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Corte di Cassazione

Sentenze tratte dal sito C.E.D. Cassazione (massime a cura dell’Ufficio Massimario)

Circolazione stradale (nuovo codice) - Norme di comportamento - Obblighi verso funzionari ufficiali e agenti - Inottemperanza all'"alt" del conducente di veicolo - Reato - Esclusione - Illecito amministrativo - Sussistenza.

(Cod. Pen. art. 650,
Cod. Strada art. 192,
Legge 24 novembre 1981 n. 689 art. 9)

Sez. 1, Sent. n. 36736 del 17 settembre 2008 ud. (dep. 25/9/2008 )
(Diff.)
(Annulla senza rinvio, App. Palermo, 2 Marzo 2008)

L'inottemperanza del conducente di un veicolo all'invito a fermarsi da parte di un ufficiale di polizia municipale integra l'illecito amministrativo previsto dall'art. 192, comma primo, cod. strad., e non il reato di inosservanza dei provvedimenti dell'autorità previsto dall'art. 650 cod. pen., stante l'operatività del principio di specialità di cui all'art. 9 L. 24 novembre 1981 n. 689 (modifiche al sistema penale), applicabile quando il medesimo fatto sia punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa.


Misure di sicurezza - Patrimoniali - Confisca - Nozione di "cose che servirono a commettere il reato" - Indispensabilità - Esclusione - Fattispecie.

(Cod. Pen. art. 240)

Sez. 1, Sent. n. 38650 del 18 settembre 2008 cc. (dep. 14/10/2008)
(Conf.)
(Rigetta, Gip Trib. Udine, 16 novembre 2007)

In tema di confisca, per "cose che servirono a commettere il reato", ai sensi dell'art. 240, comma primo, cod. pen., devono intendersi quelle impiegate nella esplicazione dell'attività punibile, anche se a tale fine non indispensabili, purché vi sia tra di esse uno specifico e non occasionale nesso strumentale. (Nella fattispecie, la Suprema Corte ha ritenuto confiscabile una palestra in cui avveniva la distribuzione illecita di sostanze anabolizzanti).


Prove - Mezzi di ricerca della prova - Intercettazioni di conversazioni o comunicazioni - Utilizzazione - Divieti - Attività di contrasto svolta da agenti sotto copertura in ordine a reati sessuali - Necessità dell'autorizzazione - Valutazione "ex ante".

(Cod. Pen. art. 600 ter e quater;
Legge 3 agosto 1998 n. 269 art. 14)

Sez. 3, Sent. n. 40036 del 25 settembre 2008 ud. (dep. 28/10/2008)
(Conf.)
(Rigetta in parte, App. Torino, 12 Marzo 2008)

In tema di autorizzazione dell'autorità giudiziaria a porre in essere attività di polizia giudiziaria di contrasto dei reati contro la libertà sessuale dei minori, la legittimità di detta attività, consentita dalla legge n. 269 del 1998 solo con riferimento a specifici reati, deve essere valutata "ex ante", in altre parole al momento in cui tale attività è disposta dall'autorità giudiziaria e non con riguardo all'esito dell'investigazione.


Reati contro l'amministrazione della giustizia - Delitti contro l'attività giudiziaria - Favoreggiamento - Reale - Configurabilità - Differenze con il concorso di persone nel reato - Criteri - Fattispecie.

(Cod. Pen. artt. 110 e 379;
DPR 9 ottobre 1990 n. 309 art. 73 co. 1)

Sez. 6, Sent. n. 37170 del 15 aprile 2008 ud. (dep. 30/9/2008)
(Conf.)
(Rigetta, App. Palermo, 22 Dicembre 2005)

Integra il concorso di persone nel delitto di cessione illecita di sostanze stupefacenti e non quello di favoreggiamento reale la condotta consistente nella messa a disposizione di locali per la realizzazione di un incontro concordato fra l'acquirente ed il fornitore degli stupefacenti, in quanto tale disponibilità costituisce un contributo causale per la commissione del reato. (Fattispecie in cui l'imputato aveva messo a disposizione i locali della propria officina per le attività di spaccio del cognato).


Reati contro l'amministrazione della giustizia - In genere - False dichiarazioni al P.M. - Elemento soggettivo - Dolo generico - Fondamento.

(Cod. Pen. art. 371 bis)

Sez. 6, Sent. n. 34749 del 17 luglio 2008 ud. (dep. 6/9/2008)
(Conf.)
(Dichiara inammissibile, App. Venezia, 21 Gennaio 2008)

Ai fini dell'integrazione del reato di false informazioni al PM, è sufficiente il dolo generico, bastando la volontà, comunque determinatasi, di dire il falso.




Reati contro l'amministrazione della giustizia - Tutela arbitraria delle proprie ragioni - Esercizio arbitrario delle proprie ragioni (ragion fattasi) - In genere - Rapina - Elementi differenziali - Individuazione in concreto.

(Cod. Pen. artt. 392, 393 e 628)

Sez. 2, Sent. n. 38517 del 23 settembre 2008 ud. (dep. 10/10/2008)
(Conf.)
(Dichiara inammissibile, App. Napoli, 4 marzo 2004)

L'esercizio delle proprie ragioni con violenza sulle cose o sulle persone, commesso con minaccia dell'esercizio di un diritto, in sé non ingiusta, può integrare il reato di cui all'art. 628 cod. pen., se si estrinseca con modalità violente che denotano soltanto la volontà di impossessarsi della cosa e può anche configurare il reato di rapina, qualora ne ricorrano gli elementi richiesti dalla norma incriminatrice.


Reati contro la persona - Delitti contro la libertà individuale - Violenza sessuale - In genere - Induzione a compiere o a subire atti sessuali - Nozione.

(Cod. Pen. art. 609 bis co. 2)

Sez. 4, Sent. n. 40795 del 17 settembre 2008 ud. (dep. 31/10/2008)
(Conf.)
(Annulla senza rinvio, App. Roma, 8 novembre 2007)

In tema di violenza sessuale ai danni di soggetti che si trovano in stato di inferiorità fisica o psichica, l'induzione sufficiente alla sussistenza del reato non si identifica solamente nell'attività di persuasione esercitata sulla persona offesa per convincerla a prestare il proprio consenso all'atto sessuale, bensì consiste in ogni forma di sopraffazione posta in essere senza ricorrere ad atti costrittivi ed intimidatori nei confronti della vittima, la quale, non risultando in grado di opporsi a causa della sua condizione di inferiorità, soggiace al volere dell'autore della condotta, divenendo strumento di soddisfazione delle voglie sessuali di quest'ultimo.


Reati contro la persona - Delitti contro l'onore - Ingiuria - In genere - Nozioni di onore e di decoro.

(Cod. Pen. art. 594)

Sez. 5, Sent. n. 34599 del 4 luglio 2008 cc. (dep. 3/9/2008)
(Conf.)
(Annulla senza rinvio, Trib. Brescia, sez. dist. Salo', 8 giugno 2007)

In tema di ingiuria, la nozione di onore è relativa alle qualità che concorrono a determinare il valore di un determinato individuo, mentre quella di decoro si riferisce al rispetto o al riguardo di cui ciascuno, in quanto essere umano, è comunque degno. (In motivazione, la S.C. ha rilevato che le due nozioni vanno unitariamente riferite al concetto di dignità della persona che trova fondamento nell'art. 2 Cost.).


Reati contro la pubblica amministrazione - Delitti - Dei pubblici ufficiali - Abuso di ufficio - Elemento soggettivo - Dolo eventuale - Sufficienza - Esclusione - Dolo intenzionale - Necessità.

(Cod. Pen. artt. 43 e 323)

Sez. 6, Sent. n. 33844 del 27 giugno 2008 cc. (dep. 25/8/2008)
(Diff.)
(Rigetta, Trib. lib. Parma, 25 Ottobre 2007)

Nel delitto d'abuso d'ufficio, per la configurabilità dell'elemento soggettivo è richiesto che l'evento sia voluto dall'agente e non semplicemente previsto ed accettato come possibile conseguenza della propria condotta, onde deve escludersi la sussistenza del dolo, sotto il profilo dell'intenzionalità, qualora risulti, con ragionevole certezza, che l'agente si sia proposto il raggiungimento d'altro fine, pur apprezzabile sotto il profilo collettivo.


Reati contro la pubblica amministrazione - Delitti - Dei pubblici ufficiali - Concussione - In genere - Tentativo - Efficacia intimidatoria della condotta - Carattere oggettivo della stessa - Sufficienza - Realizzazione di concreto stato di timore nel privato - Necessità - Esclusione.

(Cod. Pen. artt. 56 e 317)

Sez. 6, Sent. n. 33843 del 19 giugno 2008 cc. (dep. 25/8/2008)
(Conf.)
(Rigetta, Trib. lib. Napoli, 28 Gennaio 2008)

Ai fini della configurabilità del reato di tentata concussione, che si ha laddove il pubblico ufficiale abbia compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere od indurre qualcuno a dare o promettere denaro od altra utilità, è richiesta l'oggettiva efficacia intimidatoria di tale condotta, restando indifferente il conseguimento in concreto del risultato di porre la vittima in stato di soggezione.





Reati contro l'incolumità pubblica - Delitti - Commercio o somministrazione di medicinali guasti - Fine dell'incriminazione - Fattispecie.

(Cod. Pen. art. 443)

Sez. F, Sent. n. 39051 del 28 agosto 2008 ud. (dep. 16/10/2008)
(Conf.)
(Rigetta, App. Napoli, 10 Luglio 2007)

La fattispecie criminosa descritta dall'art. 443 cod. pen., e cioè il commercio o la somministrazione di medicinali guasti, mira ad impedire l'utilizzazione a scopo terapeutico di medicinali imperfetti e sanziona ogni condotta che renda probabile o possibile la concreta utilizzazione del medicinale guasto. (Fattispecie relativa al rinvenimento in uno studio medico d'ingente quantitativo di farmaci e altro materiale sanitario, scaduto da molto tempo, frammisto a prodotti in corso di validità e in parte utilizzato).



CODICE DI PROCEDURA PENALE


Indagini preliminari - Attività della polizia giudiziaria - Sommarie informazioni - Dichiarazioni spontanee - Rese da persona sottoposta ad indagini - Disposizioni ex artt. 63 e 64 cod. proc. pen. - Applicabilità - Esclusione - Fondamento.

(Nuovo Cod. Proc. Pen. artt. 63, 64, 350)

Sez. 6, Sent. n. 34151 del 27 giugno 2008 cc. (dep. 26/8/2008)
(Parz. Diff.)
(Rigetta, Trib. lib. Messina, 10 dicembre 2007)

Alle dichiarazioni spontanee (art. 350 comma settimo cod. proc. pen.) del soggetto indagato non si applicano le disposizioni dell'art. 63, comma primo, cod. proc. pen. e dell'art. 64, stesso codice, giacché l'una concerne l'esame di persona non imputata o non sottoposta ad indagini e l'altra attiene all'interrogatorio, atto diverso dalle spontanee dichiarazioni.


Prove - Mezzi di ricerca della prova - Intercettazioni di conversazioni o comunicazioni - Ammissibilità (limiti) - Intercettazioni ambientali - Luogo di privata dimora - Nozione - Cella di carcere ed ambienti penitenziari - Esclusione.

(Nuovo Cod. Proc. Pen. artt. 266 e 271;
Cod. Pen. art. 614)

Sez. 1, Sent. n. 32851 del 6 maggio 2008 ud. (dep. 5/8/2008)
(Conf.)
(Rigetta, Ass. App. Milano, 15 Maggio 2007)

Ai fini dell'ammissibilità ed utilizzabilità delle intercettazioni tra presenti di cui all'art. 266, comma secondo, cod. proc. pen., la cella e gli ambienti penitenziari non sono luoghi di privata dimora, non essendo nel "possesso" dei detenuti, ai quali non compete alcuno "ius excludendi alios"; tali ambienti, infatti, si trovano nella piena e completa disponibilità dell'amministrazione penitenziaria, che ne può farne uso in ogni momento per qualsiasi esigenza d'istituto.





LEGGI SPECIALI


Armi - In genere - Detenzione e porto illegale - Nozione di arma.

