Genesi e modernità dell’Interazionismo Simbolico George Herbert Mead, Herbert Blumer e la devianza



Francesco Giacca



Francesco Giacca

Sociologo ed Educatore del Dipartimento Giustizia Minorile, dell'Ufficio Servizio Sociale Minorenni di Napoli




1. Lo sfondo variegato del fenomeno deviante

Il concetto di devianza, che in molte teorie sociologiche appare pieno di connotazioni valutative, può essere utilizzato per indicare tutte quelle forme di agire che, in una data situazione storico-sociale, manifestano in forme indirette di tipo reattivo e sintomatico, sensi di disagio, disturbi più o meno gravi della comunicazione, tensioni latenti, proteste, attraverso comportamenti o atteggiamenti che si discostano dai modelli che, in base a leggi, costumi tradizionali, usi, vengono considerati dalla maggioranza dei membri di una società come “normali” (Parsons, 1951; Garfinkel, 1952; Goffman, 1963; Schur, 1969; Crespi,1985).
In questo caso, non si può attribuire il fenomeno della devianza unicamente a problemi di tipo soggettivo, ma sono molto spesso le stesse strutture sociali a favorirla o a indurla negli individui (Merton, 1949; Crespi, 1985, 465); considerata come “forma indiretta”, la devianza si differenzia dalle forme “dirette” della ribellione e della protesta volontarie.
Proprio per questo, le azioni non sono solo fatti nella vita degli individui, cioè cose che si fanno; sono anche fatti localizzati in un sistema sociale o in una struttura, nella famiglia, nel vicinato, nella città, in una organizzazione.
Possiamo definire questo livello di interpretazione come sociologico e, probabilmente, si commette una distrazione a contrapporre questo tipo di interpretazione a quella psicologica; infatti, non si tratta di risposte opposte agli stessi problemi, bensì di risposte differenti a problemi relativi agli stessi comportamenti (Cohen, 1966, pagg. 83-85).
Forse - ed anche efficace - per presentare la “devianza” è il caso di adoperare l’esposizione di Federico D’Agostino: “Una immagine che spesso uso nel presentare la devianza risale ad un ricordo infantile, quando osservavo le donne lavorare a maglia. A volte per vedere il tessuto della maglia si staccava un filo che consentiva di osservare il tipo di tessuto e l’intelaiatura della maglia stessa. Ora, se rappresentiamo la società come una scatola, riempita delle varie relazioni, staccando all’interno un filo, rompendolo, violandolo, c’è la possibilità di osservare la struttura sociale, l’intelaiatura delle relazioni. In questo senso la devianza diviene una “spia” che consente di osservare e capire l’interazione e la struttura sociale. Molte norme e regole sono riconosciute solo nel momento in cui esse sono trasgredite; esistono nella forma latente ed emergono nel momento della rottura, nella deviazione dai comportamenti normativi e dai modelli culturali dominanti” (D’Agostino, 1984, 18).
Dunque, la devianza presuppone l’esistenza di un universo normativo e costituisce quindi “una attività che delude un’attesa, che viola una norma sociale o che nega un valore” (Berti, 1993, 330; Boudon, 1996) e che produce reazioni e interventi di controllo.
La letteratura sulla devianza rivela - e su questo tuttavia gli studiosi sembrano concordi - un proposizione comune; in una società in cui esistono molteplici possibilità di interazione, il controllo sociale e la protezione vanno di pari passo e una trasgressione è più facilmente riconosciuta e sanzionata (Berti, 1993; Boudon, 1996, 379).
Così, Emler (1984) - citato da Chiara Berti (1993) - propone una suddivisione delle teorie che spiegano la devianza con il fallimento della socializzazione in tre filoni: al primo appartengono alcune teorie che riconducono tale fallimento alla problematicità insita in alcune condizioni adolescenziali (strain theories); al secondo quelle che pongono l’accento sui contenuti della socializzazione; al terzo, le teorie che si focalizzano sui processi di socializzazione.
In questa prospettiva, la questione della devianza si pone come problema sociale dato, del quale interessa ricostruire le cause nell’intreccio dei fattori sociali, culturali, psicologici e genetici; in effetti, in opposizione a queste teorie si sviluppa un orientamento che mette in discussione la definizione e il concetto stesso di devianza.
Partendo dalla premessa che le norme e la loro applicazione non costituiscono una realtà oggettiva e neutrale, prosegue Chiara Berti (1993), queste teorie non si pongono più l’obiettivo di capire perché si violino le norme ma di comprendere i meccanismi attraverso i quali la devianza viene definita, prodotta e utilizzata.
L’Interazionismo Simbolico sposta l’interesse dalle caratteristiche del soggetto che delinque e dalle condizioni sociali che porterebbero alla delinquenza, all’evoluzione della devianza e all’interazione tra processi di definizione, discriminazione e comportamento non conforme.
L’interazionismo, spostando l’accento dalla devianza primaria a quella secondaria - la quale è ritenuta essere in gran parte determinata dalle reazioni sociali - ha il merito di avere messo in luce l’azione di rinforzo e di amplificazione della devianza e della delinquenza da parte delle istituzioni preposte alla prevenzione, al trattamento e al controllo, opponendosi alla tradizionale convinzione che considerava tali istituzioni capaci di arginare il fenomeno.
Quindi, tale approccio rifiuta una concezione della realtà che separa in modo netto i fenomeni devianti da quelli normali, i delinquenti dai non delinquenti; la delinquenza è considerata un comportamento ampiamente diffuso, non soltanto tra gli individui che la società identifica come tali e punisce (Berti, 1993, 338; Matza, 1969, pagg. 26-31); questo perché in una società pluralistica il comportamento deviante di un uomo può essere il comportamento abituale di un altro: “(…) Esiste una certa relatività nei concetti di conformità e deviazione (…), pertanto non è possibile esprimere un giudizio sulla deviazione (…) senza riferirsi in modo specifico al sistema (…) sul quale esso verte. La struttura dei modelli normativi, anche nel sotto-sistema più semplice, è assai intricata e di solito lontana da una integrazione completa; perciò scegliere un modello che non tenga conto delle sue reciproche connessioni in un sistema di modelli può essere fuorviante” (Parsons, 1951, 260).


