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Giustizia Militare

a cura del Dott. Giuseppe Scandurra Magistrato Militare

Diserzione.

(C.p.m.p., art. 148;
C.p.p., art. 444)

Corte di cassazione, Sez. I, 29 maggio 2007, n. 799. Pres. Fazzioli, Est. Granero, P.G. Gentile, concl. conf.; Dif. ric. da sent. GUP Trib. mil. Padova (annulla senza rinvio).

Il reato militare di diserzione (art. 148 n. 1, C.p.m.p.) non si configura nei casi in cui l’assenza dal servizio militare trovi titolo in un’autorizzazione dell’autorità militare, pur se carpita con dolo. (Fattispecie in cui l’imputato aveva ottenuto la licenza di convalescenza e poi il congedo assoluto attraverso l’espediente della simulazione di infermità) (1).

(1) Principio affermato in sentenza Corte di cassazione, Sez. I, n. 29105 del 14 luglio 2006, C.c. (dep. 10 agosto 2006), Rv. 235272 e ribadito esplicitamente nella sentenza ora massimata.


Giudizio abbreviato - Prova penale.

(C.p.p., artt. 606 e 616)

Corte di cassazione, sez. I, 10 febbraio 2006, n. 169. Pres. Fazzioli, Est. Santacroce, P.G. Gentile, concl. conf.; Dif. ric. da sent. C.M.A. Sez. Dist. di Napoli (rigetta).

Il giudice di appello può, nel giudizio svoltosi con il rito abbreviato, disporre di ufficio le prove assolutamente necessarie per l’accertamento dei fatti che formano oggetto della decisione (1).
Fermo restando, infatti, il carattere eccezionale della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, è pacifico che non è sindacabile il provvedimento del giudice di appello che, riconoscendo l’incompletezza di taluni accertamenti o la mancata assunzione di alcuni testi, motivi in maniera logica ed accettabile sulla indispensabilità di nuovi accertamenti ai fini della decisione.

(1) Sul punto, la sentenza cita come precedenti conformi Corte di cassazione , Sez. I, 27 ottobre 1998, n. 13237; Id., Sez. III, 6 maggio 1998, n. 7143.


Peculato - Furto militare.

(C.p., art. 314;
C.p.m.p., art. 230)

Corte di cassazione, Sez. I, 23 maggio 2006, n. 1850. Pres. Fazzioli, Est. Bardovagni, P.G. Garino, concl. conf.; P.G. mil. ric. da sent. GUP T.M. di Verona (dich. inamm.).

L’uso indebito del telefono altrui integra un fatto lesivo che ha ad oggetto non l’apparecchio telefonico nella sua materialità, ma le energie occorrenti per le conversazioni, che fanno parte - almeno potenzialmente - della sfera patrimoniale del titolare dell’utenza; pertanto, se titolare è una pubblica amministrazione e l’agente ha - per conto di questa e in funzione delle attività istituzionali - la disponibilità dell’apparecchio, l’uso a fini personali integra il reato di peculato comune (1).
Se, invece, l’autore del fatto non ha la disponibilità dell’apparecchio e utilizza le energie cui questo dà accesso, eludendo la vigilanza degli addetti, è correttamente configurato il reato di furto (2).

(1) Come precedente conforme, v. anche Corte di cassazione, Sez. VI, 23 ottobre 2000, P.M. in proc. D.; Id. 6 febbraio 2001, P.M. in proc. M.
(2) Nel caso di specie, secondo l’imputazione, il militare autore del fatto non faceva parte del personale dell’Ente militare intestatario dell’utenza telefonica, ma effettuò occasionalmente dei turni di servizio nel locale ove era collocato il centralino telefonico, adiacente alla sede del reparto di appartenenza: non risultando pertanto, addetto al telefono e non avendone la disponibilità, la Corte di Cassazione ha giudicato corretta la qualificazione del fatto come furto.
In altra decisione conforme (Corte di cassazione, Sez. VII, 21 marzo 2006, ric. A.) la Corte ha ancora ritenuto corretta la qualificazione come furto per il caso in cui un militare, appartenente ad un reparto di stanza in Trento, ha effettuato telefonate personali in occasione di servizi prestati in un reparto situato in Serie (Brescia) presso cui non era stabilmente addetto e non aveva la disponibilità dell’apparecchio telefonico ivi collocato.


Prova penale - Testimonianza.

(C.p.p., art. 197 bis, comma 1)

Corte di cassazione, Sez. I, 23 maggio 2006, n. 690. Pres. Fazzioli, Est. Corradini, P.G. Garino, parz. conf.; imp. ric. da sent. C.M.A. di Roma (rigetta).

Le dichiarazioni rese da persone imputate o già imputate in un procedimento connesso, che sono sentite come testimoni, a norma dell’art. 197 bis, comma 1, c.p.p., sono annoverate fra le prove e non tra i semplici indizi, anche se il giudizio di attendibilità delle stesse necessita di riscontri esterni; deve, cioè, essere confortato da altri elementi o dati probatori, che non sono peraltro predeterminati nella specie e nella qualità e che di conseguenza possono essere, in via generale, di qualsiasi tipo o natura (1).

(1) Come precedente conforme v. Corte di cassazione, Sez. Un., 3 febbraio 1990, n. 2477, ric. B.