(Legge 2 ottobre 1967 n. 897, artt. 1 e 2,
Legge 14 ottobre 1974 n. 497)

Sez. 1, Sent. n. 35648 del 4 luglio 2008 ud. (dep. 18/9/2008)
(Conf.)
(Rigetta, App. Catania, 5 Dicembre 2007)

Ai fini della configurabilità di un'arma come tale, è necessario che essa non risulti totalmente e assolutamente inefficiente, poiché solo in tal caso viene a mancare quella situazione di pericolo per l'ordine pubblico e per la pubblica incolumità che costituisce la "ratio" della disciplina vigente in tema di detenzione e porto illegale di armi. Ne consegue che, l'arma non perde tale qualità qualora, pur essendo guasta o priva di pezzi, anche essenziali, sia comunque riparabile con pezzi di ricambio o anche con altri accorgimenti in mancanza dei pezzi originali.


Indagini preliminari - Attività del pubblico ministero - Attività di indagine - Investigazioni preventive - L. n. 146 del 2006 - Agente infiltrato - Attività legittime - Differenza dall'agente provocatore.

(Legge 16 marzo 2006 n. 146)

Sez. 2, Sent. n. 38488 del 28 maggio 2008 ud. (dep. 9/10/2008)
(Conf.)
(Rigetta, App. Reggio Calabria, 13 Giugno 2007)

In tema di criminalità organizzata, con riferimento alle speciali tecniche di investigazione preventiva (che possono anche prescindere dall'esistenza di indagini preliminari relative a uno specifico fatto), e che sono previste dalla L. n. 146 del 2006 (di ratifica della Convenzione ONU contro il crimine organizzato), va affermato che non sono lecite le operazioni sotto copertura che si concretizzino in un incitamento o in una induzione al crimine del soggetto indagato: l'agente infiltrato non può pertanto commettere azioni illecite diverse da quelle dichiarate non punibili (art. 9 legge citata), o a esse strettamente e strumentalmente connesse. (Affermando il principio la Corte ha precisato che la figura, così legislativamente delineata, dell'agente infiltrato non va confusa con quella dell'agente provocatore, che non ha mai trovato definizione esplicita nella legge).


Lavoro - Prevenzione infortuni - In genere - Pericolo di caduta materiali - Contenuto dell'obbligo di prevenzione.

(DPR 27 aprile 1955 n. 547 art. 11)

Sez. 4, Sent. n. 40783 del 19 giugno 2008 ud. (dep. 31/10/2008)
(Parz. Diff.)
(Rigetta, App. Milano, 16 giugno 2005)

In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, quando l'obbligo di difendere i lavoratori dal rischio di caduta di materiali non può essere adempiuto mediante l'adozione di mezzi tecnici, il datore di lavoro deve adottare, come previsto dall'art. 11 d.P.R. n. 547 del 1955, altre misure o cautele adeguate, la cui idoneità deve essere valutata dal giudice con riferimento specifico alla natura del pericolo in questione.


Sicurezza pubblica - Misure di prevenzione - In genere - Sequestro e confisca nei confronti di indiziati di appartenere a sodalizi criminosi finalizzati al narcotraffico - Applicazione ai soggetti pericolosi a norma della L. n. 1423 del 1956 - Legittimità.

(Legge 27 dicembre 1956 n. 1423 art. 1;
Legge 31 maggio 1965 n. 575;
Legge 22 maggio 1975 n. 152 art. 19)

Sez. 1, Sent. n. 36748 del 17 settembre 2008 cc. (dep. 25/9/2008)
(Conf.)
(Annulla con rinvio, App. Genova, 5 Novembre 2007)

Le misure patrimoniali di prevenzione del sequestro e della confisca, nei confronti delle persone indiziate di appartenenza ad associazione per delinquere finalizzata al narcotraffico, sono applicabili anche ai soggetti pericolosi ai sensi dell'art. 1 L. 27 dicembre 1956 n. 1423 (misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), poiché il rinvio di cui all'art. 19, comma primo, L. 22 maggio 1975 n. 152 (disposizioni a tutela dell'ordine pubblico) non ha carattere materiale o recettizio, ma formale, nel senso che, in difetto di un'espressa esclusione o limitazione, deve ritenersi esteso a tutte le norme successivamente interpolate nell'atto-fonte, in sostituzione, modificazione o integrazione di quelle originarie, e non limitato alle sole misure di carattere personale.





Stupefacenti - In genere - Attività illecite - Condotta di "intermediazione" - Individuazione - Contenuto.

(DPR 9 ottobre 1990 n. 309 art. 73)

Sez. 6, Sent. n. 37177 del 8 luglio 2008 ud. (dep. 30/9/2008)
(Diff.)
(Dichiara inammissibile, App. Milano, 18 Maggio 2007)

In materia di stupefacenti, tra le condotte illecite descritte nella norma incriminatrice di cui all'art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, rientra anche quella di "intermediazione", che è ricompresa nella condotta del "procurare ad altri", con la quale si intende punire l'attività illecita di chi agisce al fine di provocare l'acquisto, la vendita o la cessione di droga da parte di terzi.








Delitto di coltivazione diretta di piante da stupefacenti - Detenzione per uso personale - Reato di pericolo presunto - Esigenza di tutela dell’interesse collettivo alla salute - Offensività della condotta.

Cassazione penale, Sezioni unite, sentenza  n. 28605 del 24 aprile - 10 luglio 2008. Pres. Carbone, Rel. Fiale

è priva di ogni fondamento giuridico la distinzione tra coltivazione domestica e coltivazione in senso tecnico agrario in quanto costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche ove sia realizzata per la sola e comprovata destinazione del prodotto ad uso personale (1).

(1) Si legge quanto appresso in sentenza:
1) La Corte di Appello di Milano, con sentenza del 5 dicembre 2003, ha confermato la sentenza resa in data 25.03.2003 dal Tribunale di Vigevano in composizione monocratica, che aveva dichiarato D.S.V. colpevole del reato di cui:
- all’art. 73, commi 1 e 4, del D.P.R. n. 309/1990 [perché, senza l’autorizzazione di cui all’art. 17, coltivava n. 7 piante di cannabis indica con titolo medio dello 0,21% pari a grammi 2,13 di principio attivo puro - acc. in Candia Lomellina il 3 1.8.2001] e lo aveva condannato ritenuta l’ipotesi di cui all’art. 73, comma 5, del D.P.R. n. 309/1990 e previo riconoscimento di circostanze attenuanti generiche prevalenti sulla contestata recidiva alla pena, condizionalmente sospesa, di mesi quattro di reclusione ed euro mille di multa, disponendo la confisca e distruzione di quanto in sequestro.
Le piante tratte in sequestro erano risultate di cannabis e l’imputato aveva ammesso il fatto, precisando che il raccolto era destinato al suo esclusivo uso personale.
2) In punto di diritto, la Corte meneghina ha osservato che il reato contestato ha natura di reato di pericolo, alla cui configurabilità non osta l’eventuale insufficiente grado di tossicità del raccolto (precisando, peraltro, che nel caso di specie “…la sostanza era idonea ed aveva efficacia drogante anche se nel momento del sequestro le piante non erano in piena maturazione…”), né la dimensione ridotta (domestica) della coltivazione (”…tale reato non può essere escluso nel caso di coltivazione limitata in quanto trattasi di reato di pericolo che si perfeziona con la coltivazione volontariamente attuata dall’imputato per consumo proprio e forse di altri in quanto non è provato che fosse solo destinata ad uso personale. Non può considerarsi semplice detenzione per uso personale in quanto trattasi di coltivazione destinata anche a terzi, anche se di modesta quantità…”).
3) Avverso tale sentenza l’imputato ha proposto tempestivo ricorso per Cassazione, deducendo l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche di cui si deve tener conto nell’applicazione della legge penale [art. 606 comma primo, lett. c) c.p.p.].
Il ricorrente, in particolare, prospetta che la condotta accertata non costituirebbe una “coltivazione” in senso tecnico, perché rudimentale e limitata ad un numero esiguo di piante con destinazione all’uso personale, in difetto della prova (che sarebbe stato onere del P.M. fornire) di una destinazione diversa, e comunque che la totale assenza di principio attivo rinvenuto nella sostanza sequestrata farebbe escludere la sussistenza del reato contestato.
Tali rilievi indurrebbero a ritenere l’inidoneità della condotta accertata a porre in pericolo il bene tutelato penalmente dal D.P.R. n. 309 del 1990, sicché residuerebbe il mero illecito amministrativo ex art. 75 dello stesso D.P.R.
Il coordinatore dell’Ufficio esame preliminare dei ricorsi ha rilevato che, in merito alla configurabilità del delitto contestato all’imputato, sussiste un persistente contrasto giurisprudenziale e, conseguentemente, ha trasmesso il ricorso al Primo Presidente a norma dell’art. 618 c.p.p.    
Il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali, fissando per la trattazione l’odierna udienza pubblica.