2. Mead, lo sviluppo del sé e il significato simbolico

L’approccio teorico che intendiamo prendere a grandi linee in considerazione - l’Interazionismo Simbolico - presenta, per Franco Crespi (1985), elementi che l’avvicinano al funzionalismo o allo strutturalismo ed il suo apporto più specifico è senza dubbio quello riguardante i processi di costituzione della soggettività e dei significati simbolici; pertanto, esso può essere considerato in linea di continuità con la teoria weberiana dell’agire sociale, costituendo in un certo modo un momento di transizione tra tale teoria e i successivi sviluppi della sociologia fenomenologia.
In secondo luogo tale tipo di interpretazione, insieme ai suoi seguaci della nuova Scuola di Chicago, ha avuto una fondamentale importanza - insieme ad altri filoni teorici - nell’elaborazione delle linee strutturali e normative del nuovo processo minorile in Italia e, successivamente, nei segmenti di programmazione e di trattamento dei Servizi della Giustizia Minorile.
Il termine Interazionismo Simbolico nasce con Herbert Blumer, che lo descrive come “un neologismo un po’ barbaro che ho coniato in modo improvvisato in un articolo scritto su Man and Society. Il termine ha, in qualche modo, fatto presa e ora è entrato nell’uso comune” (Blumer, 1968, 1; Wallace, Wolf, 1994).
Gli individui sono visti come gli artefici della propria condotta, come coloro che valutano, interpretano, definiscono e progettano le loro azioni; più che passivi colpiti da forze esterne l’interazionismo simbolico sottolinea anche i processi attraverso i quali gli individui prendono le decisioni e formano le proprie opinioni (Wallace, Wolf, 1994; Giddens, 1979, 50).
Secondo questo modo di pensare, la forma che assume l’interazione emerge dalla particolare situazione contingente, e questo in contrasto con quello che Blumer chiama l’approccio “a camicia di forza” del funzionalismo, il cui accento sulle norme implica che la maggior parte delle interazioni siano prefissate.
Tra i precursori dell’interazionismo simbolico possiamo annoverare George Simmel, Robert Park, William Isaac Thomas, Charles Horton Cooley, John Dewey e George Herbert Mead; in particolare però quest’ultimo, con Herbert Blumer, ne ha sistematizzato il lavoro scientifico e la teoria (Blumer, 1968).
Benché Blumer sia considerato, il leader intellettuale di tale approccio, tuttavia egli deve molto al suo maestro George Herbert Mead (1863-1931), che ne ha sostanzialmente influenzato il pensiero generale; contributo che fu per quest’ultimo ricostruito - nonostante egli fosse uno psicologo sociale - essenzialmente da sociologi (D’Agostino,1984, 49).
D’altra parte Mead e Blumer, con le loro osservazioni, rappresentano sostanzialmente il retroterra culturale, filosofico e metodologico dei principali interpreti della Nuova Scuola di Chicago.
Mead, aderisce ad uno dei filoni della psicologia sociale che ha dato forse il maggior contributo allo studio della devianza minorile, soprattutto per le implicazioni criminologiche che ne sono derivate, centrate sulle problematiche del Self, dell’identità; l’interesse di Mead - secondo la ricostruzione teorica di Gaetano De Leo (1999,76) - è centrato sulla condotta di un individuo inserito in un sistema di relazioni e di rapporti all’interno dei quali si confronta continuamente con la sua esperienza interiore e con i problemi connessi alla sua appartenenza a un gruppo sociale.
Attraverso questo processo di interazione sociale, l’individuo cresce e si sviluppa acquistando così la capacità di interpretare i gesti che mette in atto e di anticipare, quindi, le conseguenze delle proprie azioni.
Gli elementi del pensiero di Mead sono essenzialmente quattro: il sé, l’auto-interazione, lo sviluppo del sé, il significato simbolico (Wallace, Wolf, 1994; Mead, 1943).