Ricorso per Cassazione.

(C.p.m.p., art. 260;
C.p.p., art. 606 lett. b) e d))

Corte di cassazione, Sez. I, 7 marzo 2007, n. 347. Pres. Fazzioli, Est. Culot, P.G. Garino, parz. conf.; imp. ric. da sent. C.M.A. di Roma (dich. inammiss.).

L’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte assai circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato - per espressa volontà del legislatore - a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali.
Esula, pertanto, dai poteri della Corte di cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali.


Verifica della motivazione a sentenza.

(C.p.p. ex art. 606, comma 1, lettera e))

Corte di cassazione, Sez. I, 23 maggio 2006, n. 703. Pres. Fazzioli, Est. Silvestri, P.G. Garino, concl. conf.; imp. ric. da sent. C.M.A. di Roma (rigetta).

Nella verifica della fondatezza o meno del motivo di ricorso ex art. 606. comma 1, lett. e) c.p.p., il compito della Corte Suprema non consiste nell’accertare la plausibilità e l’intrinseca adeguatezza dei risultati dell’interpretazione delle prove, coessenziale al giudizio di merito, ma quello ben diverso di stabilire se i giudici di merito abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano dato esauriente risposta alle deduzioni delle parti e se nell’interpretazione delle prove abbiano esattamente applicato le regole della logica, le massime di comune esperienza e i criteri legali dettati in tema di valutazione delle prove, in modo da fornire la giustificazione razionale della scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (1).
Ne consegue che, ai fini della denuncia del vizio ex art. 606, comma 1, lett. e) c.p.p., è indispensabile dimostrare che il testo del provvedimento è manifestamente carente di motivazione e/o di logica e che non è, invece, producente opporre alla valutazione dei fatti contenuta nel provvedimento impugnato una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica, dato che in quest’ultima ipotesi verrebbe inevitabilmente invasa l’area degli apprezzamenti riservati al giudice di merito.

(1) In tal senso, v. anche Corte di cassazione, Sez, Un., 13 febbraio 1995, ric. C.


Violazione di consegna da parte di militare di guardia o di servizio - Consegna - Nozione.

(art. 120 C.p.m.p.).

Corte di cassazione, Sez. I, 11 luglio 2007, n. 1043. Pres. Mocali, Est. Bardovagni, P.G. Garino, concl. diff.; imp. ric. da sent. C.M.A. di Roma (rigetta).

La nozione di consegna comprende tutto quel complesso di prescrizioni tassative, generali o particolari, permanenti o temporanee, scritte o verbali, impartite per l’adempimento di un determinato servizio al fine di regolarne le modalità di esecuzione, dalle quali non è consentito discostarsi (1).
Pertanto, è del tutto legittima, nell’ambito della contestazione dell’unico reato di cui all’art. 120 C.p.m.p., la menzione della violazione di più prescrizioni diverse, per fonte ed oggetto, comprese nella medesima ed onnicomprensiva “consegna avuta” in relazione allo stesso servizio.
(1) Sulla nozione di consegna, anche la Corte Costituzionale (sent. n. 263 dell’11 luglio 2000) ha precisato che “il termine «consegna», nell’ambito dell’ordinamento militare, è sempre stato inteso in un’accezione fortemente tecnica che lo rende oltremodo preciso e per nulla indeterminato. Ne consegue che il delitto di violata consegna, previsto dall’art. 120 c.p.m.p. e diretto a salvaguardare l’efficienza di servizi determinati (che il legislatore ha inteso garantire rendendone rigide e tassative le modalità di esecuzione da parte del militare comandato) risponde al requisito dell’offensività in astratto (da intendere come limite di rango costituzionale alla discrezionalità del legislatore in materia di previsione delle fattispecie penalmente rilevanti) in quanto è di per sé suscettibile di ledere interessi di rilievo costituzionale riconducibili ai valori espressi dall’art. 52 della Costituzione”.
“L’accertamento in concreto della sussistenza dei presupposti che identificano la consegna – continua ancora la cit. sent. della Corte Costituzionale - è invece compito dell’autorità giudiziaria militare, alla quale spetta altresì valutare se tutte le prescrizioni impartite siano, nei singoli casi, finalizzate al corretto svolgimento del servizio comandato, se, cioè, l’eventuale inadempimento del militare ad alcuna di esse sia idoneo a pregiudicare l’integrità del bene protetto ed abbia quindi carattere di offensività anche in concreto.
L’art. 25 Cost., quale risulta dalla lettura sistematica a cui fanno da sfondo (oltre ai parametri indicati negli artt. 2, 3, 13 e 27 Cost.) l’insieme dei valori connessi alla dignità umana, postula, infatti, un ininterrotto operare del principio di offensività dal momento della astratta predisposizione normativa a quello della applicazione concreta da parte del giudice, con conseguente distribuzione dei poteri conformativi tra giudice delle leggi e autorità giudiziaria, alla quale soltanto compete di impedire, con un prudente apprezzamento della lesività in concreto, una arbitraria ed illegittima dilatazione della sfera dei fatti da ricondurre al modello legale”.
Sul principio di offensività, v. interessanti e significative note di dottrina e giurisprudenza, in Roberto Giovagnoli, Studi di diritto penale, Parte generale, Giuffrè, Milano, 2008, pag. 1007.