Motivi della decisione
1. La questione controversa sottoposta all’esame delle Sezioni Unite consiste nello stabilire “…se la condotta di coltivazione di piante, dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, sia penalmente rilevante anche quando sia realizzata per destinazione del prodotto ad uso personale…”.
2. In relazione a tale questione esiste effettivamente un contrasto nella giurisprudenza di legittimità.
2.1 L’orientamento prevalente ritiene che la coltivazione di piante da cui possono ricavarsi sostanze stupefacenti sia penalmente illecita, quale che sia la destinazione del raccolto. La destinazione ad uso personale non può assumere alcun rilievo, sia perché difetta il nesso di immediatezza della coltivazione con l’uso personale, sia perché non può determinarsi a priori la potenzialità della sostanza stupefacente ricavabile (vedi Cass., Sez. IV, 23.3.2006, n. 10 I 38. Colantoni).
In tal senso - all’esito del referendum abrogativo del 1993 - si è pronunciata, per la prima volta, la Sez. IV con la sentenza 5.5.1995, n. 913, P.G. in proc. Paoli, affermando il principio secondo il quale “…l’attività di coltivazione costituisce reato a prescindere dall’uso che il coltivatore intende fare della sostanza ricavabile, dal momento che la coltivazione e la detenzione costituiscono due condotte del tutto distinte e l’art. 75 del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, come modificato dal D.P.R. 5 giugno 1993, n. 171 in applicazione dell’esito del referendum, non fa alcun riferimento all’attività di coltivazione…” (principio ribadito dalla stessa Sez. VI con le sentenze 5.1.1997, n. 100, Garcea e 5.4.2000, n. 4209, P.G. in proc. Reile).
Ai fini della verifica circa la sussistenza del reato di coltivazione abusiva non rilevano la quantità e qualità delle piante, la loro effettiva tossicità o la quantità di sostanza drogante da esse estraibile, poiché la previsione incriminatrice è rivolta a vietare la produzione di specie vegetali idonee a produrre l’agente psicotropo, indipendentemente dal principio attivo estraibile (Cass., Sez. IV, 29.9.2004, n. 46529, Aspri ed altro).
La modesta estensione della coltivazione, la qualità delle piante ed il loro grado di tossicità possono al più rilevare solo ai fini della considerazione della gravità del reato e della commisurazione della pena (vedi Cass.: Sez. IV, 6.2.2004, n. 4836, Felsini e Sez. VI, 9.6.2004, n. 31472, De Rimini).
Ancora la IV Sezione, con la sentenza 5.2.2001, n. 4928, Croce, ha osservato che il differente trattamento riservato alla coltivazione rispetto alla mera detenzione si fonda sulla valutazione di maggiore pericolosità ed offensività insita nell’essere la coltivazione, la produzione e la fabbricazione di sostanze stupefacenti (sempre penalmente sanzionate ancorché non qualificate da una precisa finalità di commercio) attività che sono tutte rivolte alla creazione di nuove disponibilità, con conseguente pericolo di circolazione e diffusione delle droghe nel territorio nazionale e rischio per la pubblica salute e incolumità.
Il legislatore - delimitando i confini della liceità giuridica in base al criterio dell’impiego dello stupefacente per il proprio esclusivo bisogno soltanto a quelle determinate forme di condotta che sono menzionate nell’art. 75 del D.P.R. n. 309/1990 (le quali, se connotate dal fine di uso personale della sostanza, restano fuori dal campo di repressione penale) - non ha voluto sottrarre alla generale disciplina proibizionistica il fatto di chi, invece, coltiva e fabbrica la droga e ciò allo scopo di colpire, in vista della tutela di superiori interessi collettivi, una delle fonti di produzione delle sostanze, indipendentemente dall’accertamento dell’esclusività della destinazione all’uso personale che alle stesse venga data, per l’immanente pericolo, non altrimenti controllabile, di dilatazione e propagazione del degenerativo ed antisociale fenomeno delle tossicomanie.
Alla stregua delle considerazioni anzidette è stata disattesa la tesi della equiparabilità della c.d. “coltivazione domestica” alla detenzione per uso personale, poiché le due condotte sono “antologicamente distinte sul piano della stessa materialità” ed è stato affermato che, stante la natura di reato di pericolo del precitato delitto, la coltivazione, intesa in senso ampio, purché idonea alla produzione di sostanze con effetti stupefacenti, si differenzia nettamente dalle condotte colpite da sanzioni di natura amministrativa, indicate nell’art. 75.
Tali affermazioni sono state comunque “temperate” -tenuto conto delle considerazioni svolte dalla giurisprudenza costituzionale, di cui si darà conto di seguito- dalla specificazione che, ove la sostanza ricavabile dalla coltivazione sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato, ben può il giudice di merito escludere l’offensività in concreto e ritenere la condotta non punibile.
Sempre la IV Sezione, con la sentenza 10.6.2005, n. 22037, Gallo, ha rilevato che, pure alla stregua del letterale disposto dell’art. 26 del D.P.R. n. 309/1990, non è dato distinguere tra una coltivazione “di tipo tecnico-agrario” ed una coltivazione “domestica”. Viene osservato, al riguardo, che è vero che l’art. 27 dello stesso D.P.R. fa riferimento anche alle “particelle catastali” ed alla “superficie del terreno sulla quale sarà effettuata la coltivazione”, ed i successivi artt. 28, 29 e 30 richiamano, oltre che le modalità di vigilanza, raccolta e produzione delle “coltivazioni autorizzate” e le eccedenze di produzione “sulle quantità consentite”, le sanzioni in caso di mancata autorizzazione; tali prescrizioni, però, riguardano la “autorizzazione alla coltivazione” e sono indicative, cioè, dei requisiti richiesti per ottenere detta autorizzazione. Del tutto confliggente con la normativa sarebbe la conclusione che, in mancanza della prescritta autorizzazione, concedibile solo in presenza dei requisiti indicati dalla legge, sarebbe in ogni caso consentita la coltivazione di piante di sostanze stupefacenti, quale che sia la loro quantità, purché non messe a dimora in un terreno identificabile nelle sue particelle catastali e secondo le altre prescrizioni al riguardo indicate dalla legge.
2.2 Un diverso (e minoritario) orientamento, affermatosi nella giurisprudenza più recente, ritiene, al contrario, che la c.d. “coltivazione domestica” non integri gli estremi della fattispecie tipica della “coltivazione” oggetto di incriminazione nell’ambito dell’art. 73, comma primo, del D.P.R. n. 309 del 1990, ma costituisca species del più ampio genus (di chiusura) della “detenzione”, di cui al 1 comma del successivo art. 75, risultando conseguentemente depenalizzata se finalizzata all’esclusivo uso personale, e ciò anche alla luce del regime normativo introdotto dalla legge n. 49 del 2006.
La prima affermazione di principio in tal senso si rinviene in Cass. Sez. VI, 30.5.1994, n. 6347, Polisena, secondo la quale “…una volta abrogato il divieto dell’uso personale di sostanze stupefacenti… ed una volta che il discrimine fra gli illeciti penale ed amministrativo resta fissato soltanto nella destinazione della sostanza al consumo personale, l’esigenza di evitare irragionevoli disparità di trattamento per condotte [caratterizzate] dal medesimo fine e quindi di interpretare l’art. 75 in senso conforme alla Costituzione impone in modo più stringente di estendere tale discrimine anche alla coltivazione. E tale risultato può essere agevolmente realizzato attraverso un’interpretazione estensiva dell’espressione “comunque detiene” di cui al testo del primo comma dell’art. 75, in modo da comprendervi anche quelle attività che, come appunto la coltivazione, implichino comunque la detenzione della sostanza stupefacente prodotta” (principio affermato in relazione alla detenzione-coltivazione di due piantine di canapa indiana).
Tale decisione ritenne la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 75 del D.P.R. n. 309 del 1990, come modificato dal D.P.R. n. 171 del 1993, nella parte in cui affermava la non punibilità del tossicodipendente per detenzione, acquisto ed importazione della sostanza stupefacente per uso personale, e ne prevedeva invece la punizione nel caso che si fosse procurato la droga mediante coltivazione domestica, osservando che l’ipotesi normativa di coltivazione evocherebbe, in realtà, la disponibilità di un terreno ed una serie di attività dei destinatari delle norme sulla coltivazione (preparazione del terreno, semina, governo dello sviluppo delle piante, ubicazione dei locali destinati alla custodia del prodotto ecc.), quali si evincono dagli artt. 27 e 28 del D.P.R. n. 309 del 1990. Cosi intesa la coltivazione di sostanze stupefacenti e psicotrope penalmente rilevante, considerata la diversità dei presupposti ed avuto riguardo alla complessa attività svolta dal tossicodipendente per procurarsi la droga -qualunque sia il fine cui essa è rivolta- si ritenne ragionevole la diversità della disciplina normativa ad essa riservata rispetto alle altre ipotesi singolarmente contemplate dall’art. 75, relativamente alle quali è stata esclusa l’illiceità penale delle condotte, quando la droga sia destinata all’uso personale.
L’orientamento, dopo l’intervento della Corte Costituzionale con la sentenza n. 360 del 1995, fu abbandonato per oltre un decennio, ed è stato solo recentemente riproposto, successivamente all’entrata in vigore della legge n. 49 del 2006, da Cass., Sez. VI, 10.5.2007, n. 17983, Notaro, le cui argomentazioni sono state richiamate da diverse successive decisioni conformi della stessa Sezione.
La sentenza n. 17983/07, Notaro, nel riepilogare l’evoluzione storica della normativa del settore, ha evidenziato che, nell’originaria formulazione del T.U. sugli stupefacenti n. 309/1990, l’art. 75 sanzionava come illecito amministrativo la condotta di chiunque, per farne uso personale, “importava, acquistava o comunque deteneva” sostanze stupefacenti, senza menzionare la condotta di coltivazione, in quanto quella normativa ricollegava la destinazione all’uso personale al non superamento della “dose media giornaliera”, dato quantitativo ontologicamente incompatibile con il concetto di coltivazione. Una volta espunto però, dal D.P.R. 5.6.1993, n. 171, all’esito del referendum abrogativo del 1993, il riferimento alla “dose media giornaliera”, deve ritenersi possibile far rientrare la coltivazione c.d. domestica (per il solo consumo personale) nell’ambito della detenzione pura e semplice riconducibile all’espressione “comunque detiene” tuttora presente nella vigente previsione di cui al 1 ° comma dell’art. 75.
L’analisi storicizzata dell’espressione “o comunque detiene” conduce a ritenere che essa si riferisca ad un comportamento descrittivo formulato in termini di sintesi, dato che tutte le 5 condotte previste dall’art. 73 del D.P.R. n. 309/1990 sembrano comunque presupporre una forma di detenzione.
Il D.L. 30.12.2005, n. 272, convertito dalla legge 21.2.2006, n. 49, ha adottato un modello repressivo apparentemente in grado di sottrarre la coltivazione dal regime di chi comunque detiene sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella I prevista dall’art. 14 [opportunamente ‘rimodernata’ con la previsione alla lettera a), n. 6, fra l’altro, proprio della cannabis indica, e dei prodotti da essa ottenuti, nonché dei tetraidrocannabinoli, dei loro analoghi naturali, delle sostanze ottenute per sintesi o semisintesi che siano ad essi riconducibili per struttura chimica o per effetto farmaco- tossicologico; v. anche il n. 7 della stessa lettera a)]; ma ciò non deve far trascurare che l’art. 75, comma I , reiterando l’espressione “o comunque detiene”, consente di ricomprendere nel lessico di genere anche la coltivazione, come sintesi di tutte le condotte richiamate dall’art. 73 nel suo integrale contesto, ben potendosi ritenere compatibile con l’attuale regime una coltivazione che “per le altre circostanze dell’azione”, appare destinata ad un uso non esclusivamente personale.
D’altro canto - sempre secondo la sentenza Notaro - il regime dell’equiparazione quod poenam della repressione delle attività illecite concernenti gli stupefacenti (vedi il richiamo dell’art. 73 all’art. 14) conduce ad escludere che un legislatore (non tanto razionale, quanto) ragionevole possa aver previsto la pena da anni sei di reclusione ed euro 26.000,00 di multa ad anni venti (di reclusione ed euro 260.000,00 di multa [nella compresenza delle circostanze richieste dall’art. 73, comma 5, per la configurazione dei “fatti di lieve entità”, da un anno di reclusione ed euro 3.000,00 di multa ad anni sei di reclusione ed euro 26.000,00 di multa] per la coltivazione di un numero circoscritto di piante di marijuana (dotate di effetto drogante) per chi non intenda fare commercio del risultato della coltivazione, ma coltivi la cannabis per uso personale (consumo voluttuario o curativo, studio, etc.).
Viene ripresa la distinzione tra la nozione di “coltivazione c.d. domestica” e quella di “coltivazione in senso tecnico” (che si afferma dover assumere rilievo anche a seguito della legge n. 49 del 2006): la prima configurabile quando il soggetto agente mette a dimora, in vasi detenuti nella propria abitazione, alcune piantine di sostanze stupefacenti. Tale condotta rientrerebbe nel più ampio genus della detenzione, con la conseguenza che, ove si accerti la destinazione esclusiva del prodotto all’uso personale della sostanza, essa risulterebbe depenalizzata.