Il primo elemento, il sé, è così presentato da Blumer (1975, 68): “per Mead, il sé è molto più di una interiorizzazione dei componenti la struttura sociale e culturale. è più precisamente un processo sociale, un processo di auto-interazione in cui l’attore umano segnala a se stesso le questioni che si trova di fronte nelle situazioni in cui agisce, e organizza la sua azione secondo l’interpretazione che dà a tali questioni. L’attore si impegna in questa interazione sociale con se stesso assumendo, secondo Mead, il ruolo dell’altro, fornendo indicazioni a se stesso grazie a questo ruolo e rispondendo a tali approcci”; in effetti, mentre un funzionalista come Parsons tende a considerare l’individuo come un agente passivo, spinto da forze sociali e psicologiche, Blumer sostiene che il processo di auto-indicazione, grazie al quale l’azione umana prende forma, non può essere spiegato da fattori che precedono l’agire stesso.
Nello specifico, Mead distingue due fasi del “sé”; la prima è quella dell’“io”, considerata come la risposta non organizzata dell’organismo agli atteggiamenti degli altri, mentre il “me” rappresenta un insieme di atteggiamenti organizzati di altri, che l’individuo assume a sua volta, ossia quelle prospettive del proprio essere che l’individuo impara dagli altri (Mead, 1943, pagg. 189-192; Wallace, Wolf, 1994); ed infine, “il sé è essenzialmente un processo sociale che si sviluppa in rapporto a queste due fasi distinte. Se non esistessero tali fasi, non vi potrebbe essere una forma di responsabilità cosciente e non vi sarebbe nulla di nuovo nell’esperienza” (Mead, 1943).
Per quanto riguarda il secondo elemento della teoria di George Herbert Mead - ovvero l’auto-interazione - affermeremo che il cosiddetto colloquio interiore che un individuo ha con se stesso, costituisce uno strumento tramite il quale gli esseri umani prendono in considerazione i fatti e si organizzano all’azione; peraltro, l’auto-interazione costituirebbe anche la base per l’assunzione del ruolo; Mead, spiega che la comunicazione è un processo per mezzo del quale ogni persona assume il ruolo dell’altro, cioè ogni persona “assume l’atteggiamento dell’altro come se lo estraesse da quest’ultimo e ciò sarebbe impossibile senza auto-interazione” (Mead, 1943, 258; Wallace, Wolf, 1994).
Il terzo elemento dell’approccio descritto si riferisce allo sviluppo del sé; Mead, definisce “prive di significato” le azioni nello stadio di “pre-rappresentazione”, poiché intorno ai due anni al bambino manca la capacità di assumere l’atteggiamento dell’altro.
Tale capacità, in realtà, si evolve progressivamente che il bambino sviluppa il proprio sé; nel secondo stadio, quello della “rappresentazione” - in una fase più avanzata dell’infanzia - il bambino può assumere la posizione di un altro, ma non riesce a mettere in relazione i ruoli dei diversi attori.
Allo stadio del “gioco” parecchi attori sono in azione insieme; questo avviene in giochi complessi, organizzati, in cui i membri della squadra devono anticipare le reazioni degli altri nel gioco e devono tenere a mente ogni atteggiamento e ruolo di tutti gli altri giocatori (Mead, 1943; Wallace, Wolf, 1994, pagg. 272-274); nel gioco, il concetto rilevante di “altro” è rappresentato dall’insieme degli atteggiamenti di quanti sono coinvolti.
Infine, andiamo ad esaminare cosa esprime il significato simbolico; il significato di simbolo deriva dalla definizione di Mead di gesto, che non è solo il primo elemento dell’atto, ma anche un segno che marca l’intero atto.
Egli definisce un simbolo come “lo stimolo la cui risposta è data già in precedenza”. Ad esempio, si consideri la situazione in cui una persona vi minaccia e voi la picchiate. Mead sostiene che così facendo state assumendo l’atteggiamento della comunità e state rispondendo utilizzando un tipo di colloquio gestuale (Wallace, Wolf, 1994, 275).
è stato quindi giustamente rilevato che Mead “vide l’essere umano come un organismo dotato di un sé. Egli vide il sé come un processo e non come una struttura.
(…) L’essere umano è di fronte al mondo e non nel mondo; definisce e non risponde (…) l’azione si costruisce affrontando il mondo invece di essere semplicemente trasmessa da una preesistente struttura psicologica da parte di fattori che agiscono su quella struttura” (Blumer, 1966, 536; D’Agostino, 1984, 64).


