi che tale comportamento consente (es.: minor costo del denaro in caso di riciclaggio, minori costi di produzione in caso di violazione della l. 626/94).
Nonostante il timido ingresso di tali strumenti, a causa anche del restrittivo elenco dei reati presupposti originariamente previsto, la disciplina si va affermando sempre di più e le aziende si stanno muovendo seguendo l’esempio estero nell’implementare compliance programs volti ad evitare le pesanti sanzioni previste dal decreto. L’afflittività delle misure previste conferisce infatti alle disposizioni particolare efficacia e consente di reprimere compiutamente gli illeciti di coloro che, specialmente in posizione apicale, sono riusciti sino ad ora a sfuggire ad ogni forma di sanzione, occultando in patrimoni aziendali i propri beni personali apparentemente inattaccabili. Tali norme, se correttamente applicate e sapientemente utilizzate, consentiranno nei prossimi anni di dare un duro colpo a quelle organizzazioni criminali che sono riuscite a mantenere attive le proprie attività, grazie alla creazione di attività economiche di copertura, nonostante l’arresto e la condanna dei propri vertici. L’estensione dell’applicabilità del decreto si presume darà forte impulso all’implementazione di sistemi e procedure previste da altre normative di legge a sicuro benessere dell’intera collettività; si pensi come esempio precipuo alle norme antinfortunistiche e sulla tutela dell’igiene e della salute dei lavoratori, che sino ad ora sono state in parte trascurate viste le “leggere” sanzioni previste in caso di violazioni. Il vertiginoso innalzamento del rischio per l’azienda in caso di incidenti grazie alle misure interdittive applicabili farà registrare sicuri benefici.





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Approfondimenti

(1) - Dell’art. 17 (Riparazione delle conseguenze del reato), le sanzioni interdittive non si applicano nfatti quando, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, l’ente (abbia) eliminato le carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante ’adozione e l’attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quello erificatosi”.
(2) - Dell’art. 49 (Sospensione delle misure cautelari), le misure cautelari possono essere sospese se ’ente chiede di poter realizzare gli adempimenti cui la legge condiziona l’esclusione di sanzioni nterdittive a norma dell’art. 17.
(3) - Reati previsti ex art. 24 co. 1:  malversazione a danno dello Stato (art. 316 bis c.p.): 
- ndebita percezione di erogazioni a danno dello Stato (art. 316 ter c.p.);
- truffa commessa a danno dello Stato o di altro ente pubblico (art. 640 co. 2 n. 1 c.p.);
- truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640 bis c.p.);
- frode informatica (art. 640 ter c.p.),
- se commessa in danno dello Stato o di altro ente pubblico.
(4) - Reati ex art. 25 bis:
- falsificazione di monete, splendita e introduzione nello Stato, previo concerto, di monete falsificate 453 c.p.);
- alterazione di monete (454 c.p.);
- spendita e introduzione nello Stato, senza concerto, di monete falsificate (455c.p.);
- spendita di monete falsificate ricevute in buona fede (457 c.p.);
- falsificazione di valori di bollo, introduzione nello Stato, acquisto, detenzione o messa in circolazione i valori di bollo falsificati (459 c.p.);
- contraffazione di carta filigranata in uso per la fabbricazione di carte di pubblico credito o di alori di bollo (460 c.p.);
- fabbricazione o detenzione di filigrane o di strumenti destinati alla falsificazione di monete,
di valori di bollo o di carta filigranata (461 c.p.);
- uso di valori di bollo contraffatti o alterati(464 c.p.).
(5) - Reati ex 25 ter:
- false comunicazioni sociali (art. 2621 c.c.);
- false comunicazioni sociali in danno dei soci o dei creditori (art. 2622 c.c.);
- falso in prospetto (art. 2623 c.c.);
- falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni delle società di revisione (art. 2624 c.c.);
- impedito controllo (art. 2625 c.c.);
- indebita restituzione dei conferimenti (art. 2626 c.c.);
- illegale ripartizione degli utili e delle riserve (art. 2627 c.c.);
- illecite operazioni sulle azioni o quote sociali o della società controllante (art. 2628 c.c.);
- operazioni in pregiudizio dei creditori (art. 2629 c.c.);
- formazione fittizia del capitale (art. 2632 c.c.);
- indebita ripartizione dei beni sociali da parte dei liquidatori (art. 2633 c.c.);
- illecita influenza sull’assemblea (art. 2636 c.c.);
- aggiotaggio (art. 2637 c.c.);
- ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza (art. 2638 c.c.).