Un solido fondamento di tale assunto viene individuato nella disciplina amministrativa complementare (artt. 26 e segg. del D.P.R. n. 309 del 1990) che regola le procedure per il rilascio dell’autorizzazione ministeriale alla “coltivazione” e le modalità con le quali tale attività può essere lecitamente svolta: il concetto tecnico-giuridico di “coltivazione” di piante contenenti principi attivi di sostanze stupefacenti penalmente rilevante comprenderebbe soltanto la coltivazione in senso tecnico-agrario ovvero imprenditoriale, che è caratterizzata da una serie di presupposti, quali la disponibilità del terreno, la sua preparazione, la semina, il governo dello sviluppo delle piante, la presenza di locali destinati alla raccolta dei prodotti, laddove, al contrario, la coltivazione c.d. domestica rientrerebbe nell’ambito della nozione di “detenzione”.
Rileva ancora la sentenza n. 17983/07 che la conclusione contraria - che fa ricadere in ogni caso le condotte di “coltivazione” nell’area del penalmente rilevante, negando l’autonomo rilievo della nozione di detenzione-coltivazione - non fa che trasferire un dato di inferenza probatoria (quale è quello della destinazione della sostanza stupefacente) nella ratio del precetto, “tanto da assegnare al contesto di scoperta forza dirimente ai fini della identificazione della fattispecie”. Ed infatti, sul presupposto che la detenzione per uso personale è penalmente irrilevante, il tema probatorio costituito dall’uso personale finisce col coincidere con la stessa struttura della norma, nel senso che, una volta accertato l’uso personale, la sua forza esimente è affidata al contesto in cui il fatto è accertato. Nel caso in cui il prodotto della coltivazione sia stato già raccolto, viene meno il pericolo astratto della condotta di coltivazione, fino a consentire l’utilizzazione di strumenti di verifica del pericolo effettivo, e se, invece, la coltivazione è ancora in corso, tale accertamento resta precluso, perché del tutto irrilevante ai tini dell’identificazione dell’ipotesi di reato e della sua punibilità. Se poi solo una parte di quanto coltivato è stato raccolto, per questa sola parte cessa il pericolo del pericolo ed è possibile verificare, con il pericolo concreto, anche il pericolo astratto per la salute, secondo un canone del tutto inidoneo a discriminare la detenzione per il consumo personale dall’esito della coltivazione, come tale non punibile, dalla detenzione-coltivazione di quanto ancora non raccolto, come tale punibile. L’irragionevolezza di siffatte conseguenze finirebbe col dipendere dalla scelta di affidare la definizione del fatto al momento in cui si apprende la notitia criminis”.
3. La Corte Costituzionale, con la decisione n. 443 del 1994, dichiarò inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 28, 72, 73 e 75 del D.P.R. n. 309 del 1990, come modificati dal D.P.R. n. 171/1993 (che aveva recepito l’esito della precedente consultazione referendaria, sopprimendo il riferimento al concetto di “dose media giornaliera” quale parametro fisso ed inderogabile, sintomatico della destinazione delle sostanze stupefacenti e psicotrope all’uso personale), sollevata per la prospettata violazione dei principi di parità di trattamento e di ragionevolezza della norma penale incriminatrice, nella parte in cui le disposizioni anzidette non escludevano la illiceità penale delle condotte di coltivazione o fabbricazione di sostanze stupefacenti o psicotrope univocamente destinate all’uso personale proprio.
Rilevò in quell’occasione il Giudice delle leggi che il remittente [anche quella volta il G.I.P. del Tribunale di Savona] aveva del tutto omesso la previa verifica della possibilità di una esegesi adeguatrice delle norme impugnate, non essendosi posto il problema “..se, proprio alla luce, e nel quadro del riferito ius superveniens, l’operata depenalizzazione della condotta di chi …comunque detiene sia già interpretativamente estensibile alle condotte di chi coltiva e fabbrica…” (le sostanze in oggetto per il fine indicato) quale previste dalla normativa denunciata); ciò “…a fortiori quando, come nella specie, i primi interventi giurisprudenziali e dottrinali già risultino orientati proprio nel senso della interpretazione conforme al precetto costituzionale…”.
Venne suggerita così la possibilità di ritenere che le condotte di coltivazione per uso personale potessero essere sottratte, unitamente a quelle di importazione, acquisto o detenzione per il medesimo fine, alla sfera dell’illiceità penale.
Questa Corte di Cassazione, però, solo qualche mese dopo tale decisione - con le sentenze della IV Sezione 4.12.1993, n. 11138, Gagliardi e 5.5.1995, n. 913, P.G. in proc. Paoli - ritenne di non adeguarsi a tale interpretazione adeguatrice, argomentando essenzialmente sulla natura di reato di pericolo della “coltivazione” e sulla non assimilabilità della coltivazione stessa alla “detenzione”, così contrastando le aperture che avevano invece caratterizzato la giurisprudenza di merito.
Venne dunque riproposta la questione di legittimità costituzionale dell’art. 75 del D.P.R. n. 309 del 1990, come modificato dal D.P.R. n. 171/1993, sollevata in relazione agli artt. 3, 13, 25 e 27 della Costituzione, e la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 360 del 1995 - alla luce dell’interpretazione restrittiva fornita da questa Corte di legittimità - ne dichiarò l’infondatezza.
La Consulta ritenne la questione non fondata, evidenziando l’insussistenza della denunciata disparità di trattamento in ragione della non comparabilità della condotta delittuosa di “coltivazione”, prevista dall’art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990, con alcuna di quelle allegate dal giudice remittente come tertia comparationis ed argomentò, in particolare, che “…la detenzione, l’acquisto e l’importazione di sostanze stupefacenti per uso personale rappresentano condotte collegate immediatamente e direttamente all’uso stesso, e ciò rende non irragionevole un atteggiamento meno rigoroso del legislatore nei confronti di chi, ponendo in essere una condotta direttamente antecedente al consumo, ha già operato una scelta che, ancorché valutata sempre in termini di illiceità, l’ordinamento non intende contrastare nella più rigida forma della sanzione penale, venendo in rilievo, in un contesto emergenziale di contingente aggravamento delle conseguenze delle tossicodipendenze, il rischio alla salute dell’assuntore ove ogni condotta immediatamente antecedente al consumo fosse assoggettata a sanzione penale. Invece, nel caso della coltivazione manca questo nesso di immediatezza con l’uso personale e ciò giustifica un possibile atteggiamento di maggior rigore, rientrando nella discrezionalità del legislatore anche la scelta di non agevolare comportamenti propedeutici all’approvvigionamento di sostanze stupefacenti per uso personale. Per altro verso la scelta della non criminalizzazione del consumo in sé (che rappresenta una nota costante di tale disciplina di settore, pur nelle alterne formulazioni ispirate a maggiore o minor rigore) implica necessariamente anche, in qualche misura, la non rilevanza penale di comportamenti immediatamente precedenti, essendo di norma la detenzione (spesso l’acquisto, talvolta l’importazione) l’antecedente ultimo dell’assunzione. La linea di confine di queste condotte che, per il fatto di approssimarsi all’area di non illiceità penale (quella del consumo), si giovano di riflesso di una valutazione di maggiore tolleranza, è stata segnata prima dalla modica quantità, poi dalla dose media giornaliera, infine dall’uso personale; ma si tratta pur sempre di una sorta di cintura protettiva del nucleo centrale (id est il consumo) per evitare il rischio che l’assunzione di sostanze stupefacenti - che il legislatore ha ritenuto da ultimo di contrastare appunto con la comminatoria di sanzioni solo amministrative per le condotte ritenute più immediatamente antecedenti - possa indirettamente risultare di fatto assoggettata a sanzione penale. La coltivazione invece è esterna a quest’area contigua al consumo e ciò già di per sé rende ragione sufficiente di una disciplina differenziata. Né va taciuto che la stessa destinazione ad uso personale si presta ad essere apprezzata in termini diversi nelle situazioni qui comparate. Infatti nella detenzione, acquisto ed importazione il quantitativo di sostanza stupefacente è certo e determinato e consente, unitamente ad altri elementi attinenti alle circostanze soggettive ed oggettive della condotta, la valutazione prognostica della destinazione della sostanza. Invece, nel caso della coltivazione, non è apprezzabile ex ante con sufficiente grado di certezza la quantità di prodotto ricavabile dal ciclo più o meno ampio della coltivazione in atto, sicché anche la previsione circa il quantitativo di sostanza stupefacente alla fine estraibile dalle piante coltivate, e la correlata valutazione della destinazione della sostanza stessa ad uso personale, piuttosto che a spaccio, risultano maggiormente ipotetiche e meno affidabili; e ciò ridonda in maggiore pericolosità della condotta stessa, anche perché - come ha rilevato la stessa giurisprudenza della Corte di Cassazione - l’attività produttiva è destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi coltivabili e quindi ha una maggiore potenzialità diffusiva delle sostanze stupefacenti estraibili…”.
La sentenza n. 360 del 1995 evidenziò altresì che la persistente illiceità penale della coltivazione, anche qualora univocamente destinata all’uso personale ed indipendentemente dalla quantità di principio attivo prodotto, resisteva anche alla verifica condotta (ex artt. 25 e 27 Cost.) alla stregua del principio di offensività, rilevando che “la verifica del rispetto del principio dell’offensività come limite di rango costituzionale alla discrezionalità del legislatore ordinario nel perseguire penalmente condotte segnate da un giudizio di disvalore implica la ricognizione della astratta fattispecie penale, depurata dalla variabilità del suo concreto atteggiarsi nei singoli comportamenti in essa sussumibili. Operata questa astrazione degli elementi essenziali del delitto in esame, risulta una condotta (quella di coltivazione di piante da cui sono estraibili i principi attivi di sostanze stupefacenti) che ben può valutarsi come pericolosa, ossia idonea ad attentare al bene della salute dei singoli per il solo fatto di arricchire la provvista esistente di materia prima e quindi di creare potenzialmente più occasioni di spaccio di droga; tanto più che - come già rilevato - l’attività produttiva è destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi coltivabili. Si tratta quindi di un tipico reato di pericolo, connotato dalla necessaria offensività proprio perché non è irragionevole la valutazione prognostica sottesa alla astratta fattispecie criminosa - di attentato al bene giuridico protetto. E - come già questa Corte ha avuto occasione di rilevare (sentenze n. 133 del 1992 e n. 333 del 1991; ma cfr. anche sentenza n. 62 del 1986) - non è incompatibile con il principio di offensività la configurazione di reati di pericolo presunto; né nella specie è irragionevole od arbitraria la valutazione, operata dal legislatore nella sua discrezionalità, della pericolosità connessa alla condotta di coltivazione. Diverso profilo è quello dell’offensività specifica della singola condotta in concreto accertata; ove questa sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato (come nel caso -prospettato dal giudice rimettente - della coltivazione in atto, e senza previsione di ulteriori sviluppi, di un’unica pianta da cui possa estrarsi il principio attivo della sostanza stupefacente in misura talmente esigua da essere insufficiente, ove assunto, a determinare un apprezzabile stato stupefacente), viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta, proprio perché la indispensabile connotazione di offensività in generale di quest’ultima implica di riflesso la necessitò che anche in concreto la offensività sia ravvisabile almeno in grado minimo, nella singola condotta dell’agente, in difetto di ciò venendo la fattispecie a rifluire nella figura del reato impossibile (art. 49 cod. pen.). La mancanza dell’offensività in concreto della condotta dell’agente non radica però alcuna questione di costituzionalità, ma implica soltanto un giudizio di merito devoluto al giudice ordinario (sentenze n. 133 del 1992 e n. 333 del 1991 già citate)”.
Pur dopo avere ammesso espressamente la configurabilità della condotta di “coltivazione” anche in relazione alla coltivazione domestica di un’unica pianta, la Corte costituzionale precisò che “costituisce poi questione meramente interpretativa, rimessa altresì al giudice ordinario, la identificazione, in termini più o meno restrittivi, della nozione di coltivazione che, sotto altro profilo, incide anch’essa sulla linea di confine del penalmente illecito”.
Alle valutazioni svolte nella sentenza n. 360 del 1995 si sono poi riportate le successive decisioni in tema (ordinanze n. 150 e n. 414 del 1996), in difetto di argomenti nuovi o di nuovi profili di censura.