3. Herbert Blumer. L’interazione come interpretazione

è doveroso ricordare che Herbert Blumer ha portato avanti per venticinque anni - fino al 1952 - la tradizione di George Herbert Mead prima nell’Università di Chicago e, successivamente, in California a Berkeley; questo perché, in effetti, tutto il lavoro di Blumer si basa sull’interpretazione e su una elaborazione della tesi di Mead.
Blumer spiega che l’interazionismo simbolico inserisce un termine intermedio all’interno dello “stimolo-risposta”, che diventa così “stimolo-interpretazione-risposta”; egli, rifiutando il comportamentismo sostanzialmente perché tralascia l’interpretazione, considera il processo di auto-indicazione come elemento essenziale per l’interpretazione.
Ad esempio, attesta Blumer, gli individui possono notare che vengono loro avanzate determinate richieste sociali, rilevare il fatto di aver fame, rendersi conto di volere comprare qualcosa ed essere consapevoli di trovarsi a mangiare con persone che disprezzano; in questi esempi, dunque, Blumer descrive una persona che agisce, piuttosto che subire e conclude: “in virtù dell’indicare a se stesso questi fatti, egli si contrappone decisamente ad essi e può retroagire nei loro confronti rifiutandoli, accettandoli, o trasformandoli in conformità alla sua definizione e interpretazione”.
I gesti rappresentano un elemento chiave nel processo interpretativo; già Mead aveva parlato dei gesti come simboli e, come nel caso del fumatore che si allunga a prendere un pacchetto di sigarette, per interpretare e comprendere il significato di questa interazione simbolica, ognuna delle parti deve assumere il ruolo dell’altro o, meglio, “mettersi nei panni dell’altro”.
In altri termini, secondo Blumer, invece di limitarsi a reagire in modo automatico gli uni alle azioni degli altri, gli esseri umani le interpretano o le definiscono in base a simboli, ovvero in un processo di “interazione significante”: “Gli esseri umani non sono organismi che rispondono a forze che agiscono su di loro, essi non sono gli strumenti che permettono a tali forze di manifestarsi. Anche quando si parla di fattori psicologici come atteggiamenti, sentimenti, si nega che l’azione sociale sia prodotta dagli uomini: si intende infatti dire che tali fattori agiscono sull’individuo per produrre l’azione. Così, l’azione sociale della gente è trattata come un flusso esterno che agisce su di essa piuttosto che come atti costruiti attraverso l’interpretazione delle situazioni in cui ci si trova” (Manis-Meltzer, 1967, 143; D’Agostino, 1984,65).
Le tre premesse di base di Blumer (1968, 80) - integrate alla luce delle nuove impostazioni sociologiche da Ruth A. Wallace e Alison Wolf (1994, 280) - riguardano, dunque, l’importanza del significato nell’agire umano, l’origine del significato stesso e il suo ruolo nell’interpretazione; nella prima premessa, “gli esseri umani agiscono nei confronti delle cose in base ai significati che esse possiedono per loro”.
Sostenendo che la consapevolezza è un elemento chiave nella comprensione dell’agire significativo, Blumer (1968, 81) sostiene che “(…) In ogni atto di poco conto, dai minori, come il vestirsi, ai maggiori, come l’organizzarsi in visione di una carriera professionale, l’individuo propone a se stesso diversi oggetti, attribuisce loro un significato, ne giudica l’appropriatezza rispetto all’azione e prende decisioni in base a tale giudizio. Questo è ciò che si intende per interpretazione o per agire in base a simboli”.
Nella seconda premessa, invece, “il significato delle cose emerge dall’interazione sociale di un individuo col proprio compagno”; dal momento che il significato deriva dal processo di interazione tra individui, non lo si può considerare come qualcosa di dato.