(6) - Reati ex 25 quater:
- associazioni con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico (art. 270 bis c.p.);
- assistenza agli associati (art. 270 ter c.p.);
- attentato per finalità terroristiche o di eversione (art. 280 c.p.);
- atto di terrorismo con ordigni micidiali o esplosivi (art. 280 bis c.p.).
(7) - Reati ex 25 quinques:
- la riduzione in schiavitù (art.600 c.p.);
- la prostituzione minorile (art.600 bis c.p.);
- la pornografia minorile (art.600 ter c.p.);
- la detenzione di materiale pedopornografico (art. 600 quater c.p.);
- la pornografia virtuale (art.600 quater 1 c.p.);
- lo svolgimento di iniziative turistiche volte allo sfruttamento sessuale minorile (art. 600 quinquies c.p.);
- la tratta e il commercio di schiavi (artt. 601 e 602 c.p.).
(8) - Reati previsti ex Protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transazionale:
- associazione a delinquere (art. 416);
- associazione di tipo mafioso (art.416 bis);
- induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’A.G. e favoreggiamento personale (artt. 377 is e 378 c.p.);
- associazione a delinquere finalizzata al contrabbando di TLE (art. 291 quater D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, Testo unico leggi doganali);
- associazione finalizzata al traffico illecito di sostanza stupefacenti o psicotrope (art. 74 D.P.R.
9 ottobre 1990 n. 309);
- immigrazione clandestina (art.12, commi 3, 3 bis, 3 ter e 5 del D.lgs. 25 luglio 1998 n.
286).
(9) - Art. 59 (Contestazione dell’illecito amministrativo):
“Quando non dispone l’archiviazione, il P.M. contesta all’ente l’illecito amministrativo
dipendente dal reato. La contestazione è contenuta in uno degli atti indicati dall’art 405 co.
1 c.p.p. La contestazione contiene gli elementi identificativi dell’ente, l’enunciazione in
forma chiara e precisa del fatto che può comportare l’applicazione delle sanzioni amministrative,
con l’indicazione del reato da cui l’illecito dipende e dei relativi articoli di legge e delle
fonti di prova”.
(10) - Cass. Pen., sez. VI, 22 aprile 2004 (c.c. 3 marzo 2004), n. 1841:
“La disciplina prevista dal D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, in materia di responsabilità delle persone giuridiche,
delle società e delle associazioni, anche prive di personalità giuridica, non si applica alle imprese
individuali…” e sullo stesso tema: Tribunale di Milano, Sez. XI, 20 dicembre (ord.), Tribunale di
Milano, sez. XI, 14 dicembre 2004 (ord.), Tribunale di Milano, sez. XI, 28 ottobre 2004 (ord.).
(11) - Cass. Pen., sez. II, 30 gennaio 2006 (c.c. 20 dicembre 2005), n. 3615:
“In tema di responsabilità da reato delle persone giuridiche e delle società, l’espressione normativa, con
cui se ne individua il presupposto della commissione dei reati “nel suo interesse o a suo vantaggio” non
contiene un’endiadi, perché i termini hanno riguardo a due concetti giuridici diversi…” e sul tema:
Tribunale di Agrigento, 18 luglio 2005, Tribunale di Milano, sez. XI, 14 dicembre 2004 (ord.).