Con la sentenza n. 296 del 1996, la Corte costituzionale ha avuto ancora modo di evidenziare che dal novero delle condotte contemplate dall’art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990, il successivo art. 75 ne estrapola tre - l’importazione, l’acquisto e la detenzione - per riferirle ad una finalità specifica dell’agente, che è quella di farne uso personale. Per effetto dell’esito referendario “le tre condotte contemplate dall’art. 75, ove finalizzate all’uso personale, sono state interamente attratte nell’area dell’illecito amministrativo, divenendo estranee all’area del penalmente rilevante; in tal modo è risultata anche in parte modificata la stessa strategia di (confermato) contrasto della diffusione della droga nel senso che è stata isolata la posizione del tossicodipendente (e anche del tossicofilo) rendendo tale soggetto destinatario soltanto di sanzioni amministrative - significative peraltro del perdurante disvalore attribuito alla attività di assunzione di sostanze stupefacenti - ma non anche di sanzione penale. Ciò però non sulla base soggettiva dell’autore della condotta, quasi si trattasse di una immunità personale, bensì sulla base oggettiva della condotta stessa (quale specificata nell’art. 75 nelle tre ipotesi suddette) e dell’elemento teleologico (della destinazione della droga ad uso personale). In tal modo - come questa Corte ha già puntualizzato (sentenza n. 360 del 1995) - ne risulta tracciata una cintura protettiva del consumo, volta ad evitare il rischio che l’assunzione di sostanze stupefacenti possa indirettamente risultare di fatto assoggettata a sanzione penale. In quest’area di rispetto ricadono comportamenti immediatamente precedenti essendo di norma la detenzione (spesso l’acquisto, talvolta l’importazione) l’antecedente ultimo dell’assunzione; ed è l’elemento teleologico della destinazione della droga all’uso personale ad assicurare (secondo id quod plerumque accidit) tale nesso di immediatezza. Ove invece non ricorra l’elemento oggettivo (di una delle tre condotte tipizzate nell’art. 75 cit.) o quello teleologico (appena ricordato) si ricade nell’area dell’illecito penale. Ciò anche nell’ipotesi di una condotta, quale quella della coltivazione di piante da cui si possono estrarre i principi attivi di sostanze stupefacenti al fine di fare uso personale delle stesse, che si approssima notevolmente a tale cintura protettiva, ma ne rimane pur sempre all’esterno, mancando la puntuale e rigorosa identificazione di uno dei due requisiti prescritti: condotta questa la cui perdurante rilevanza penale è stata ritenuta proprio per tale ragione non illegittima da questa Corte nella citata sentenza n. 360 del 1995.
4. Tenuto conto delle argomentazioni del Giudice delle leggi dianzi compendiate ed a fronte dei due orientamenti della giurisprudenza di legittimità dianzi illustrati, ritengono queste Sezioni Unite di affermare il principio secondo il quale costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale.
Valgono, al riguardo, le seguenti considerazioni:
a) Devono ribadirsi anzitutto gli argomenti svolti dalla Corte Costituzionale, nella sentenza n. 360 del 1995, con riferimento alla mancanza di nesso di immediatezza tra la coltivazione e l’uso personale ed alla impossibilità di determinare “ex ante” la potenzialità della sostanza drogante ricavabile dalla coltivazione, così da rendere ipotetiche e comunque meno affidabili le valutazioni in merito alla destinazione della droga all’uso personale piuttosto che alla cessione.
Non appaiono condivisibili, in proposito, le riflessioni della sentenza Notaro (n. 17983/07), che considerano “improprie” le argomentazioni anzidette, perché perverrebbero “ad una scelta ermeneutica … sulla base di un assetto interpretativo non proprio corrispondente agli effettivi risultati cui era giunta la giurisprudenza ordinaria”, per di più in contrasto con le conclusioni della stessa giurisprudenza costituzionale “in tema di differenza tra reati di pericolo astratto e reati di pericolo concreto”.
La Corte Costituzionale, infatti - come si è illustrato dianzi, al paragrafo 3 - tenne ben presente, al momento della decisione, sia la esistenza di un orientamento giurisprudenziale orientato a ritenere la coltivazione per uso personale depenalizzata all’esito del referendum del 1993 ed assoggettabile pertanto alle sole sanzioni amministrative, sia la diversa interpretazione restrittiva privilegiata da questa Corte di Cassazione..
Quanto poi alla valutazione della esposizione a pericolo degli interessi oggetto di tutela, la giurisprudenza costituzionale è ferma nel ritenere che i reati di pericolo presunto non sono astrattamente incompatibili con il principio di offensività.
La condotta di coltivazione (punibile fino dal momento di messa a dimora dei semi) si caratterizza, rispetto agli altri delitti in materia di stupefacenti, quale fattispecie contraddistinta da una notevole “anticipazione” della tutela penale e dalla valutazione di un “pericolo del pericolo”, cioè del pericolo, derivante dal possibile esito positivo della condotta, della messa in pericolo degli interessi tutelati dalla normativa in materia di stupefacenti. In tale prospettiva, anche qualora si ritenga che la salvaguardia immediata della “salute individuale” costituisca, all’esito del referendum abrogativo del 1993, un aspetto della tutela penale in parte ridimensionato, la pericolosità della condotta di coltivazione si correla, nella valutazione della Corte Costituzionale, alle esigenze di tutela della “salute collettiva” connesse alla valorizzazione del “pericolo di spaccio” derivante dalla capacità della coltivazione, attraverso l’aumento dei quantitativi di droga, di incrementare le occasioni di cessione della stessa ed il mercato degli stupefacenti fuori del controllo dell’autorità.
La “salute collettiva” è bene giuridico primario che, anche secondo l’elaborazione dottrinale, legittima sicuramente il legislatore ad anticiparne la protezione ad uno stadio precedente il pericolo concreto.
Questa Corte Suprema, inoltre, a Sezioni Unite (Cass., Sez. Unite, 21.9.1998, Kremi), ha rilevato che i beni oggetto di tutela penale da parte delle fattispecie incriminatrici previste dall’art. 73 del T.U. n. 309/1990 sono individuabili, oltre che nella salute pubblica, anche nella sicurezza e nell’ordine pubblico (in tal senso si è pure espressa la Corte Costituzionale con la sentenza n. 333/1991), nonché nella salvaguardia delle giovani generazioni, e può sicuramente affermarsi che l’implemento del mercato degli stupefacenti costituisce anche causa di turbativa per l’ordine pubblico e di allarme sociale.
b) Va evidenziato poi che la condotta di “coltivazione”, anche dopo l’intervento normativo del 2006, non è stata richiamata nell’art. 73, comma bis, né nell’art. 75, comma 1, ma solo nel comma I dell’art. 73 del novellato D.P.R. n. 309/1990.
Il legislatore, pertanto, ha voluto attribuire a tale condotta comunque e sempre una rilevanza penale, quali che siano le caratteristiche della coltivazione e quale che sia il quantitativo di principio attivo ricavabile dalle parti delle piante da stupefacenti.
Imprescindibile è, al riguardo, il rispetto delle garanzie di riserva di legge e di tassatività, tenuto conto che il c.d. problema della droga presenta il pericolo effettivo che la carica ideologica ad esso inerente, in senso vuoi libertario vuoi conservatore e repressivo, induca a risolverlo con schemi di ampliamento e dilatazione ovvero per contro riduttivi. Deve essere pertanto circoscritta al legislatore e ad esso soltanto la responsabilità delle scelte circa i limiti, gli strumenti, le forme di controllo da adottare.
c) è agevole ricavare dall’art. 75 del D.P.R. n. 309/1990 (ed in claris non fit interpretatio) l’esclusione dal regime dell’uso personale di tutte le altre condotte previste dall’art. 73, ad eccezione dell’importazione. acquisto o comunque della detenzione; vale a dire le condotte di chiunque “coltiva, produce, fabbrica, raffina, vende, offre o mette in vendita a qualsiasi titolo, trasporta, esporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualsiasi scopo”. Il precedente art. 28, del resto, prevede espressamente l’assoggettabilità alle sanzioni anche penali stabilite per la fabbricazione illecita di chiunque, senza essere autorizzato, “coltiva le piante indicate nell’art. 36“.
d) Arbitraria deve ritenersi la distinzione tra “coltivazione in senso tecnico-agrario” ovvero “imprenditoriale” e “coltivazione domestica” ed essa non è legittimata dal dato letterale della norma, che non prevede alcuna specificazione del termine lessicale. L’art. 26 del D.P.R. n. 309/1990 (sotto il capo “Della coltivazione e produzioni vietate”) pone il divieto generale ed assoluto di coltivare le piante comprese nella tabella I di cui all’art. 14 (fra le quali è annoverata anche la cannahis indica), salvo il potere del Ministro della salute di autorizzare “istituti universitari e laboratori pubblici aventi fini istituzionali e di ricerca alla coltivazione delle piante … per scopi scientifici, sperimentali e didattici”.
Deve ritenersi vietata, pertanto, qualunque forma di coltivazione delle piante stupefacenti indicate nella tabella l - non necessariamente connotata (poiché la legge non lo prevede) da aspetti di imprenditorialità ovvero dalle caratteristiche proprie della coltivazione “tecnico-agraria” - fatta eccezione soltanto per quella “per scopi scientifici, sperimentali e didattici” assentibile con autorizzazione in favore di “istituti universitari e laboratori pubblici aventi fini istituzionali e di ricerca”.
Il fatto che nei successivi artt. 27-29 e 30 d.P.R. n. 309 del 1990 siano previste norme particolari per la concessione delle autorizzazioni alla coltivazione (quali la disponibilità del terreno, la sua preparazione, la semina, il governo dello sviluppo delle piante, la disponibilità di locali per la raccolta dei prodotti) non può essere interpretato nel senso che le attività di coltivazione che non abbiano requisiti siffatti non siano soggette ad autorizzazione, e quindi siano lecite, ma solo che l’autorizzazione, per usi di ricerca o didattici, può essere concessa esclusivamente in presenza di questi elementi, sicché mai potrebbe essere autorizzata una coltivazione domestica per uso personale.
e) Qualsiasi tipo di coltivazione è caratterizzato da un dato essenziale e distintivo rispetto alle fattispecie di detenzione, che è quello di contribuire ad accrescere (in qualunque entità), pure se mirata a soddisfare esigenze di natura personale, la quantità di sostanza stupefacente esistente, sì da meritare un trattamento sanzionatorio diverso e più grave. La coltivazione, inoltre, presenta la peculiarità ulteriore di dare luogo ad un processo produttivo astrattamente capace di “autoalimentarsi” attraverso la riproduzione dei vegetali. Con tali affermazioni non si opera “una confusione del fine nella struttura del precetto penale” né si accentra l’esame sul profilo teleologico, per poi pervenire, proprio attraverso di esso, alla ricostruzione strutturale della coltivazione (come viene contestato nella sentenza Notaro), ma si dà esclusivamente conto della ratio del diverso trattamento sanzionatorio, in un contesto normativo nel quale neppure appaiono condivisibili le considerazioni svolte nella sentenza medesima circa la “indeterminatezza della natura dell’offesa”.
Nel caso, poi, in cui il coltivato (o parte di esso) sia stato raccolto, la successiva detenzione del prodotto della coltivazione per finalità di uso personale non comporta la sopravvenuta irrilevanza penale della precedente condotta di coltivazione, con inammissibile “assorbimento” nella fattispecie amministrativa dell’illecito penale, che è autonomo anche sotto il profilo temporale.
5) Residua un’ultima notazione circa la necessità, in ogni caso, della verifica -demandata al giudice del merito- dell’offensività specifica della singola condotta in concreto accertata.
Il principio di offensività - in forza del quale non è concepibile un reato senza offesa (nullum crimen sine iniuria) - secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale, opera su due piani, “rispettivamente, della previsione normativa, sotto forma di precetto rivolto al legislatore (di prevedere fattispecie che esprimano in astratto un contenuto lesivo, o comunque la messa in pericolo, di un bene o interesse oggetto della tutela penale (offensività in astratto), e dell’applicazione giurisprudenziale (offensività in concreto), quale criterio interpretativo-applicativo affidato al giudice, tenuto ad accertare che il fiato di reato abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l’interesse tutelato” (così testualmente Corte Cost. n. 265/05 e, in senso conforme, vedi pure le decisioni nn. 360/95, 263/00, 519/00, 354/02).
Nella specie la Corte Costituzionale, come già si è detto, con la sentenza n. 360 del 1995, ha ritenuto che la condotta di coltivazione di piante da cui sono estraibili i principi attivi di sostanze stupefacenti integra un tipico reato di pericolo presunto, connotato dalla necessaria offensività della fattispecie criminosa astratta.
In ossequio, però, al principio di offensività inteso nella sua accezione concreta, spetterà al giudice verificare se la condotta, di volta in volta contestata all’agente ed accertata, sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto, risultando in concreto inoffensivo.
La condotta è “inoffensiva” soltanto se il bene tutelato non è stato leso o messo in pericolo anche in grado minimo (irrilevante, infatti, è a tal fine il grado dell’offesa), sicché, con riferimento allo specifico caso in esame, la “offensività” non ricorre soltanto se la sostanza ricavabile dalla coltivazione non è idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile.
6. Per tutte le argomentazioni dianzi svolte, il ricorso deve essere rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
la Corte Suprema di Cassazione, a Sezioni Unite, visti gli arti. 607, 615 e 616 c.p.p., rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.