Un esempio, riportato da Wolf e Wallace (1994, 281) e Turnbull (1962), potrebbe essere il significato di una mazza da baseball per un ragazzo americano e per un membro di una tribù pigmea dell’Africa, che non ha mai visto una partita di baseball.
Infine, andiamo ad enunciare la terza premessa del lavoro di Blumer: “i significati delle cose vengono manovrati e modificati attraverso un processo interpretativo utilizzato dalle persone nell’affrontare le cose in cui si imbattono”.
Herbert Blumer, in tal senso, afferma che una persona comunica e manovra i vari significati nel processo di “colloquio tra sé e sé”; ma per spiegare ancora meglio, prendiamo ancora una volta a prestito un esempio tratto da Wallace e Wolf (1994, 283); la scena è quella di una commessa di drogheria ed un cliente (studente) che cerca di contrattare un prezzo più basso. Nell’esaminare e spiegare quello che succede, gli interazionisti simbolici metterebbero a fuoco le indicazioni o le riflessioni della commessa “tra sé e sé” per arrivare a decidere come interagire con il cliente in questione; si suppone, ad esempio, che la commessa scarti l’idea di chiedere aiuto al padrone per trattare col cliente. Per capire perché abbia fatto questa scelta, si dovrebbe arrivare a comprendere il “mondo” della commessa.
Altre avrebbero optato per chiamare il padrone, ma questa commessa in particolare potrebbe aver avuto una discussione recente con il padre e quindi evitare di chiedergli aiuto; la decisione può anche dipendere dal fatto che essa si possa “permettere” di contrattare con il cliente, e anche questa considerazione deve entrare a far parte della spiegazione.
Il processo interpretativo, per Blumer, includerebbe - in pratica - l’idea che la commessa si è fatta riguardo alle altre persone che si sono trovate in questa stessa situazione, perciò per capire cosa succede dobbiamo conoscere la “storia” della specifica commessa coinvolta: “l’interazionismo simbolico, non è astorico, e la comprensione del processo di auto-interazione è cruciale all’interno di tale prospettiva” (Blumer, 1968).
Vogliamo, infine, ricordare che uno dei contributi principali di Herbert Blumer all’interazionismo simbolico è stata l’elaborazione, da parte sua, della metodologia di questa prospettiva.
Anche se in questa sede non ci occuperemo direttamente di questo aspetto, Blumer già nel 1937 affrontava le tecniche usate dai ricercatori nell’analizzare il “corso interno dell’azione”, utile quest’ultimo a svelare il grado di relazione, ad esempio con la devianza: “(…) Troviamo che si fa molto uso, in psicologia sociale, di strumenti quali le storie di vita, le interviste, le autobiografie, il metodo dei casi, i diari, le lettere. Questi strumenti vengono impiegati per tre propositi.
Primo, per ottenere un quadro dell’esperienza interiore e privata dell’individuo, che pare costituisca lo sfondo da cui emerge e prende vita una data forma di condotta. Dunque, si considera che un racconto fatto da un malvivente della storia della sua vita riveli la trama di avvenimenti personali da cui presumibilmente ha avuto origine ed è stato incoraggiato il suo comportamento delinquente.
Secondo, per mostrare la natura della prospettiva di vita soggettiva dell’individuo: la sua visione del mondo, il valore e il significato che i diversi oggetti hanno per lui, le definizioni che applica alle situazioni che affronta, l’insieme dei suoi atteggiamenti e la propria visione di se stesso. Terzo, per gettare luce sulla vita e l’operare dei processi immaginativi: il fantasticare, l’evasione, il progettare, il decidere e sui diversi modi in cui, nella propria immaginazione, egli affronta difficoltà, frustrazioni e situazioni problematiche” (Blumer, 1937, pagg. 193-194; Wallace, Wolf, 1994).