(12) - Trib. Milano, sez. XI, 14 dicembre 2004 (ord.):
“A norma degli artt. 6 e 7 del D.lgs. 231/2001, gli elementi impeditivi della responsabilità dell’ente sono rappresentati dall’adozione ante factum di un modello di organizzazione idoneamente attuato per prevenire reati della stessa specie di quello verificatosi, con le condizioni aggiuntive, in caso di reato commesso da soggetto in posizione apicale, dell’affidamento dei poteri di iniziativa e controllo ad un organo dell’ente dotato di autonomi poteri, della commissione del reato con elusione fraudolenta da parte dell’autore dei modelli, nonché della sufficiente vigilanza da parte dell’organo di controllo”. Sul tema: Tribunale di Milano, sez. XI, 20 dicembre (ord), Tribunale di Milano, sez. XI, 14 dicembre 2004 (ord.).
(13) - Tribunale di Milano, sez. XI, 28 ottobre 2004 (ord.):
“I modelli di organizzazione e gestione interagiscono con il sistema di responsabilità degli enti sotto un duplice profilo: da un lato il compliance program funge da criterio di esclusione della cosi detta colpa da organizzazione, dall’altro la sua adozione ed efficace attuazione è criterio di attenuazione delle conseguenze giuridiche ed economiche conseguenti alla responsabilità dell’ente”.
(14) - Uff. indagini preliminari Tribunale di Milano, 20 settembre 2004 (ord.), “In quanto strumenti organizzativi della vita dell’ente, i modelli devono qualificarsi per la loro concreta e specifica efficacia e per la loro dinamicità e scaturire da una visione dei fenomeni aziendali realistica ed economica e non esclusivamente giuridico-formale. In particolare il modello deve rispondere alle seguenti caratteristiche: presupporre un’analisi approfondita della realtà aziendale così da individuare le aree interessate alle potenziali casistiche di reato e le possibili modalità attuative tenendo conto della storia, anche giudiziaria, dell’ente e delle caratteristiche degli altri soggetti operanti nel settore, individuare i momenti della vita e dell’operatività dell’ente in cui possono più facilmente inserirsi fattori di rischio, dettare idonee procedure per disciplinare i momenti di rischio, sì da consentire un efficace controllo, prevedere un adeguato sistema di controlli preventivi e progettare specifici protocolli diretti a programmare la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente in relazione ai reati da prevenire, prevedere idonei strumenti finalizzati a garantire l’autonomia, l’indipendenza e la professionalità dell’organo di vigilanza, adottare strumenti e meccanismi che rendano trasparente la gestione delle risorse finanziarie, contenere precise disposizioni al fine di assicurare la diffusione dei modelli stessi, la loro adeguata conoscenza, comprensione e applicazione da parte di tutti i soggetti qualificati come portatori di interesse, introdurre un sistema disciplinare idoneo a sanzionare le violazioni del modello, essere costantemente aggiornati e visionati, in modo da riflettere i cambiamenti dell’ente, aggiornandosi parallelamente all’evolversi e al modificarsi della struttura del rischio di commissione di illeciti”.
(15) - Cass. Pen., sez. II, 20 giugno 2005 (c.c. 25 maggio 2005) n. 23189.
“Il sequestro di beni di cui è consentita la confisca ai sensi dell’art. 19 del D.lgs. 231/2001 … non deve essere preceduto a pena di nullità, dall’informazione del diritto di difesa prevista dal 369-bis c.p.p. in quanto si tratta di un atto “a sorpresa”, diretto alla ricerca della prova, per il quale non è previsto il previo avviso al difensore”. Sul tema anche: Cass. Pen., sez. II, 14 marzo 2007 (c.c. 22 dicembre 2006), n. 10838, Cass. Pen., sez. II, 10 gennaio 2007 (c.c. 21 dicembre 2006), n. 316, Cass. Pen., sez. II, 25 maggio 2005 (c.c. 22 maggio 2005), n. 23189.
(16) - Uff. indagini preliminari Tribunale di Milano, 5 maggio 2004 (ord.): “Ai sensi dell’art.14 del D.lgs. 231/2001, l’irrogazione di sanzioni interdittive deve essere preceduta da un’approfondita scelta della specifica attività della persona giuridica nei confronti della quale deve aver effetto la sanzione da applicarsi, dovendo tener conto dell’idoneità della sanzione a prevenire illeciti del tipo di quello commesso”.