La coltivazione illegale in materia di sostanze stupefacenti o psicotrope

1. La vicenda processuale

L’imputato D.V. è stato condannato in entrambi i gradi di giudizio per il reato di cui all’art. 73, commi 1 e 4, del D.P.R. n. 309/1990(1), poiché, senza l’autorizzazione di cui all’art. 17(2), coltivava sette piante di cannabis indica, pari a grammi 2,13 di principio attivo puro.
Accertata la prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulla contestata recidiva e ritenute sussistenti le attenuanti specifiche di cui all’art. 73, comma 5, del D.P.R. in parola, l’imputato è stato condannato alla pena di quattro anni di reclusione e mille Euro di multa, pena peraltro condizionalmente sospesa, con confisca e distruzione di quanto sotto sequestro.
L’imputato medesimo, che aveva ammesso la propria condotta, nel contempo precisava che le piante erano coltivate per il suo proprio ed esclusivo uso personale. La condotta accertata, secondo la tesi avanzata da quest’ultimo, non costituirebbe, pertanto, una “coltivazione” in senso tecnico, in quanto rudimentale e limitata ad un numero esiguo di piante con destinazione all’uso personale. Spetterebbe al P.M., secondo tale argomentazione, l’onere di fornire la prova della eventuale diversa destinazione e, comunque, la totale assenza di principio attivo rinvenuto nella sostanza sequestrata di fatto escluderebbe la sussistenza del reato in contestazione.
I rilievi esposti avrebbero, secondo la tesi sostenuta dalla difesa, l’effetto di rappresentare l’intrinseca inidoneità della condotta del ricorrente a porre in pericolo il bene tutelato penalmente dal D.P.R. n. 309/1990, sicché residuerebbe il mero illecito amministrativo ex art. 75(3) dello stesso D.P.R.
Già a suo tempo nella motivazione della sentenza di condanna la Corte d’Appello aveva confermato la natura di reato di pericolo della coltivazione e, conseguentemente, l’irrilevanza dell’insufficiente grado di tossicità del raccolto o della dimensione ridotta (cd. domestica) della coltivazione in quanto la fattispecie del reato di che trattasi è caratterizzata “…da una notevole anticipazione della tutela penale e dalla valutazione di un pericolo del pericolo, cioè del pericolo, derivante dal possibile esito positivo della condotta, della messa in pericolo degli interessi tutelati dalla normativa in materia di stupefacenti…”.
L’ipotesi di coltivazione appare, secondo il Giudice del merito, assolutamente incompatibile con la eccepibilità dell’uso personale; si contesta, infatti, il diverso orientamento secondo il quale essendo la coltivazione domestica assimilabile alla detenzione potrebbe concretizzarsi l’ipotesi di mero uso personale.
Contrariamente argomentando, la difesa proponeva ricorso alla Suprema Corte avverso la sentenza di condanna, per inosservanza o erronea applicazione della legge penale, ai sensi dell’art. 606 comma primo, lett. c) c.p.p., deducendo, appunto, il fatto che la coltivazione di piante, dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, non sia penalmente rilevante ove venga realizzata per destinazione del prodotto ad uso personale.
Occorrerebbe, secondo la tesi difensiva, verificare in concreto se la coltivazione sia destinata alla produzione di sostanze destinate ad un uso esclusivamente personale, dunque non punibile, ovvero ai fini del successivo spaccio.
Il ricorso in parola ha consentito alla Suprema Corte di intervenire in materia stabilendo, una volta per tutte, se la coltivazione di piante da cui possono ricavarsi sostanze stupefacenti, che non si sostanzia nella coltivazione in senso tecnico-agrario ovvero imprenditoriale, rimanendo, per contro, nell’ambito concettuale della cd. coltivazione domestica, ricada nella nozione di detenzione.
L’importanza della pronuncia in commento riposa, appunto, in quel principio chiarificatore elaborato dalle S.S.U.U. il secondo il quale “…costituisce condotta penalmente rilevante ogni qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando questa sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale…”. In tal senso il Giudice del diritto ha risolto una volta per tutte i contrasti giurisprudenziali intervenuti in materia, sgomberando definitivamente il campo da ogni dubbio interpretativo.
Per la sussistenza del reato de quo, secondo la Suprema Corte, è sufficiente che venga coltivata anche la singola piantina di cannabis, essendo punito ex se il fatto della coltivazione stessa.
Secondo il Giudice del diritto la pericolosità nella fattispecie predetta è ontologicamente contenuta nella condotta di chi coltiva piante per la successiva estrazione di sostanze stupefacenti. Trattasi della medesima pericolosità che, indubbiamente, il legislatore individua anche nei casi di produzione e fabbricazione, ossia “…per tutte quelle attività rivolte alla creazione di nuove disponibilità…”. La maggior offensività è insita, in definitiva, in tutte quelle condotte che comportano il conseguente pericolo di circolazione e diffusione delle droghe nel territorio nazionale e, dunque, un rischio per la pubblica salute ed incolumità, accentuata dal concretizzarsi di “…un processo produttivo astrattamente capace di autoalimentarsi attraverso la riproduzione dei vegetali…”.
La Corte di cassazione ha stabilito, una volta per tutte, che l’attività di coltivazione è vietata e deve essere penalmente sanzionata, anche laddove la finalità dell’agente sia quella di destinare il prodotto della coltivazione a consumo personale qualificando la relativa fattispecie, dunque, alla stregua di reato di pericolo presunto o astratto.

2. Le basi giuridiche della pronuncia e l’attuale orientamento del legislatore

La Corte Costituzionale, intervenuta in materia a metà degli anni novanta(4), nel dichiarare infondata la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 75 (cit. in nota), nella parte in cui non prevedeva la coltivazione tra le ipotesi di uso personale, aveva a suo tempo fornito indicazioni precise specificatamente inquadrando il reato in argomento tra i reati di pericolo astratto e presunto e ponendo di fatto le basi per l’elaborazione di quell’orientamento che nella sentenza in commento gli ermellini hanno fatto proprio.
Il Giudice Costituzionale con la medesima precitata decisione, evidenziò che “…la verifica del rispetto del principio dell’offensività come limite di rango costituzionale alla discrezionalità del legislatore ordinario nel perseguire penalmente condotte segnate da un giudizio di disvalore implica la ricognizione della astratta fattispecie penale, depurata dalla variabilità del suo concreto atteggiarsi nei singoli comportamenti in essa sussumibili…”; la illiceità penale della condotta di chi è dedito alla coltivazione, anche ove univocamente destinata all’uso personale ed indipendentemente dalla quantità di principio attivo prodotto, è, secondo il Giudice Costituzionale, elemento la cui costituzionalità permane anche alla luce del disposto degli artt. 25 e 17 Cost. con esplicito riferimento al c.d. principio di offensività.
Già, dunque, nel 1995 si era negato che ad avere rilievo penale potesse essere esclusivamente la coltivazione cd. agraria a fronte di una eventuale presunta liceità di quella cd. domestica.
Né la successiva riforma del 2006(5) ha apportato alcun cambiamento significativo all’impianto normativo vigente che prosegue nella distinzione tra condotte penalmente rilevanti, che sono intrinsecamente ed assolutamente incompatibili con la destinazione ad uso personale (art. 73 comma 1, cit. in nota), e le condotte con essa compatibili (art. 73 comma 1- bis lett. A, cit. in nota).
Il legislatore include la coltivazione tra le condotte assolutamente incompatibili con la destinazione ad uso personale(6), chiudendo ogni spazio all’applicabilità della sanzione amministrativa, pur in presenza di una coltivazione di dimensioni talmente modeste da escludere una potenziale destinazione di mercato.
La sussistenza della figura criminosa in argomento si determina, dunque, ogni qualvolta venga coltivata anche una sola piantina di cannabis.
La parziale abrogazione del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 72 e art. 75, comma 1, intervenuta a seguito al D.P.R. 5 giugno 1993, n. 171(7), ha reso penalmente lecita la sola detenzione, l’importazione e l’acquisto di sostanze stupefacenti, se per uso strettamente personale, senza prevedere l’estensione di tale ritrovata liceità anche alla coltivazione delle droghe, assolutamente vietata nel territorio dello Stato. L’uso personale della sostanza prodotta non assume in nessun modo, secondo il legislatore, alcun valore scriminante.
A mezzo della sentenza in commento, la Suprema Corte è intervenuta ribadendo preliminarmente la bontà delle conclusioni cui già da tempo era giunta la Corte Costituzionale (v. sent. cit.) e, altresì, richiamando con forza la mancanza di nesso di immediatezza tra la coltivazione e l’uso personale (che, ad esempio, sussiste tra l’acquisto ed il successivo consumo personale cui il primo è finalizzato) nonché la impossibilità di determinare ex ante la potenzialità della sostanza drogante ricavabile dalla coltivazione.
La tesi fatta propria dal Giudice del diritto trova solida base in un’argomentazione di natura letterale. La condotta di coltivazione, come detto, anche dopo l’intervento normativo del 2006, non è stata richiamata nell’art. 73, comma 1 bis, né nell’art. 75, comma 1, ma solo nel comma l dell’art. 73 del novellato D.P.R. n. 309/1990.
Il precedente art. 28, del resto, prevede espressamente l’assoggettabilità alle sanzioni anche penali stabilite per la fabbricazione illecita di chiunque, senza essere autorizzato, “…coltiva le piante indicate nell’art. 36…”.
Prosegue il Giudice del diritto affermando che è da ritenersi del tutto arbitraria la distinzione tra coltivazione in senso tecnico-agrario ovvero imprenditoriale e coltivazione domestica (di cui si dirà più approfonditamente nella sezione seguente - n.d.a.), dal momento che essa non è legittimata dal dato letterale della norma, che non prevede alcuna specificazione del termine lessicale.
Ulteriore conferma si ricava dall’art. 26 del D.P.R. n. 309/1990, che, sotto il capo “Della coltivazione e produzioni vietate”, pone il divieto generale ed assoluto di coltivare le piante comprese nella tabella I di cui all’art. 14.
Il tratto essenziale e distintivo, nonché rilevante in tema di disvalore penale della condotta di chi effettua qualsiasi tipo di coltivazione, è quello di contribuire, rispetto alle fattispecie di detenzione, ad accrescere (in qualunque entità) la quantità di sostanza stupefacente esistente, pure se mirata a soddisfare esigenze di natura personale, sì da meritare un trattamento sanzionatorio diverso e più grave.
Ciò posto, le S.S.U.U. della Suprema Corte concordano nel ritenere che la sussistenza del reato de quo vada affermata anche nel caso in cui venga coltivata anche una sola piantina idonea a produrre sostanza stupefacente, appartenente ad una delle specie vietate, “…indipendentemente dalla percentuale di sostanza pura o di principio attivo presente nelle infiorescenze e nelle foglie…”.
Il legislatore, preso atto della consultazione popolare (cit. in nota), ha fissato i confini della liceità giuridica in base al criterio dell’impiego dello stupefacente per il proprio bisogno con riferimento alle sole forme di condotta che sono menzionate nell’art. 75 del D.P.R. n. 309/1990 (le quali, se connotate dal fine di uso personale della sostanza, restano fuori dal campo di repressione penale); non ha voluto, per contro, sottrarre alla generale disciplina proibizionistica la condotta di chi coltiva e fabbrica la droga.
Tale assetto normativo ha come fine evidente quello di tutelare superiori interessi collettivi(8), andando a sanzionare penalmente una delle fonti di produzione delle sostanze, indipendentemente dall’accertamento dell’esclusività della destinazione all’uso personale che alle stesse venga data, per l’immanente pericolo, non altrimenti controllabile, di dilatazione e propagazione dell’antisociale e degenerativo fenomeno delle tossicomanie.

3. La coltivazione c.d. “tecnico agricola” e la coltivazione c.d. domestica

Fissando l’impianto normativo di cui si è detto nella sezione precedente, il legislatore ha, di fatto, disatteso la tesi di chi, ancora oggi, ritiene equiparabili la c.d. coltivazione domestica e la detenzione per uso personale, giacché le due condotte sono “…ontologicamente distinte sul piano della stessa materialità…”.
La natura di reato di pericolo del correlato delitto(9) rende punibile la condotta di chi coltiva giacché pone in essere una attività di per sé idonea alla produzione di sostanze con effetti stupefacenti, e per questo si differenzia nettamente dalle condotte, indicate nell’art. 75, colpite solo da sanzioni di natura amministrativa.
L’ipotesi accusatoria adottata nel corso del procedimento in argomento inquadra la condotta, come si è ampiamente detto nella sezione precedente, nell’ambito della coltivazione di cui all’art. 73 D.P.R. cit.
La Corte Costituzionale, chiamata più volte a pronunciarsi nel merito, ha sottolineato l’esigenza interpretativa di evitare, ove possibile, con riferimento a tale fattispecie delittuosa, di criminalizzare, anche solo indirettamente, il consumo di sostanze stupefacenti; a riguardo, è possibile, sempre secondo la medesima Corte, dare un inquadramento giuridico al fatto che possa condurre a ritenere penalmente irrilevante anche la condotta di chi coltiva.
Si tratta di un intervento attraverso il quale il Giudice costituzionale, confermando l’orientamento oggi fatto proprio dalla Suprema Corte, ha inteso temperarne gli effetti richiamando l’applicazione in concreto del principio di offensività.
Spetta, dunque, all’interprete “…la identificazione, in termini più o meno restrittivi, della nozione di coltivazione…”(10), con l’effetto di segnalare la sussistenza di un’area di liceità penale per quelle condotte che, pur avendo ad oggetto la coltura di piante stupefacenti, per le loro qualità e quantità non rientrano nel concetto di coltivazione in senso stretto penalmente rilevante.
Sarà, quindi, il Giudice del merito a dover sussumere la condotta concreta del coltivatore nell’alveo della “coltivazione” di cui all’art. 73 D.P.R. 309/90 -punibile penalmente- ovvero in quello del “comunque detiene” di cui all’art. 75 D.P.R. cit. -punibile solo in via amministrativa.
A tal proposito, secondo alcuni, utile per l’interprete potrebbe rivelarsi la nota distinzione dottrinaria e giurisprudenziale tra coltivazione in senso c.d. “tecnico-agricola” da quella c.d. “domestica”.
La Cassazione, già con sentenza del 12 luglio 1994, aveva definito la coltivazione in senso tecnico-agricolo come l’attività su larga scala caratterizzata dalla “…disponibilità di un terreno e da una serie di attività dei destinatari delle norme sulla coltivazione(11) quali si evincono dagli artt. 27 e 28…”(12) che sono ex se incompatibili con la destinazione all’uso personale del prodotto in quanto idonee “…appunto ad accrescere effettivamente ed in modo significativo la provvista disponibile di stupefacente in circolazione…”(13) e, quindi, dimostrative di una destinazione finale, anche parziale, al mercato.
Ipotesi assai differente rispetto alla coltivazione c.d. tecnico-agraria è, secondo il giudice del 1994, la condotta di chi effettua una coltivazione domestica, per definizione modesta e rudimentale; l’agente, in tal caso, si limita a far crescere in casa, in vasi sul terrazzo o nel giardino della propria abitazione, un esiguo numero di piante da cui è possibile ricavare un quantitativo di droga modesto. Bastevole, dunque, per il solo uso personale, con l’effetto giuridico di realizzare una condotta che “…esula dalla nozione di coltivazione tecnico-agraria di cui agli artt. 26-28 D.P.R. 9 ottobre 1993, n. 309…”.
In tal caso, quindi, si sarebbe ben al di fuori del concetto di coltivazione di cui agli artt. 26-28 D.P.R. n. 309/90 anche se trattasi pur sempre, naturalisticamente, di una condotta di coltivazione. Tale condotta dovrebbe, dunque, essere inclusa nel più ampio concetto di detenzione, punibile, se inequivocabilmente destinata all’uso personale, solo amministrativamente.
Tale orientamento è stato confermato dalla Cassazione anche dopo la nota sentenza della Corte Costituzionale n. 360/95: la Corte medesima ha rigettato il ricorso del Procuratore della Repubblica, che impugnava la sentenza del GIP presso il Tribunale di Macerata con cui veniva assolto l’imputato, non costituendo il fatto reato, per aver coltivato ben 20 piante di Marijuana, statuendo nuovamente che “…correttamente il GIP ha inquadrato la fattispecie in esame, avuto riguardo anche al dato oggettivo, in rapporto all’elemento qualitativo/quantitativo delle piante coltivate in una forma atipica di coltivazione ad uso domestico…”.
In tal modo si veniva a mutuare il concetto dell’uso personale dello stupefacente dalle previsioni di cui all’art. 75 D.P.R. cit., pacifico essendo che la misura di coltivazione e le modalità di questa non appaiono assimilabili al concetto di coltivazione tecnico-agraria di cui agli artt. 26 e 28 DPR cit. “…in carenza degli aspetti di preparazione del terreno di semina e di governo dello sviluppo delle piante significativamente apprezzabili quali indici di condotta foriera di produzione in via diretta di sostanze stupefacenti che la norma intende sanzionare…”(14).
Nella sentenza in commento, invece, il Giudice del diritto richiama con forza l’arbitrarietà della distinzione tra le due forme di coltivazione, non essendo quest’ultima legittimata dal dato letterale della norma “…non rintracciandosi nel testo normativo alcuna specificazione del termine lessicale…”(15).
Gli ermellini lasciano solo una via percorribile per un intervento del giudice di merito che intenda discostarsi da un tale orientamento; trattandosi di reato di pericolo, la offensività, legittimamente presunta dal legislatore, ben può essere esclusa in concreto laddove, l’esame del caso pratico, consenta di rilevare l’inidoneità oggettiva della condotta a ledere il bene giuridico tutelato dalla fattispecie penale.