4. Una sintetica considerazione finale

L’interazionismo simbolico - sostiene Federico D’Agostino (1984, pagg. 48-49) - mette a fuoco il problema dell’interazione che avviene fra le menti e i vari significati che caratterizzano la società umana poiché l’interazione sociale si basa su due aspetti fondamentali: la qualità dell’uomo di percepire se stesso come oggetto e la sua capacità di entrare in empatia, assumere il ruolo dell’altro.
Mentre ad esempio gli struttural-funzionalisti, a proposito della devianza, studiano il fenomeno dall’esterno focalizzando la posizione degli individui o dei gruppi nella struttura sociale, gli interazionisti spostano l’attenzione sull’interazione fra il deviante e coloro che lo definiscono tale: “(…) nei comportamenti non ci riferiamo a norme astratte, ma a norme che sono inserite in ruoli che sono svolte da determinate persone. Il sistema sociale è dato dall’interdipendenza dei vari ruoli. I ruoli sono legati non solo a individui ma anche a gruppi sociali. Il ruolo ha codici interni di comportamento in relazione ai quali ci sono delle aspettative. La devianza si riferisce a comportamenti che si scostano dalle norme dominanti all’interno del gruppo. La devianza è violazione delle aspettative e si lega moltissimo ai ruoli sociali. Nella prospettiva interazionista è importante capire questi codici, che visti dall’interno hanno una loro logica” (D’Agostino, 1984).
Abbiamo precedentemente rilevato che l’io si costruisce nel processo di interazione con gli altri; nell’attività di relazione con gli altri scopriamo cosa siamo - cioè le categorie a cui siamo stati assegnati - e, entro un certo limite, determiniamo che cosa saremo.
Si può pretendere di essere un certo tipo di persona, ma questa volontà deve essere dotata di senso nella cultura in cui si è inseriti, in cui si vuole farla valere.
Naturalmente, per far valere le nostre pretese, dobbiamo convalidarle rispondendo alle aspettative culturali annesse al ruolo; sapremo di aver fatto ciò quando gli altri, con le loro reazioni, ci indicheranno che ci hanno accettati come esempi validi del ruolo (Cohen, 1966).
Questo significa che ognuno è continuamente occupato in un processo che dura tutta la vita, prosegue Albert K. Cohen (1966), di costruire, di mantenere o di riformare di nuovo se stesso; lavorando all’interno del ruolo fornito dalla propria cultura, ciascuno gioca ad essere questo o quel tipo di persona, osserva il suo successo o insuccesso a seconda delle reazioni degli altri, scopre se gli è facile o difficile riuscire e se ne vale veramente la pena.
Non tutti i ruoli con cui ci identifichiamo, ovviamente, sono cercati e perseguiti attivamente; ce ne sono alcuni, come l’alcolista o l’ex-carcerato, a cui possiamo attivamente resistere e che rifiutiamo; o il ruolo di ammalato mentale che possiamo accettare passivamente rassegnati.
In ogni caso, quando non riusciamo ad evitare d’essere pubblicamente identificati con questi ruoli e siamo investiti da tali caratteri devianti, rivela Erving Goffman (1963; 1969), il più originale e fecondo continuatore del lavoro di Mead, agiamo ancora per evitare l’identificazione con il ruolo, esprimendo così la nostra identità reale, per accentuare la natura secondaria, temporanea e subordinata del ruolo in confronto ad altre componenti più accettabili della nostra identità e per limitare la conoscenza del ruolo a circoli in cui la pubblicità è inevitabile e le conseguenze meno dannose.