4. Gli orientamenti giurisprudenziali contrastanti - segue

Pur in presenza di un testo legislativo il cui dato letterale, a parere di chi scrive, appare chiaro nelle sue prescrizioni, non sono mancate dispute giurisprudenziali volte a dare rilevanza al dato del quantitativo personale anche in caso di coltivazione.
A tal fine si è fatto riferimento, di volta in volta, al principio di offensività, immanente nel nostro ordinamento penale(16), ed anche all’assimilazione della coltivazione domestica alla semplice detenzione (di cui alla sezione precedente).
Secondo l’orientamento dominante, che aderisce ad una logica di estremo rigore, si deve fare riferimento al dato letterale del Decreto n. 309/1990 che non distingue, come avviene in fatto di detenzione, a seconda della destinazione della coltivazione. Di conseguenza, anche in presenza di un esiguo numero di piantine, si concretizza la fattispecie di reato di cui all’art. 73.
La coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti o psicotrope, secondo questa tesi, costituisce vero e proprio reato di pericolo, la cui sussistenza deve essere affermata ogni qual volta venga coltivata anche una sola piantina idonea a produrre sostanza stupefacente, appartenente ad una delle specie vietate, indipendente dalla percentuale di sostanza pura o di principio attivo presente nelle infiorescenze e nelle foglie.
In definitiva, l’attività di coltivazione, in base al D.P.R. n. 309/1990, come modificato dalla legge 49 del 2006, è vietata e sanzionata penalmente anche qualora la finalità dell’agente sia quella di destinare il prodotto della coltivazione a consumo personale(17).
Tale orientamento determina l’assoluta irrilevanza sia di fattori qualitativi (il grado di tossicità) che quantitativi(18) (il numero di piante). La modesta estensione della coltivazione, la qualità delle piante ed il loro grado di tossicità possono rilevare eventualmente soltanto nell’ambito dell’accertamento della gravità del reato e della commisurazione della pena, dal momento che tali dati potrebbero valere soltanto ai fini dell’applicazione della circostanza aggravante speciale della “ingente quantità” di cui all’art. 80 D.P.R. n. 309/1990.
La coltivazione, secondo l’orientamento adottato dagli ermellini nella sentenza in commento, è tanto più grave in quanto idonea, anche se semplicemente in astratto, ad aumentare il pericolo di diffusione delle sostanze droganti.
E la logica conseguenza di siffatto orientamento non può essere altro che l’attività di coltivazione venga a costituire reato a prescindere dall’uso che il coltivatore intende fare della sostanza ricavabile.
Altra giurisprudenza, di cui si è ampiamente dato conto nella precedente sezione, ha ritenuto che, ove la sostanza ricavabile dalla coltivazione sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato, venga ad escludersi l’offensività in concreto della condotta di chi coltiva e, dunque, non ne sia penalmente perseguibile l’autore. Ne consegue che, valorizzando i fondamentali insegnamenti della Corte delle leggi(19), si escluderebbe la realizzazione del delitto in presenza di un dato quantitativo estremamente ridotto.
Secondo questa tesi, sebbene il legislatore abbia nelle sue previsioni presunto “…una oggettiva pericolosità in fatto di coltivazioni di stupefacenti…”(20), la coltura di un solo esemplare di pianta proibita verrebbe a privare dei crismi della tipicità la condotta concreta, non riconducibile pertanto alla fattispecie normativa. Interpretando estensivamente l’espressione “comunque detiene” di cui al testo del primo comma dell’art. 75 si ottiene, secondo i sostenitori di siffatta argomentazione, il risultato di comprendere tra le condotte delle quali rileva la tenuità anche l’attività di coltivazione di qualche piantina di marijuana.
Nel ritenere lecita o meno la coltivazione di sostanze stupefacenti risulterebbero, quindi, determinanti quei criteri individuati dalla Suprema Corte per distinguere la coltivazione industriale-agricola da quella meramente domestica, destinata la prima alla chiara finalità della cessione a terzi, funzionale, la seconda, a soddisfare bisogni di natura prettamente individuale, e precisamente: la tipologia delle tecniche di coltura, la disponibilità di locali per la raccolta del prodotto, l’impiego di capitali di un certo rilievo, i precedenti penali del “coltivatore”(21).
Esistono a riguardo in giurisprudenza tutta una serie di pronunce che giustificano l’irrilevanza penale della condotta ricorrendo proprio al principio di offensività(22) e che, proprio prendendo le mosse da tale principio, hanno contribuito alla elaborazione della distinzione concettuale tra una coltivazione c.d. tecnico-agraria, che si caratterizzerebbe per un elevato coefficiente organizzativo desumibile dal tipo di coltivazione posta in essere (se in terreno o in vaso), dal tipo di semina e di governo della coltivazione, dalla disponibilità di attrezzi, strutture e sostanze da cui desumere un approccio chiaramente imprenditoriale nella coltivazione, ed una coltura cd. domestica, effettuata in via approssimativa e rudimentale e i cui frutti sarebbero funzionali ad un utilizzo meramente personale, non suscettibile di sanzione penale.
E tale orientamento giurisprudenziale, nelle sue più estreme conclusioni, ha portato più di un giudice a ritenere l’ipotesi della “lieve entità”, di cui all’73, comma 5, del D.P.R. n. 309/1990, quale vera e propria autonoma fattispecie di reato. Si tratta, a parere di chi scrive, di un soluzione interpretativa del tutto arbitraria che non tiene conto della evidente volontà del legislatore di introdurre, attraverso la norma precitata, una risposta sanzionatoria più attenuata da parte dell’ordinamento, allorché i fatti delittuosi previsti dallo stesso articolo siano di lieve entità per i mezzi, modalità o circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze.
Invero, la ratio dell’attenuante è da ravvisare nell’esigenza di accordare una particolare attenzione alla dimensione offensiva del fatto concreto “…il quale per le sue caratteristiche relative ai beni, alle modalità o alle circostanze dell’azione ovvero alla qualità e quantità delle sostanze droganti- si riveli come minimamente-pericoloso rispetto al risultato della diffusione degli stupefacenti tra i possibili assuntori…”(23).
Come si vede, evidente era il contrasto giurisprudenziale in materia, e, quindi, non senza motivo, si auspicava l’intervento di una pronuncia chiarificatrice delle S.S.U.U., pronuncia che è prontamente giunta.

5. Per una breve riflessione finale

Le S.S.U.U. hanno stabilito, con la sentenza in commento, che è reato coltivare anche solo una pianta di cannabis. Con questa decisione la Suprema Corte ha risolto quel conflitto giurisprudenziale, di cui si diceva nella sezione precedente, che aveva visto più volte le sezioni della Corte medesima divise nel considerare o meno reato la coltivazione domestica di poche piante di cannabis. Bocciata, dunque, la richiesta dello stesso sostituito procuratore generale della Cassazione secondo cui la coltivazione di poche piante deve essere considerata lecita.
L’intervento della Suprema Corte, secondo molti, ha il merito di aver finalmente rovesciato il permissivismo di quasi cinque lustri ponendosi come monito contro l’individualismo sfrenato che pretende persino il diritto di drogarsi(24).
La sentenza della Cassazione sarebbe, dunque, un atto giuridicamente dovuto che pone un freno alla tendenza, mostrata da parte della dottrina e della giurisprudenza, ad elaborare una interpretazione estensiva del sistema normativo atta a consentire a chiunque, nella peggiore delle ipotesi, di coltivarsi in terrazzo droghe per il proprio consumo o da dividere con gli amici; anfetamine ed ecstasy fatte in casa hanno già ampiamente invaso il mercato.
“…Basta fare un giro su internet, per vedere come tutto ciò sia a disposizione di chiunque. Parliamo di droga dieci, venti volte più forte di quella degli anni ’70. Ma se non si vuole viaggiare sul web, basta entrare in uno dei tanti smart shop aperti nelle nostre città. è un grande mercato grigio, in bilico tra legalità e illegalità, che sfrutta ansie e disagio di giovani e adolescenti per alzare il fatturato…”(25).
Repressione dello spaccio, prevenzione e recupero del tossicodipendente, a parere di chi scrive, dovrebbero essere per tutti gli obiettivi da raggiungere, con una forte alleanza in tal senso tra pubblico e privato sociale.
Un’ultima puntualizzazione è doverosa. Infatti, sebbene il Massimo Organo della Nomofilachia abbia optato per l’orientamento in materia più rigido, non va dimenticato che lo stesso puntualizza la necessità di ricorrere, come detto, ove risulti opportuno, al principio di offensività.
A parere delle S.S.U.U., infatti, in ossequio a detto principio, inteso nella sua accezione concreta(26), spetterà al giudice verificare se la condotta, di volta in volta contestata all’agente ed accertata, sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto risultando in concreto inoffensiva, “…e la condotta è inoffensiva soltanto se il bene tutelato non è stato leso o messo in pericolo anche in grado minimo…” (cosa che non accadeva nel caso in esame - n.d.a.).



Approfondimenti
(1) - Recante il “Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza” che all’art. 73 - Produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope - (Legge 26 giugno 1990, n. 162, art. 14, comma 1) prevede che:
1. Chiunque, senza l’autorizzazione di cui all’articolo 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella I prevista dall’articolo 14, è punito con la reclusione da sei a venti anni e con la multa da euro 26.000 a euro 260.000.
1-bis. Con le medesime pene di cui al comma 1 è punito chiunque, senza l’autorizzazione di cui all’articolo 17, importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque illecitamente detiene:
a) sostanze stupefacenti o psicotrope che per quantità, in particolare se superiore ai limiti massimi indicati con decreto del Ministro della salute emanato di concerto con il Ministro della giustizia sentita la Presidenza del Consiglio dei Ministri-Dipartimento nazionale per le politiche antidroga-, ovvero per modalità di presentazione, avuto riguardo al peso lordo complessivo o al confezionamento frazionato, ovvero per altre circostanze dell’azione, appaiono destinate ad un uso non esclusivamente personale;
b) medicinali contenenti sostanze stupefacenti o psicotrope elencate nella tabella II, sezione A, che eccedono il quantitativo prescritto. In questa ultima ipotesi, le pene suddette sono diminuite da un terzo alla metà.
2. Chiunque, essendo munito dell’autorizzazione di cui all’articolo 17, illecitamente cede, mette o procura che altri metta in commercio le sostanze o le preparazioni indicate nelle tabelle I e II di cui all’articolo 14, è punito con la reclusione da sei a ventidue anni e con la multa da euro 26.000 a euro 300.000.
2-bis. Le pene di cui al comma 2 si applicano anche nel caso di illecita produzione o commercializzazione delle sostanze chimiche di base e dei precursori di cui alle categorie 1, 2 e 3 dell’allegato I al presente testo unico, utilizzabili nella produzione clandestina delle sostanze stupefacenti o psicotrope previste nelle tabelle di cui all’articolo 14.
3. Le stesse pene si applicano a chiunque coltiva, produce o fabbrica sostanze stupefacenti o psicotrope diverse da quelle stabilite nel decreto di autorizzazione.
4. Quando le condotte di cui al comma 1 riguardano i medicinali ricompresi nella tabella II, sezioni A, B e C, di cui all’articolo 14 e non ricorrono le condizioni di cui all’articolo 17, si applicano le pene ivi stabilite, diminuite da un terzo alla metà.
5. Quando, per i mezzi, per la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, i fatti previsti dal presente articolo sono di lieve entità, si applicano le pene della reclusione da uno a sei a anni e della multa da euro 3.000 a euro 26.000.
5-bis. Nell’ipotesi di cui al comma 5, limitatamente ai reati di cui al presente articolo commessi da persona tossicodipendente o da assuntore di sostanze stupefacenti o psicotrope, il giudice, con la sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale, su richiesta dell’imputato e sentito il pubblico ministero, qualora non debba concedersi il beneficio della sospensione condizionale della pena, può applicare, anziché le pene detentive e pecuniarie, quella del lavoro di pubblica utilità di cui all’articolo 54 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, secondo le modalità ivi previste. Con la sentenza il giudice incarica l’Ufficio locale di esecuzione penale esterna di verificare l’effettivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità. L’Ufficio riferisce periodicamente al giudice. In deroga a quanto disposto dall’articolo 54 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, il lavoro di pubblica utilità ha una durata corrispondente a quella della sanzione detentiva irrogata. Esso può essere disposto anche nelle strutture private autorizzate ai sensi dell’articolo 116, previo consenso delle stesse. In caso di violazione degli obblighi connessi allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, in deroga a quanto previsto dall’articolo 54 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, su richiesta del Pubblico ministero o d’ufficio, il giudice che procede, o quello dell’esecuzione, con le formalità di cui all’articolo 666 del codice di procedura penale, tenuto conto dell’entità dei motivi e delle circostanze della violazione, dispone la revoca della pena con conseguente ripristino di quella sostituita. Avverso tale provvedimento di revoca e’ ammesso ricorso per Cassazione, che non ha effetto sospensivo. Il lavoro di pubblica utilità può sostituire la pena per non più di due volte.
6. Se il fatto è commesso da tre o più persone in concorso tra loro, la pena è aumentata.
7. Le pene previste dai commi da 1 a 6 sono diminuite dalla metà a due terzi per chi si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, anche aiutando concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella sottrazione di risorse rilevanti.
(2) - D.P.R. n. 309/90 cit. all’art. 17 - Obbligo di autorizzazione (Legge 22 dicembre 1975, n. 685, art. 15 - legge 26 giugno 1990, n. 162, art. 8, comma 1) prevede che:
1. Chiunque intenda coltivare, produrre, fabbricare impiegare, importare, esportare, ricevere per transito, commerciare a qualsiasi titolo o comunque detenere per il commercio sostanze stupefacenti o psicotrope, comprese nelle tabelle di cui all’articolo 14 deve munirsi dell’autorizzazione del Ministero della sanità.
2. Dall’obbligo dell’autorizzazione sono escluse le farmacie, per quanto riguarda l’acquisto di sostanze stupefacenti o psicotrope e per l’acquisto, la vendita o la cessione di dette sostanze in dose e forma di medicamenti.
3. L’importazione, il transito e l’esportazione di sostanze stupefacenti o psicotrope da parte di chi è munito dell’autorizzazione di cui al comma 1, sono subordinati alla concessione di un permesso rilasciato dal Ministro della sanità in conformità delle convenzioni internazionali e delle disposizioni di cui al titolo V del presente testo unico.
4. Nella domanda di autorizzazione, gli enti e le imprese interessati devono indicare la carica o l’ufficio i cui titolari sono responsabili della tenuta dei registri e dell’osservanza degli altri obblighi imposti dalle disposizioni dei titoli VI e VII del presente testo unico.
5. Il Ministro della sanità, nel concedere l’autorizzazione, determina, caso per caso, le condizioni e le garanzie alle quali essa è subordinata, sentito il Comando generale della Guardia di Finanza nonché, quando trattasi di coltivazione, il Ministero dell’agricoltura e delle foreste.
6. Il decreto di autorizzazione ha durata biennale ed è soggetto alla tassa di concessione governativa.
7. [L’autorizzazione prevista nel comma 1 è altresì necessaria per il compimento delle attività di cui al comma 2 dell’articolo 70. Si applicano le disposizioni contenute nei commi da 2 a 6] - Comma abrogato dall’art. 1, D.Lgs. 12 aprile 1996, n. 258.
(3) - D.P.R. n. 309/1990, cit., art. 75 - (Legge 26 giugno 1990, n. 162, art. 15, commi 1, 2 e 3) - Sanzioni amministrative - che prevede, tra le altre norme, che “…chiunque, per farne uso personale, illecitamente importa, acquista o comunque detiene sostanze stupefacenti o psicotrope [in dose non superiore a quella media giornaliera, determinata in base ai criteri indicati al comma 1 dell’articolo 78], è sottoposto alla sanzione amministrativa della sospensione della patente di guida, della licenza di porto d’armi, del passaporto e di ogni altro documento equipollente o, se trattasi di straniero, del permesso di soggiorno per motivi di turismo, ovvero del divieto di conseguire tali documenti, per un periodo da due a quattro mesi, se si tratta di sostanze stupefacenti o psicotrope comprese nelle tabelle I e III previste dall’articolo 14, e per un periodo da uno a tre mesi, se si tratta di sostanze stupefacenti o psicotrope comprese nelle tabelle II e IV previste dallo stesso articolo 14. Competente ad applicare la sanzione amministrativa è il prefetto del luogo ove è stato commesso il fatto…”.
(4) - Corte Cost., Sent. n. 360/1995.
(5) - Legge 21 febbraio 2006, n. 49, recante “Conversione in legge, con modificazioni del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272, recante misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi”, pubb. in G.U. n. 48 del 27 febbraio 2006 - Supplemento Ordinario n. 45.
(6) - Manifestando la volontà di adeguarsi all’indirizzo prevalente - n.d.a.
(7) - Che ha dato attuazione al risultato positivo della consultazione referendaria del 1993 - n.d.a. Il risultato del referendum ha eliminato la nozione di dose media giornaliera e, quindi, l’utilizzabilità della medesima, almeno in via immediata e diretta, ai fini dell’applicazione della normativa sugli stupefacenti. È da ritenere, peraltro, che il dato quantitativo rimanga un criterio di valutazione essenziale ai fini del giudizio relativo alla concedibilità dell’attenuante del fatto lieve, e che, a tal fine, si debba fare riferimento al parametro rappresentato dal numero delle dosi ricavabili dalla sostanza oggetto della condotta incriminata, che rappresenta l’unico referente concretamente utilizzabile.
(8) - Tra questi in particolare la salute pubblica.
(9) - G. Orfino, Reati comuni - Questioni processuali, Milano, pag. 409 e ss.; la cui offensività deve essere valutata in concreto.
(10) - Che, sotto altro profilo (evidentemente diverso da quello già trattato ed attinente la mancanza di offensività in concreto della condotta dell’agente), incide anch’essa sulla linea di confine del penalmente lecito.
(11) - Preparazione del terreno, semina, governo dello sviluppo delle piante, ubicazione dei locali destinati alla custodia del prodotto, etc.
(12) - C. Cass. penale, Sez. VI, Sent. n. 2342 del 12 luglio 1994, Gabriele.
(13) - Tribunale di Roma, sez. VII, sentenza 13-27 febbraio 2001, De Luca.
(14) - C. Cass. penale, Sez. VI, n. 1480 del 28 settembre 2004.
(15) - L’art. 26 del D.P.R. n. 309/1990 (sotto il capo “Della coltivazione e produzioni vietate”) pone il divieto generale ed assoluto di coltivare le piante comprese nella tabella I di cui all’art. 14 (fra le quali è annoverata anche la cannahis indica), salvo il potere del Ministro della salute di autorizzare “…istituti universitari e laboratori pubblici aventi fini istituzionali e di ricerca alla coltivazione delle piante … per scopi scientifici, sperimentali e didattici…”.
(16) - R. Garofoli, Manuale di diritto penale. Parte speciale II, Milano, 2006, pag. 605 e ss.
(17) - Ergo, trattandosi di reato di pericolo, la coltivazione di canapa indiana va sanzionata indipendentemente dall’ampiezza del numero di piante contenenti sostanze tossiche - n.d.a. Vedi a tal proposito C. Cass., Sez. IV, 23 marzo 2006, n. 10138, Colantoni; C. Cass., Sez. IV, 29 settembre 2004, n. 46529, Aspri; C. Cass., Sez. IV, 6 febbraio 2004, n. 4836, Felsini; C. Cass., Sez. VI, 9 giugno 2004, n. 31472, De Rimini; C. Cass., Sez. IV, con le sentenze 7 dicembre 2006, n. 40295, Quaquero ed altro; C. Cass., Sez. VI, con le sentenze 23 marzo 2007, n. 12328, P.G. in proc. Fiorillo, 24 maggio 2007, n. 20426, Casciano e 28 settembre 2007, n. 35796, Franchellucci.
(18) - Addirittura anche il grado di maturazione raggiunto dalla pianta non sarebbe determinante, dovendo intendersi per coltivazione proibita quell’attività che, partendo dalla semina, giunge sino alla raccolta.
(19) - V. Corte Cost., sentenza 24 luglio 1995, n. 360, cit.
(20) - F. Caringella, Lezioni e sentenze di diritto penale 2007, ildirittopericoncorsi, 2007, pag. 133 e ss.
(21) - Sempre nello stesso senso si era pronunciata la Corte con la sentenza n. 17983/2007. Si era rimarcato, in quella occasione, il confine esistente tra il trattamento penale della detenzione e il trattamento penale della coltivazione di sostanze psicotrope, concludendo con la dichiarazione che la normativa vigente non ha fatto chiarezza e non ci si può fermare al dettato del “pericolo” per la salute altrui e per la propria definito in maniera astratta.
(22) - V. C. Cass., Sez. IV, sentenza 13.4.2001, n. 15688, Vicini; C. Cass., Sez. IV, sentenza 7.11.2002, n. 37253, Cantini; C. Cass., Sez. IV, sentenza 30.5.2003, n. 23842, Morrone; C. Cass., Sez. IV, sentenza 8.3.2006, n. 8142, P.G. in proc. Fanfani; nonché C. Cass., Sez. VI, sentenza 6.6.2005, n. 20938, Bortoletto; C. Cass. sez. VI, sentenza 3.8.2007, n. 31968, P.M. in proc. Satta; C. Cass., Sez. VI, sentenza 31.10.2007, n. 40362, P.G. in proc. Mantovani; C. Cass., Sez. VI, sentenza 6.01.2007, n. 40712, Nicolotti ed altro; C. Cass., Sez. VI, sentenza 19.11.2007, n. 42650, P.G. in proc. Piersanti.
(23) - Cass., Sez. VI, sentenza 5 dicembre 1996, Ranise.
(24) - Se, come dice la Cassazione, rimane illecito penale coltivare qualche pianta di cannabis per uso personale sul balcone o nel giardino di casa, altrettanto illecito dovrebbe essere il consumo, secondo la tesi di chi promuove il più rigido proibizionismo in materia.
(25) - G. Di Gennaro, La questione droga. Diffusione del consumo e strategie del contrasto, Giuffrè, 1999.
(26) - F. Caringella - R. Garofoli, Giurisprudenza penale 2006, Milano, 2006, pag. 49 e ss.